Intervista con uno dei maggiori esponenti italiani della piattaforma: Farenz. Tra videogiochi, cinema e un arrivo che gli cambierà la vita.
Il mondo riguardante YouTube, la piattaforma video più famosa del web, è sempre più in via di espansione, soprattutto nel nostro paese. Se prima fare lo youtuber veniva considerata una flebile passione, quando non addirittura una perdita di tempo, al giorno d’oggi può essere a tutti gli effetti ritenuto un mestiere come tutti gli altri. Basti pensare, ad esempio, che il più famoso youtuber italiano, l’ormai famigerato FaviJ, guadagna annualmente intorno ai 400.000 euro, come rivelato dal sito internet Forexinfo.it. Ogni creatore di contenuti, ovviamente, utilizza il sito per proporre quello in cui si riconosce di più. Tra recensioni, gameplay, corti e vlog, YouTube pullula ormai di video riguardanti ogni genere possibile di intrattenimento. Un fenomeno destinato a non arrestarsi e che, potenzialmente, può diventare sempre più potente ed eclatante. Tornando all’aspetto ristretto del nostro paese, uno dei personaggi più seguiti e stimati dalla community è senz’altro Marco Farina, ragazzo cremonese che – con lo pseudonimo di Farenz – ha trovato la chiave giusta per parlare di videogiochi. Nostalgico, concreto, preparato e appassionato, Farenz è il prototipo dello youtuber atipico. Ed è proprio lui in persona a raccontarsi dettagliatamente, e in esclusiva, per il nostro magazine.
I – Il capitolo Youtube
Innanzitutto, una domanda che potrebbe sembrare scontata ma che forse non lo è. Conosciamo bene Farenz. Ma chi è, invece, Marco Farina?
«È quello che mi scrive i video! No, molto semplicemente: ho da poco trentacinque anni, sono di Cremona, ho aperto il canale tanti anni fa, otto ormai. Il blog, L’Angolo di Farenz, l’ho aperto un anno dopo. Sono uno che sta su YouTube, ma non mi considero youtuber al cento per cento, più che altro perché ho deciso di impostare il canale all’insegna del fare qualcosa nel tempo libero che mi divertisse, e che mai sarebbe dovuto diventare un lavoro. Così è rimasto, e lo è tutt’ora. Non perché io creda che fare lo youtuber non possa essere una professione vera e propria. Ma, conoscendomi, so che – se YouTube diventasse la mia vera e propria professione – automaticamente dopo un po’ perderei la passione: non sarebbe più un passatempo ma un obbligo. Ho preferito tenere sempre ben separate le due cose».
A proposito del tuo impegno con YouTube Italia, frequenti questo mondo da ormai tanti anni. Nel corso del tuo soggiorno ti sei sempre tenuto lontano da sterili polemiche e altre questioni negative. Qual è il tuo parere sulla community che popola il sito?
«Guarda, è una domanda a cui posso rispondere solo in parte, perché sono sempre stato piuttosto distante da questo mondo – mi riferisco proprio alla piattaforma, dato che a differenza di altri io carico video con minore frequenza – e dunque mi tengo abbastanza alla larga dal concetto comune di youtuber e di community. Faccio lo stesso anche con le faide che spesso avvengono tra i vari esponenti del sito, sia perché non mi interessano sia perché non ho proprio tempo di starci dietro».
E forse è anche meglio così.
«Sicuramente. Io lo capisco: è naturale, siccome YouTube è diventato ciò che era la televisione per me quando avevo quindici anni, che le dinamiche presenti in quel medium stiano pian piano arrivando anche sul sito. Ovvio, con il tempo ho anche conosciuto persone che erano presenti da più tempo sulla piattaforma, e che si sono rivelate in maniera diversa da come le immaginavo. Ma di base, ripeto, sono sempre stato lontano da tutte queste sfumature».
II – I videogiochi moderni
Tu sei certamente un videogiocatore esperto. Quando hai capito che non avresti potuto fare più a meno dei videogiochi?
