Gli italiani posseggono, ormai da svariati anni, etichette ben riconoscibili agli occhi di uno straniero. Accantonando per una volta le più infamanti e meno appariscenti, potremmo definire quello italico un popolo di santi, poeti e navigatori. A ben guardare manca però una categoria molto importante: quella dei doppiatori. Nel nostro Paese, infatti, il doppiaggio è assimilabile quasi a un concetto di arte. Perché gli italiani hanno plasmato una rivoluzione vera e propria in questo ambito, riuscendo a proporre il movimento nostrano come il maggior esponente di una fantasia divenuta reale: dare voce, anima e caratterizzazione made in Italy a persone lontane, diverse, teoricamente irraggiungibili.
Passano gli anni, ma il doppiaggio in Italia non perde tono né fascino, assume anzi contorni di palese qualità. I nuovi talenti “rubano” il mestiere dei fuoriclasse, voci incise sui muri e nei cuori dei cinema, nel bianco e nero dei film d’autore, nei profili di personaggi immortali. E se alcuni tra questi titani hanno guadagnato enorme popolarità e riconoscenza nel corso della carriera – come i vari Ferruccio Amendola, Francesco Pannofino e Luca Ward – altri, restando teoricamente “di nicchia”, rappresentano ugualmente un punto di riferimento per gli appassionati del settore.
Il futuro e il presente, invece, hanno nome e cognome precisi: Valentina Favazza poteva risultare una sorpresa anni fa, mentre adesso incarna perfettamente e con certezza la bravura e la professionalità dell’universo riguardante il doppiaggio. Con performance progressivamente sempre più convincenti – ha dato voce, tra le altre, a Jennifer Lawrence nella nuova trilogia cinematografica degli X-Men, oltre che a Shailene Woodley nella saga di Divergent – e un talento cristallino accompagnato da una grande volontà, l’artista aostana è riuscita a ritagliarsi un posto importante nell’Olimpo di questo mondo fatato. E l’intervista concessa al nostro magazine non fa che confermare tutte le splendide sensazioni che caratterizzano la più che redditizia carriera di questa giovane veterana del doppiaggio.
Tutti sanno che quello del doppiaggio è un mondo affascinante, e tantissimi ti avranno fatto domande sugli aspetti tecnici. A noi interessa una sfaccettatura più personale: che cosa senti quando doppi? E, soprattutto, quali pensi siano i prodotti a cui ti senti più vicina?
«Quando doppio le mie emozioni sono profondamente filtrate dal personaggio che interpreto. Lo sento un po’ come una seconda pelle, perciò non sono del tutto consapevole di dove inizia quello che provo io e finisce quello che prova lui. È una specie di magia, avviene soprattutto per i film di circuito, con tempi che permettono alla trame e al personaggio di passarti dentro e inglobarti in una specie di bellissimo mondo ovattato. La mia emozione ovviamente conduce, ma ha come una sua vita. È difficile da spiegare. Chiaramente bisogna sempre mediare tra emotività e tecnica, perché dobbiamo lasciarci andare senza però uscire dalle linee tracciate in precedenze da un altro attore o un’altra attrice. Amo i ruoli particolarmente differenti da ciò che sono io nella vita di tutti i giorni. Mi danno ovviamente modo di divertirmi maggiormente. E i drammi psicologici. Adoro i drammoni!»
Negli scorsi anni, tramite il regista Gabriele Muccino, è stata alimentata una polemica contro il doppiaggio, reo a volte di “togliere” qualcosa alle versioni originali. Le parole di Muccino hanno ridato fiato ai detrattori e consolidato la diatriba. Se tu dovessi fare uno “spot” a favore del doppiaggio, cosa diresti per convincere gli indecisi della bontà di questo mestiere?
«Direi che non serve che io li convinca di nulla con nessuno spot. Essere detrattore oggi è più una moda che altro. Questi sedicenti puristi della lingua originale che ancora declamano che il doppiaggio sia una cosa tutta italiana – quando in realtà si doppia in più di trenta paesi nel mondo, anche se nessuno di questi è specializzato come l’Italia – dovrebbero ormai sapere di essere liberi, oggi, di usufruire della lingua originale in qualsiasi momento. DVD, Sky, Netflix permettono liberamente di scegliere questa opzione. Tuttavia fa molto radical chic sparare sul doppiaggio, che è comunque un servizio e, non dimentichiamolo, in Italia soprattutto un’arte. Oltretutto noi stessi siamo consapevoli dell’importanza della versione originale. La parola stessa dice tutto: versione originale. Come potrebbe essere demonizzata? Nessuno ha la pretesa di migliorarla, né tantomeno intende tradirla. È la nostra guida. Vero è che i tempi sempre più ristretti delle lavorazioni, in nome della quantità piuttosto che della qualità, stanno rendendo sempre più difficili le realizzazioni di prodotti curati. E su questo purtroppo sono d’accordo. Ma il doppiaggio è, e resta, un’opzione. E nonostante i tanti ostacoli, in Italia è un’opzione di qualità. Chi vuole continuare a farsi grosso urlando che segue i prodotti in lingua non può avere che la nostra ammirazione, ma certo non la prenderemo sul personale».
