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Internet è un brutto posto: l’Hotel Rigopiano, la Boldrini e altre tragedie

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Laura Primiceri

Internet che ti condanna

26 aprile 2007. Internet e Facebook non hanno (ancora) permeato così tanto le nostre vite. Siamo a Roma, Doina Matei (ventun anni) uccide la ventitreenne Vanessa Russo al culmine di una lite in metropolitana. Dopo una breve fuga viene arrestata e condannata a sedici anni in via definitiva. Ne sconta nove, poi le viene concessa la semilibertà. Durante un permesso, Doina va al mare, si fa fotografare in bikini e commette un gravissimo errore: posta la foto su Facebook. I giornalisti la scoprono, la diffondono e scoppia il caso mediatico: piovono critiche da ogni dove, perché lei è un’assassina e dunque non ha diritto a sorridere, ad andare al mare, a cercare di ricostruirsi una vita nonostante stia pagando per quello che ha commesso. E, più grave ancora, Doina Matei è rumena, ovvero la personificazione del male, dello straniero che ci invade per uccidere le nostre donne e rubarci tutto quello che abbiamo, certo dell’impunità, sprezzante delle leggi. No, lei non ha più diritto a una vita normale, dopo quello che ha fatto.

Peccato, però, che Doina il diritto a una vita normale ce l’avrebbe eccome, se non fosse che i leoni da tastiera dall’indignazione facile hanno deciso il contrario. Il polverone che si solleva è tale che lo stesso giudice che aveva concesso la semilibertà riesamina il caso, riscontra che la condotta di Doina ha contravvenuto alle regole stabilite (le erano concessi dei contatti limitati solo via telefono e solo con alcune persone e il profilo Facebook era stato aperto sotto pseudonimo) e revoca il privilegio. Il “popolo del web” è contento, giustizia sommaria è stata non solo fatta, ma anche legittimata dalla giustizia ordinaria. In quell’occasione, quell’agglomerato di populismo e buoni sentimenti che è Massimo Gramellini scrisse: «Se ammazzi una persona, dovresti almeno avere il pudore di tenere per te le tue emozioni gioiose, senza ostentarle e tantomeno condividerle con chi patisce ancora le conseguenze del tuo delitto. Chi uccide per futili motivi mostra scarsissima considerazione del prossimo. Nove anni di carcere dopo, Doina Matei continua a infischiarsene degli effetti delle sue azioni. Viene il sospetto che per lei la pena, oltre che breve, sia stata inutile». Come a dire, l’antica legge del taglione rivisitata nell’era del 2.0. Hai ucciso? Devi morire anche tu. E se non puoi morire fisicamente, perché c’è una legge superiore che non lo consente, devi morire dentro. Lentamente. Giorno per giorno.

Doina Matei. Foto: Facebook

Per la cronaca, a maggio 2016 la Matei è tornata in semilibertà.

L’arte del mostrare rispetto

Gennaio 2017. Una valanga di fango e neve si abbatte sull’Hotel Rigopiano, sul versante pescarese del Gran Sasso. Le ripetute scosse di terremoto, insieme a una nevicata di eccezionale portata, condannano gli oltre quaranta occupanti dell’albergo. Circa la metà muoiono, ma per fortuna alcune sacche d’aria createsi nei locali devastati salvano un gran numero di ospiti, tra cui alcuni bambini. Le immagini dei salvataggi rimbalzano tra televisione e social, provocando un grande coinvolgimento emotivo: le pagine Facebook dedicate alle vittime, ai sopravvissuti e soprattutto agli “angeli soccorritori” nascono e macinano numeri impressionanti di like nel giro di secondi.