«Bella domanda. È successo molti anni fa, probabilmente in due diverse fasi della mia vita. La prima, all’inizio degli anni ’90, è stata quando ho capito che, nel passaggio da una generazione all’altra, ciò che di meglio si proponeva in quel determinato momento storico era talmente bello che sarebbe stato il mio pane quotidiano. Non era solo una passione, ma anche il fatto che io volessi rimanere aggiornato sia sul mondo hardware che sui giochi. La seconda volta è stata verso i quindici anni, quando mi sono un po’ distaccato dal mondo delle console: giocavo molto su PC, ma decisamente meno di quanto avevo fatto prima e di quanto avrei fatto dopo. Un po’ perché iniziavo a uscire con gli amici, un po’ perché cominciavo a interessarmi alle ragazze. Poi son tornato sui videogiochi e sulle console, più o meno al momento dell’uscita della PS2. Son tornato a giocare con più costanza e non ho più smesso».
Dopo tutti questi anni trascorsi sui videogame, sai dirmi qual è l’elemento old school che secondo te manca a queste ultime generazioni?
«La prima cosa che mi viene in mente è la vicinanza fisica con un amico che stia vicino a te. Sia in maniera cooperativa, come nei mille giochi delle Tartarughe Ninja, sia a livello competitivo come in Street Fighter 2. Questa è una modalità di gioco che negli anni è diventata sempre meno importante per la massa e sempre più soppiantata dalla rete, fino ad arrivare al giorno d’oggi, dove la vicinanza è una componente rara da ritrovare. E questo mi spiace, però da un certo punto di vista bisogna anche fare buon viso a cattivo gioco. È normale: se io, mentre parlo con te, gioco a Mario Kart sul 3DS con un ragazzo giapponese, allora capisco che per il punto di vista di chi sviluppa i videogiochi il poter giocare uno di fianco all’altro è diventato quasi inutile. Mi dispiace, certo, ma ne comprendo le motivazioni».
Una componente multiplayer online, peraltro, è quella verso cui l’industria sembra essere sempre più indirizzata.
«Capisco che i quindicenni di oggi, ad esempio, non abbiano mai nemmeno conosciuto l’aspetto di cui parlavamo prima. Capisco anche che, per loro, giocare online con gli amici sia un qualcosa da fare ciascuno a casa propria. Quindi, essendo questa la fetta di mercato più ampia dei videogiochi, è ovvio che le case di sviluppo cerchino di puntare maggiormente sui bisogni di questo particolare target».
III – Questione di nostalgia
I videogiochi sono davvero cambiati in peggio, mancando delle emozioni presenti un tempo, oppure il ricordo della nostra infanzia nasconde i difetti dei vecchi giochi?
«La risposta è praticamente nella seconda parte della domanda. Consciamente o no, ci ricordiamo di giochi della nostra infanzia con grande affetto, andando a denigrare quelli che sono i giochi attuali. Questo, secondo me, deriva dal fatto che leghiamo la nostra infanzia a quei videogiochi: essendo il periodo più felice, tutto ciò che toccavamo ci appare adesso come irripetibile. E sotto certi punti di vista è anche vero. Però ciò non implica che la modernità faccia schifo, anzi: sono convinto del fatto che, se tutti i giochi di oggi non mi divertissero, sicuramente avrei abbandonato questa passione. Certo, esistono dei titoli a cui sono legato, e spesso corrispondono a titoli della mia infanzia. Un po’ per il motivo precedente, ma un po’ anche perché spesso le meccaniche dei giochi moderni riprendono quelle dei vecchi titoli, come in molti giochi della saga di Zelda. Quindi sì, mi piacciono i giochi nuovi, ma dal punto di vista innovativo non possono eguagliare ciò che rappresentarono giochi come quelli del NES o del MegaDrive».
Un altro segno che le mode si ripetono nel corso del tempo e che l’evoluzione prende sempre spunto da elementi del passato.