Sei stata impegnata anche a teatro. Sappiamo che la domanda è un po’ cattiva, ma se tu fossi costretta a scegliere tra le due cose dove ti porterebbe il cuore?
«Amo il teatro. È la base di tutto. Serve a trovare noi stessi, anche magari in vista poi di saperci donare al cento per cento in sala, con le mille sfaccettature di cui ogni personaggio ha bisogno. Non smetterò mai di cercare il palcoscenico e la platea. Ma il mio sogno è sempre stato il doppiaggio. Il cuore alla fine mi porterebbe sempre lì».
Ormai da anni sei la doppiatrice ufficiale di Felicity Jones e Alicia Vikander, due attrici molto talentuose. Hai mai avuto modo di incontrarle? E, riguardo la seconda, ti sarebbe piaciuto doppiarla in un film così particolare come Ex Machina?
«Ho avuto modo di doppiarle entrambe nella maggior parte dei loro film, ma non ho mai avuto il piacere di conoscerle. Ho incontrato Lily Collins, in occasione della prima di Love, Rosie, ed è stata un’esperienza pazzesca, meravigliosa. Incontrare la Jones e la Vikander sarebbe un sogno. Non ho visto Ex Machina ma sono certa che, come sempre, Alicia Vikander abbia fatto uno splendido lavoro. Tuttavia, Alicia mi ha dato modo di accompagnarla in ruoli altrettanto particolari: mi posso dire soddisfatta».
Nel corso della tua carriera stai dimostrando di saperti abilmente adattare a differenti tipologie di prestazione vocale. C’è però un’attrice che è stata particolarmente difficile da seguire o reinterpretare?
«Ogni attrice ha le sue difficoltà, che possono essere semplicemente tecniche ma più spesso interpretative. The Danish Girl, ad esempio, è stato un pugno alla bocca dello stomaco in ogni fiato (un meraviglioso pugno allo stomaco), per via dell’intenso trambusto emotivo che mi provocava. Poi c’è il personaggio di Pennsatucky in Orange Is The New Black, che vocalmente è difficilissima da riproporre e mi porta a trovare compromessi tecnici e recitativi per arrivare a ottenere lo stesso risultato».
Nel 2015 hai avuto modo di doppiare Rosie Huntington-Whiteley in Mad Max: Fury Road. Oltre a essere stato uno straordinario successo di critica e di pubblico, il film ha proposto delle protagoniste femminili con le spalle larghissime, accantonando finalmente il concetto trito e ritrito di “donzella da salvare”. Le stesse attrici hanno avuto modo di abbracciare l’ideale femminista durante le riprese, studiandolo e comprendendolo. Hai dovuto fare un lavoro simile per entrare totalmente nel ruolo? È possibile uscire definitivamente da questo cliché del cinema, riguardante la donna indifesa che può solo attendere il suo salvatore?
«Il mondo del cinema, purtroppo, è prevalentemente, senza aggiungere alla definizione più accusa di quanta non ne sottintenda la parola stessa, maschilista. Cambierà. Sta già cambiando, forse. Mad Max: Fury Road è probabilmente una goccia nel mare rispetto a questo cambiamento in stato embrionale, ma ha sicuramente significato molto, mettendo in prima linea queste figure femminili insospettabili, esili e straordinarie. Il cambiamento avverrà e starà nel portare l’immagine della donna di Hollywood non certo al di sopra dell’uomo ma quanto meno al suo fianco, sciogliendone le manette della damsel in distress nei ruoli, così come all’Academy. Ma grandi passi si stanno lentamente compiendo. Ad ogni modo, il mio impegno per il film in sé è stato breve e non ha necessitato di una qualche forma di preparazione. Rosie Huntington parlava poco, e noi lavoriamo solo sugli anelli (o scene) che interessano il nostro ruolo, perciò la mia partecipazione è stata breve e ha preso forma più che altro a film terminato, guardandolo tutto assieme».
