Storie e social network vanno ormai di pari passo, in un mondo sempre più globalizzato a livello di collegamenti web. In rete si può trovare davvero qualsiasi cosa – anche se ovviamente non sempre questo può essere necessariamente un bene – e, tra i tanti progetti, quelli fotografici risultano essere molto spesso i più riusciti e appassionanti. In un’era fatta di reflex e post produzione è però a tratti romantico poter osservare immagini provenienti dal passato. Fotografie senza filtri, in ogni senso. Immagini che colpiscono più che altro per il messaggio, celato o ben visibile, che riescono a inviare. Il cuore, gli occhi e la mente sono pronti alla ricezione, qualsiasi sia l’emozione da accogliere. Perché spesso il momento che rimane più impresso è quello che resta fermo, che non ha tempo. Un attimo immortalato che entra nella storia.
Tutto nasce da due parole greche: phòs, photòs (luce) e graphìa (segno). Perché un’immagine riprodotta tramite apparecchio non è altro che un disegno di luce. Qualcosa che, secoli fa, pareva avere quasi accezioni divine, ma che ha poi trovato nella scienza e nell’ingegno dell’uomo le risposte giuste per emergere dall’oscurità.
Dapprima uno strumento utilizzato principalmente per ritratti, la fotografia assunse con il passare degli anni – e l’avvento delle nuove tecnologie – un’aura sempre più artistica. Uno dei suoi principali sostenitori, Peter Henry Emerson, la definì arte pittorica, abbinandola dunque a un’altra splendida manifestazione di intensa bellezza. La vera qualità della fotografia è quella di essere uno strumento piacevolmente affascinante quanto estremamente utile. Il potere delle immagini è forte, diventa quindi importante per trasmettere e tramandare eventi, paesaggi, volti più o meno noti. Diviene dunque vero e proprio mezzo di ricerca storica, di racconto illuminato delle vite che compongono il senso di tutto. Ogni immagine porta con sé un frammento di verità. Una verità difficile da estirpare, se non impossibile. Perché definitivamente solida, tangibile, umana.
Forse la citazione più bella sulla fotografia è quella donataci da John Hedgecoe, fotografo britannico deceduto nel 2010. In una semplice quanto impattante frase, contenuta nel suo libro Il nuovo manuale del fotografo, quest’uomo spiegò con saggezza e ammirazione tutto ciò che lo aveva rapito riguardo tale maniera di scrivere la storia: «La fotografia è probabilmente, fra tutte le forme d’arte, la più accessibile e la più gratificante. Può registrare volti o avvenimenti oppure narrare una storia. Può sorprendere, divertire ed educare. Può cogliere e comunicare emozioni e documentare qualsiasi dettaglio con rapidità e precisione».
Proprio l’aspetto internettiano della vicenda ha però potuto dare slancio a pagine che sono diventate una realtà apprezzata, poiché raccolgono impressioni, sguardi, racconti. Tutti diversi tra loro, così come infinitamente intriganti. Uno dei progetti più interessanti è sicuramente quello de Le fotografie che hanno fatto la storia, pagina Facebook divenuta un contenitore di foto d’epoca ma anche di storie dark o più leggere. Tutto, ovviamente, all’insegna di immagini e fotografie che, appunto, hanno finito per fare la storia, entrando nell’immaginario collettivo e nella cultura popolare.
Per comprendere motivazioni, scelte e sensazioni che hanno portato alla creazione di questo bellissimo progetto – il quale ha ricevuto e continua a ricevere attestati di stima e di emulazione – abbiamo intervistato la creatrice della pagina. Una ragazza come tante che, per fortuna, ha avuto la volontà e l’intelligenza di condividere con il prossimo tante schegge del passato.
La prima domanda è forse anche la più importante: chi si cela dietro il progetto Le fotografie che hanno fatto la storia?
«Alessandra Gigli, ventitré anni, di Reggio Emilia».