Internet vuole empatizzare, vuole partecipare, vuole che si sappia che si è tutti compatti dalla parte giusta. Non fa niente se l’hotel era abusivo, se era stato condonato a botte di mazzette, se era stato costruito e poi ampliato sfruttando permessi concessi da amministratori compiacenti. La struttura che ora è la tomba di oltre venti persone non doveva essere lì, ma di questo sembra che non importi nulla a nessuno. Bisogna dimostrare vicinanza ai Vigili del Fuoco, sempre più in odore di santità, ai cani di montagna («Vediamo se adesso hai il coraggio di appendere il cartello ‘Io non posso entrare’!!!» recita un’immagine che in questi giorni ha rimbalzato sulle bacheche più o meno di tutti), a chiunque abbia una bella favoletta da raccontare. E allora via libera allo sciacallaggio online, allo scavare morboso nelle vite dei protagonisti per cercare una foto, un nome, un appiglio che dia la stura a una nuova sfilza di commenti e like, in una spirale di squallido voyeurismo che si autoalimenta ogni volta che l’ennesimo cuore caritatevole scrive «Amen» e condivide.

Giorgia Galassi. Foto: Facebook

Anche qui, però, accade qualcosa che fa inceppare il meccanismo. Giorgia Galassi, una dei sopravvissuti insieme al suo fidanzato, dopo essersi ripresa dallo choc della brutta avventura decide di postare uno status di ringraziamento a tutti coloro che le sono stati vicini, seguito poi da una serie di foto con lei sorridente. Apriti cielo. Il web, lo stesso web che pochi attimi prima era intensamente impegnato a condividere preghiere e speranze di salvezza, si rivolta contro una dei destinatari delle suddette preghiere, rimproverandola aspramente per la sua mancanza di tatto. «Non pensi a chi è ancora lì sotto?», «Devi ringraziare Dio» e via berciando. Perché, secondo il popolo di internet, se hai subito una disavventura tu non puoi andare avanti. Devi continuare a portare la croce della tua sfortuna almeno fino a quando una nuova tragedia non distoglierà l’attenzione delle masse, che si dirotteranno verso nuovi lidi dello sconforto lasciandoti libero di vivere (ma attenzione, non tantissimo). La felicità dovrà essere sempre moderata, velata di malinconia, pregna di riferimenti costanti all’accaduto, pena l’accusa più infamante: la mancanza di rispetto. Verso chi, o verso cosa, non è chiaro. Bisogna avere rispetto, sempre, secondo parametri stabiliti da una massa di persone che si esprime (male) digitando in maniera incerta e piena di errori su PC e smartphone traboccanti di malware, beccati navigando a vista nel mare magnum di un internet ancora troppo vasto per essere compreso appieno.

La forza della folla

Nel suo saggio più celebre, La psicologia delle folle del 1895, il sociologo e filosofo francese Gustave Le Bon analizzava il concetto di ‘folla’ come entità a sé, che trae la propria forza e il proprio senso di esistere dall’unione dei singoli che la compongono, fino a diventare una massa informe che agisce secondo regole proprie tanto più forti quanto più alto è il numero dei componenti. La folla, secondo Le Bon, è livellata verso il basso: l’intelligenza viene portata al minimo, l’espressione di emozione e sentimenti segue un iter ben preciso e uguale per tutti. Forte della sua identità in quanto tale, la folla non sente le pressioni della responsabilità; si sente impunita, e punta quasi solo alla propria autoconservazione, da preservare con ogni mezzo. Non è un caso che La psicologia delle folle fosse uno dei testi di riferimento delle grandi dittature del ventesimo secolo, il che spiega bene come possa essere stato possibile l’annullamento popolare che spianò la strada al periodo più buio della storia europea.