Il tuo è un lavoro che in molti reputano affascinante quanto stressante. Sicuramente, come chiunque, avrai dovuto sacrificare qualche aspetto della tua vita personale per inseguire il tuo sogno. Premettendo che, evidentemente, ne è valsa la pena, torneresti indietro per cambiare qualcosa o credi che il tuo percorso abbia assunto una forma coerente con i tuoi obiettivi iniziali?
«I sacrifici ci sono stati, ovviamente, e sono stati miei come dei miei genitori, che mi hanno vista partire dalla placida Valle D’Aosta senza una vera certezza ad aspettarmi nella Capitale. Non cambierei nemmeno una virgola di quello che è stato il mio percorso. Trovo coerenza nella forma che ha assunto perché so con quanta fatica, mia e di chi mi ha sostenuto con l’affetto, l’ho costruito giorno dopo giorno. È uno di quei modi di sacrificarsi che a guardarsi indietro probabilmente ti chiedi: ‘ma lo saprei rifare?’. Eppure è passato come un soffio. Significa che ha dato i suoi frutti. Non mi sento arrivata comunque. Spero di ampliare la mia ricerca ancora e ancora e di stupirmi sempre dei risultati».
Hai avuto modo, durante questi anni, di lavorare con alcuni titani del doppiaggio. Tante sono però le voci che, al grande pubblico, per ora restano “sconosciute”. Se dovessi scommettere su qualche talento del futuro, quali nomi proporresti?
«Questa è una domanda difficile. Quando sono arrivata stimavo gran parte dei miei colleghi, ma erano tutti professionisti già largamente affermati. Nel ventaglio delle tantissime nuove leve, però, non c’è nessuno che io stimi che non abbia avuto modo di far notare il suo talento, anche su piccole cose magari. Poco importa. Non sono molti, ma questi nuovi doppiatori in erba, ora diamanti grezzi, non resteranno sconosciuti a lungo, perché, consapevoli o meno, stanno già cominciando a tracciare la loro strada».
A luglio hai vinto il Leggio D’Oro come miglior voce femminile dell’anno. Un premio che per te, immaginiamo, assume un significato speciale, dato che sei a tutti gli effetti una selfmade woman del doppiaggio. Quale può essere l’obiettivo principale del futuro, dopo aver vinto un premio così importante?
«Selfmade woman del doppiaggio è una definizione bellissima! Vincere il Leggio D’Oro è stato un onore inaspettato e di dimensioni spropositate per me. È vero, ha avuto un significato potente. È stata una gratificazione non solo per i due film che me lo hanno procurato, The Danish Girl e Suffragette, ma anche per tutto quello che è stato il mio percorso fin dall’inizio. Un inizio tanto lontano da questo mondo che amavo e amo sempre di più. Un premio per me e per chi in me ha creduto da subito senza indugi o ripensamenti, come i miei genitori, la mia famiglia. Senza la loro incondizionata fiducia non avrei trovato la forza di provarci. E ci vuole molto coraggio. Il premio l’ho dedicato al mio compagno e a tutti loro. Dopo questo riconoscimento auguro a me stessa di continuare a crescere ancora tantissimo. Questo mestiere è un dare e avere emozioni, e io voglio migliorarmi, trovando così nuovi modi per emozionare gli altri e per emozionarmi a mia volta come quella sera».
Non volendo essere banali, anche se non siamo Inside The Actors Studio chiudiamo con il questionario di Bernard Pivot.
Dunque, qual è la tua parola preferita?
«Non ne ho una, in effetti. Amo l’italiano in tutte le sue forme. Diciamo che vado a periodi. La parola del momento è: ‘lapalissiano’».
La parola che ti piace di meno?
«Sono in difficoltà. Direi ‘Canada’, ma solo perché faccio fatica a pronunciarla in velocità. Assurdo, lo so».
Che cosa ti stimola a livello creativo, spirituale o emotivo?
«La conoscenza, l’arte e, nelle persone, una buona proprietà lessicale».
Cosa invece ti deprime o ti spegne?
«La banalità e la superficialità».
La tua parolaccia preferita?
«Cazzo, preceduto però da un bel ‘ma’».
Un suono o rumore che ami.
«Il rumore bianco dell’automobile durante un viaggio».
Un suono o un rumore che ti infastidisce
«Una masticazione sonora».
Quale professione avresti voluto svolgere, se non ti fossi impegnata nel doppiaggio?
«Avrei amato lavorare insieme ai bambini, in un contesto di apprendimento e sostegno per casi speciali».
Quale mestiere, invece, non faresti mai?
«La commercialista, probabilmente».
Se il Paradiso esistesse, cosa vorresti che ti dicesse Dio al tuo arrivo?
«Va tutto bene. Ti preparo una tazza di tè».
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