Il tuo è un progetto davvero intrigante, soprattutto perché attraverso le foto si possono quasi toccare con mano emozioni, dettagli e contesti. Personalmente, qual è il sentimento principale che ti invade quando guardi una foto che, a suo modo, può essere considerata storica?
«Dipende dalla fotografia in questione, perché in base al soggetto – o a come è stata scattata – provoca in me sensazioni diverse. La cosa più importante per me è che sia in grado di suscitarmi qualcosa, dallo stupore alla rabbia alla tristezza. Se è una bella fotografia ma non mi permette di viaggiare con la mente, allora non la considero un capolavoro».
Ogni immagine racconta ovviamente storie diverse, con differenti epiloghi: qual è quella che ti ha incuriosita di più?
«La fotografia di Alexander Supertrump. Ho visto il film da piccola e la ritenevo una storia puramente cinematografica. Oppure la fotografia del ritrovamento della Gioconda. La storia del suo furto è qualcosa di fantozziano».
Quale reputi sia invece la più emozionante?
«La fotografia di una signora svedese che colpisce con la borsetta un neonazista. Suscita tantissime emozioni contrastanti, perché la scena in sé è quasi comica, ma poi si scopre il motivo del suo gesto e si passa all’ammirazione e anche alla tristezza».
E quella che più ti ha spaventato?
«Tutte le fotografie dei campi di concentramento. Non riesco a capire come l’uomo possa fare qualcosa di simile alla sua stessa specie».
Invece, quella che ti ha maggiormente divertita?
«A Llama in Times Square di Inge Morath. Mi strappa sempre un sorriso».
Per cercare la foto giusta molto spesso ci vogliono ricerche notevoli. Ti è mai capitato di dover cercare una determinata immagine e, magari, trovarne una più interessante che riguardasse un’altra storia?
«Spessissimo. Ma non abbandono mai una storia perché sono tutte uniche e particolari, anche se magari meno interessanti di altre».
La community sviluppatasi sotto la tua pagina Facebook sembra essere tra le più corrette e meno rissose del social network. Cosa pensi abbia fatto la differenza in tal senso?
«Forse il fatto di pubblicare post molto lunghi contribuisce a scremare i leoni da tastiera, che solitamente si fermano a leggere alla quarta riga. Chi ha voglia di leggere di solito sa bene come esprimersi senza essere volgare o offensivo. Poi magari anche lo stile del post stesso influisce, a livello inconscio, sugli utenti».
Nel corso del tempo la tua pagina è diventata frutto di emulazione (con la nascita, ad esempio, di Le fotografie che hanno segnato un’epoca) ma anche di sfottò (non a te, bensì al concetto, come ad esempio Fotografie Segnanti). Quale delle due ramificazioni preferisci?
«Assolutamente la versione comica. Le altre sono brutte copie, nate emulando un’idea preesistente, mentre Fotografie Segnanti è frutto di un’idea originale e, nonostante il tono leggero e scanzonato, c’è un grande lavoro dietro».
«Come nostra consuetudine, chiudiamo le nostre interviste con il test di Bernard Pivot, un questionario famosissimo ripreso anche nella trasmissione Inside The Actors Studio».
Dunque, qual è la tua parola preferita?
«Pesca».
Quella che invece non riesci a sopportare?
«Nulla».
Che cosa ti stimola nella vita?
«Le sfide».
Cosa invece ti demoralizza?
«Non eccellere».
La tua parolaccia preferita.
«Cazzo».
Il suono che maggiormente apprezzi?
«Il rumore del phon».
Il suono che invece detesti.
«Il rumore di passi pesanti o strascicati».
Quale mestiere avresti voluto o vorresti svolgere, escludendo quello che già fai?
«La giornalista».
Quale lavoro invece non faresti mai?
«Venditore porta a porta».
Se il Paradiso esistesse, cosa vorresti dicesse Dio nel momento del tuo arrivo?
«Puoi incontrare tutte le persone che vuoi».
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