«Ai giorni d’oggi è più probabile trovare l’innovazione a tutti i costi nel mercato degli indie. Gli sviluppatori indipendenti sono quelli che negli ultimi anni, almeno in teoria, hanno idee nuove, e questo per forza di cose: sia perché devono farsi conoscere, sia perché nel mercato dei tripla A è molto più difficile innovare. Sviluppare un videogioco, ormai, impone degli investimenti talmente alti che è diventato facilissimo chiudere bottega dopo due flop di fila. Comprendo il perché una casa videoludica sia più invogliata a proporti un venticinquesimo capitolo di Gears Of War, che bene o male riesce a vendere, piuttosto che un titolo nuovo che però potrebbe non vendere. Tanto di cappello a Ubisoft, ad esempio, che spesso ha ammesso come il proporre un titolo come Assassin’s Creed a cadenza annuale serva sostanzialmente per battere cassa, e poter dunque investire in titoli nuovi– e magari interessanti – come ad esempio Child Of Light».
IV – Videogiochi e altro
Analizziamo brevemente il rapporto tra cinema e videogiochi, con lo storytelling che diventa sempre più importante nei videogame di oggi.
«È grottesco che io, proprio a breve, debba andare a vedere il film di Assassin’s Creed! L’esperienza mi dice che l’accoppiata è un disastro, difatti non ho molte aspettative su questo film. Questo perché ormai siamo abituati a giocare dei titoli talmente complessi dal punto di vista della trama, e talmente lunghi, che il fatto di concentrare una trama del genere in un film di due ore mi lascia perplesso. Se domani uscisse un film di Metal Gear da una parte sarei felicissimo, perché è una delle mie saghe preferite di sempre. Poi, però, mi chiederei come sia possibile concentrare tutto in due ore e mezza di film. Di base, i videogiochi e i film sono due mondi da separare, nonostante la contaminazione degli ultimi anni. Trovo molto difficile arrivare al punto d’incontro che possa soddisfare gli amanti dei film e quelli dei videogiochi. Sinceramente non mi vengono in mente film tratti da videogiochi che mi siano piaciuti particolarmente, ad esclusione forse di Mortal Kombat, un film tamarro quasi quanto il gioco. Non sono molto convinto che sia possibile un matrimonio tra questi due generi. Al contrario, nei videogiochi sono sempre più presenti sequenze cinematografiche, sia a livello di inquadrature – come in Uncharted – sia a livello di trama: si pensi a Heavy Rain, che alla fine è un poliziesco di sei o sette ore».
Qual è il tuo parere, invece, sul proliferare di giochi rilasciati in anticipo, nelle loro versioni beta e alpha? Può essere davvero dannoso per i mercati?
«Sì e no. È lo stesso discorso di quando uscivano le demo dei giochi. Ovviamente, se io gioco a una beta che non mi piace, inizio a pensare di cancellare un pre-order o cose del genere. È un terno al lotto. In genere, difficilmente si assiste a disastri a livelli di beta, visto che la maggior parte di queste versioni sono pensate per testare il multiplayer. Da una parte è un male perché viene meno la figura del beta tester, il che è una cosa tremenda. Lasciare il beta testing alla gente comune, felice di provare il gioco quando poi magari è davvero da modificare al meglio, è una cosa che un po’ mi spiazza. Capisco però che, dal punto di vista dei costi, l’idea di rilasciare questa beta ti consenta di raggiungere il tuo scopo e di risparmiare sulla fase precedente e interna. Oggi purtroppo, secondo me, si tende a scambiare la beta per la demo, cosa sbagliata. A livello di mercati non può far troppo male, perché in fondo c’è sempre stato il problema delle demo che ti fanno cambiare idea. Inoltre, soprattutto negli sparatutto, le beta venivano giocate con gioia anche perché ti danno l’esperienza che serve durante il gioco. Una sfaccettatura che a molti può interessare».
V – Cambiamenti in vista
Nell’ultimo video hai parlato di un upgrade notevole per la tua vita. Come pensi che l’arrivo di tua figlia possa influenzare il tuo rapporto con i videogiochi? Ti senti pronto, magari, a condividere questo aspetto della tua vita con lei?
«Non sono sicuramente il primo videogiocatore che diventa padre. Conosco molte persone che continuano a videogiocare nonostante la paternità. È bene o male ciò che mi aspetto io. Ovviamente avrò meno tempo libero, ma non è necessario che un giocatore si annulli per venire incontro ai figli. Certo, bisogna far fronte a necessità che soprattutto nei primi mesi sono imprescindibili. Però il tempo per portare avanti le mie passioni ci sarà sicuramente. Dal punto di vista del coinvolgimento di mia figlia, sinceramente non è una cosa a cui io punti particolarmente. Se interesserà anche a lei, ben venga, altrimenti pazienza. Non ho mai cercato di imporre a mia moglie sessioni di videogioco con me, e non lo farò certo con mia figlia».