Il Ventennio è passato da un pezzo, eppure gli studi di Le Bon appaiono straordinariamente attuali se applicati all’era digitale in cui viviamo. Dietro un PC o uno smartphone siamo una folla indistinta, la nostra voce raramente può spiccare nella sua unicità. Appare altissimo, quindi, il rischio di voler seguire una corrente di pensiero dominante per uniformarsi, sentirsi parte di un tutto, accettati e compresi a costo della nostra capacità di discernere. La folla ha sempre ragione, e chi impara a maneggiarla ha vinto: ha vinto anche, purtroppo, quando si esprime per mezzo di insulti, condanne, anatemi e quant’altro di negativo infesta i social network e le “aree commenti” di qualsivoglia sito. Non basta ergersi a voce fuori dal coro. La folla ti travolge, ti fa abbassare al suo stesso livello e poi ti batte per esperienza; non ascolta nulla se non le proprie idee, che porta avanti in maniera caparbia, contro ogni evidenza, e questo lo hanno ben colto i tanti movimenti politici che si sono distinti per una spiccata dose di populismo nei loro programmi (Beppe, stiamo parlando di te). Canalizzare l’onda dirompente della folla intesa nel più puro senso leboniano significa acquisire un’affermazione senza mezzi termini, facilmente manipolabile e monetizzabile.

Signora Maria vs Laura Boldrini

Laura Boldrini. Foto: lauraboldrini.it

Un’altra personalità che sta imparando a sue spese cosa vuol dire avere a che fare con la folla è la presidente della Camera Laura Boldrini. Sin dal giorno del suo insediamento è diventata il bersaglio preferito dei siti di clickbaiting, che l’hanno resa protagonista delle più ardite (e ovviamente false) dichiarazioni impopolari, a tema pro immigrati soprattutto. Un testimone scomodo, ereditato da Cècile Kyenge, strumentale a fomentare l’odio e i bassi istinti di cui la folla si nutre. A questo si aggiunga una naturale propensione della stessa Boldrini a rendersi poco simpatica con uscite (autentiche) a volte fuori luogo e la frittata è fatta. Su internet, ovviamente, gli insulti che la vedono come bersaglio sono innumerevoli, dai più innocenti e goliardici fino ad arrivare ad autentiche minacce da codice penale. Accade che proprio la terza carica dello Stato decida di fronteggiare questo mare di melma avvalendosi della consulenza di esperti di bufale del web e debunking, e colga l’occasione per denunciare lo stillicidio a cui quotidianamente è sottoposta pubblicando degli insulti presi a caso dalla valanga che infesta la Rete. Uno di questi è della signora Maria della provincia di Ascoli Piceno, che capisce di averla fatta grossa. La folla, che prima proteggeva Maria come parte di essa e le garantiva copertura, si apre e la isola, esponendola al pubblico ludibrio. Vistasi scoperta, Maria piange, si pente e chiede scusa, si giustifica o tenta di farlo tirando in mezzo l’ignoranza e la certezza di sentirsi impunita. Invitata dalla Boldrini alla Camera non si presenta, per troppa vergogna. La storia della signora Maria insegna che, nonostante gli sforzi che la società pone per offrire democratici mezzi per elevare lo spirito, l’ignoranza continua a macinare numeri sempre più grossi. Enrico Mentana, protagonista dalla sua pagina Facebook di una vera e propria crociata contro i leoni da tastiera, li chiama “webeti”, coniando un neologismo diventato virale in brevissimo tempo.

Il webete è ovunque, passa le sue giornate su internet a pontificare su qualsiasi cosa, ergendosi a tuttologo, massimo esperto di tutto, soprattutto di ciò che non ha mai sentito nominare. Non legge, non apre un giornale, si “informa” solo su internet e solo su tzetze e cosechenessunotidirà, crede a qualsiasi cosa gli propinino purché essa sia in linea con il suo sentire e s’impegna profondamente a diventare cassa di risonanza a qualsiasi falsità passi sotto ai suoi occhi, affinché sia funzionale a mandare avanti la sua idea del mondo. Per ogni Chicco Mentana, ci sono milioni di signore Maria. Non sembra esserci una cura, al momento. Invocare la censura e la revoca del diritto di voto non fa che aumentare la voglia di polemica e complotto; di contro, ignorare questa legione di ignoranti appare sempre più difficile, specie quando viene loro chiesto di dirimere questioni importanti (leggi: l’ultimo referendum costituzionale).

I webeti sembrano essere una malattia per la quale non esistono cure o vaccini. Tranne forse una: l’intelligenza. In hoc signo vinces.

 

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Laura Primiceri

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