Parliamo di qualcosa di maggiormente ilare: Farenz, è meglio Aziz o Antoine?
«Aziz è più spiritosone, l’altro invece è una colonna portante perché rappresenta qualcosa di più. Alcuni mi chiedono se sono la stessa persona: ovviamente no, ma Antoine rappresenta sempre la stessa situazione. Ovvero quella in cui un utente mi manda una mail, io rispondo e a lui la risposta non è piaciuta, quindi si inalbera e mi risponde male!»
Ma soprattutto: che fine ha fatto il Dottor Avo?
«Ironicamente è proprio con lui che vado a vedere il film tra poco. Ovviamente, col passare degli anni, ci troviamo sempre bene. Abbiamo entrambi i nostri impegni, anche lui adesso è diventato più pantofolaio. Fare video insieme è ormai improponibile. Ma sta bene, questo lo posso assicurare!»
VI – Il questionario
Abbiamo deciso di chiudere le nostre interviste con il questionario di Bernard Pivot, in pieno stile Inside the Actors Studio.
Innanzitutto: la tua parola preferita?
«Mi cogli impreparato. Ce n’è una, ma non so se si può dire». [È una delle prossime risposte, NdR]
Quella che ti piace di meno?
«PC».
Cosa ti stimola a livello creativo o intellettuale?
«Mi fa stare bene fare cose che mi divertono. So che è una risposta un po’ banale, ma è il mantra del mio canale: se io per tre mesi non ho nulla da dire, allora non dico nulla. Non ho nessun obbligo di pubblicare un video al giorno. Fare video è una cosa che mi divertiva otto anni fa e che mi diverte ancora adesso, a patto che io abbia qualcosa di cui parlare e che quindi mi diverta. È questo l’aspetto dell’Angolo che tuttora me lo fa tenere aperto».
Cosa, invece, ti abbatte o ti spegne?
«Il lavoro. O meglio, avere poco tempo libero rispetto a cinque o sei anni fa. Ovviamente, da videogiocatore a cui piacevano i titoli molti lunghi, questo è un male. Non a caso ho iniziato a giocare a Final Fantasy XV durante le ferie, sapendo di avere più tempo. L’anno scorso, invece, avevo cominciato nello stesso periodo Fallout 4: già l’ho trovato noioso, ma è anche durato due mesi. Riuscire a portare avanti un gioco così lungo è problematico».
La tua parolaccia preferita?
«Direi “figa”. Non perché io voglia essere per forza sboccato, ma è un qualcosa che fa parte proprio dell’intercalare cremonese-lombardo. Vogliatemi bene lo stesso!»
Un suono o un rumore che ami.
«Il rumore che fa la soundbar, significa che posso concedermi una sessione videoludica».
Quello che maggiormente detesti.
«Il suono di accensione dell’Xbox One, una console che purtroppo mi ha dato più dolori che gioie».
Quale mestiere avresti voluto svolgere, qualora tu non fossi stato impegnato in quello attuale?
«Se mi avessero fatto questa domanda quando avevo quindici anni avrei risposto due cose: lo psicologo o il tiratore scelto. Le vicissitudini della vita mi hanno portato a fare il servizio civile ma non quello militare, e non ho studiato psicologia all’università. In seguito la mia vita ha preso altre derive, ma anni fa avrei segnalato queste due opzioni».
Il lavoro che invece non faresti mai?
«Il lavoro illegale. Dal punto di vista lavorativo, qualsiasi tipo di mestiere ha la sua dignità. Nel momento in cui tu per lavoro non vieni a rompere le scatole in maniera negativa o illegale, finché vivi nella legalità, qualsiasi lavoro è lecito. Non farei mai lo spacciatore o il pappone, per dire».
Se il Paradiso esistesse, cosa vorresti che ti dicesse Dio al momento del tuo arrivo?
«Non credo proprio che lo incontrerei, non penso che quella sarebbe la mia destinazione!»
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