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Non è una NBA per signorine

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Lorenzo Vagnoni

The invention of basketball was not an accident.
It was developed to meet a need.
Those boys simply would not play Drop the Handkerchief.

Con queste parole il professor James Naismith, insegnante di Educazione Fisica allo YMCA di Springfield, Massachusetts, inquadrava le necessità che lo avevano spinto a partorire quella curiosa creatura chiamata pallacanestro. Uno sport pensato quindi, almeno inizialmente, come uno svago e un passatempo utile a far sì che i giocatori di football e atletica dell’istituto si mantenessero attivi e in una condizione atletica accettabile durante il rigido inverno del New England, senza però che la loro incolumità fisica fosse messa a repentaglio; queste premesse portarono Naismith a elaborare le iniziali “13 Regole” della pallacanestro, e sostanzialmente a creare lo Sport Americano per eccellenza dopo il baseball.

Fin da subito, tuttavia, divenne chiaro che concetti come tranquillità e relativa sicurezza dagli infortuni mal si conciliassero con il gioco in questione: non a caso il referto medico della prima partita mai giocata somiglia più a quello di una partita di football che a quello di una partita di pallacanestro dei nostri giorni. Nonostante le successive modifiche alle regole a opera del suo creatore, il basket ebbe sempre nelle sue corde un’innata fisicità.

Quest’ultima avrà svariate possibilità, nel corso della storia e dell’evoluzione del gioco, di venir fuori e mostrarsi, dando alle alte sfere della NBA grossi grattacapi nella sua gestione e anche nel suo impatto sul pubblico.

Vivo e scalciante

Il dominio di George Mikan nelle aree NBA non fu privo di ostacoli e resistenza da parte dei suoi avversari.

Prendere dieci uomini, e inserirli in un’area ampia originariamente solo sei piedi (meno di due metri) partendo dalla linea di fondo, creava grossi problemi all’idea originaria – quella di un gioco pulito e rispettoso dello spazio altrui – che il suo inventore aveva in mente. Non essendosi il gioco ancora sviluppato in termini di dinamismo e velocità, infatti, era inevitabile che il gioco sotto canestro, ovvero quello svolto dai giocatori più forti e possenti sul parquet, costituisse l’opzione offensiva più efficace e dunque anche quella più ricercata.

Tutto questo portava a situazioni molto concitate, in cui contatti, scorrettezze e colpi proibiti erano il pane quotidiano per ogni giocatore dell’epoca; questo eccesso di agonismo e di esuberanza veniva visto come la normale conseguenza di uno sport fisico, giocato da uomini duri. Scontri, risse e regolamenti di conti sul rettangolo di gioco erano quindi all’ordine del giorno, al punto da essere considerate come i più naturali degli avvenimenti. Erano quasi accolti positivamente, in quanto capaci di infiammare i cuori degli spettatori e far vedere di che pasta fossero i personaggi in campo.

L’apparire di uomini sempre più mastodontici e dominanti offensivamente, Mikan prima e Chamberlain poi, avrebbe ampliato lo spazio sotto canestro fino ai sedici piedi attuali (cinque metri circa), ma l’aggiunta degli afroamericani, e della loro straordinaria attitudine e fisicità per questo gioco, avrebbe portato ulteriore esuberanza sul parquet, con esiti spesso drammatici.

Those were the days

Un normale scambio di vedute fra giocatori nella NBA degli anni Sessanta.

Gli afroamericani, con il loro temperamento e il loro approccio alla pallacanestro, rivoluzionarono la NBA e il gioco, sconvolgendone i dettami tecnici e tattici, assorbendoli e aggiungendovi il loro istinto e la loro innata capacità di sentire il giocoGioco che, di conseguenza, si spostò da terra alle alte sfere celesti: Bill Russell fu il primo a cambiare la pallacanestro in tal senso, aumentando enormemente il dispendio fisico e i contatti fra i giocatori nelle varie fasi di gioco. Non si sottovaluti poi il profondo e violento razzismo verso gli afroamericani presente all’epoca nella società americana, capace di accendere ulteriormente il fuoco già presente all’interno del parquet.

Gli anni Sessanta e Settanta furono inoltre anni selvaggi e vitali, pieni di avvenimenti storici importantissimi per la cultura americana (ad esempio il Vietnam o il movimento hippy), e il basket – come tutte le creazioni di un contesto sociale – è una perfetta rappresentazione delle modifiche cui questo va incontro: da un gioco ordinato e geometrico (teso alla squadra) si comincia a passare ad una variante più esuberante e a misura d’uomo, che porta inevitabilmente a manifestazioni dell’individualità dei giocatori, “leggermente” al di sopra delle righe rispetto al passato.

In una lega dura, come la NBA di quel tempo, si aveva una reputazione da difendere all’interno di essa e gli scontri e l’intimidazione fisica erano metodi ampiamente utilizzati anche per vincere le partite e i campionati; quindici anni buoni prima dei Bad Boys di Thomas e Laimbeer, Maurice Lucas e il suo uno contro uno con Darryl Dawkins, in Gara 2 nelle Finals del 1977, fu un turning point decisivo nella serie che vide poi vincitori i Portland Trail Blazers.

La NBA ovviamente cavalcava questo tipo di approccio alle partite, incurante delle nubi scure che si stavano addensando all’orizzonte (per esempio il problema della droga) e forte del ritorno mediatico che questo gioco così maschio forniva, arrivando addirittura giustificarlo: prima del 1977, per esempio, un giocatore non veniva neanche ammonito per un uso eccessivo dei gomiti.

Knockout

Il primo momento di autocoscienza della NBA sul gioco duro.

La svolta arrivò nel 1977, anno destinato a cambiare la NBA per quanto riguardava le sanzioni e la concezione del gioco fisico sul campo. Già nella partita inaugurale della stessa stagione si era verificato un episodio che, con il senno di poi, avrebbe rappresentato un pericoloso precedente e un infausto presagio su quello che sarebbe accaduto in quello stesso anno: colpito con una gomitata a palla lontana da Kent Benson, Kareem Abdul Jabbar rispondeva con un pugno alla mandibola di quest’ultimo, rompendola e rompendosi la mano nel farlo.

La NBA ritenne più che sufficiente, per il centro dei Lakers, uno stop di due mesi per infortunio, e decise di non comminargli nessuna ulteriore sanzione: quest, d’altra parte, era la linea di tendenza all’epoca verso episodi di questo tipo. L’incuria e l’incapacità di gestire questo tipo di situazioni portarono al primo vero caso mediatico della storia della lega, il 9 dicembre di quello stesso anno, ovvero il pugno di Kermit Washington a Rudy Tomjanovich.

Il colpo fu talmente forte che Kareem Abdul Jabbar, guarda tu il caso, riferì come il suono assomigliasse a quello di «un cocomero spiaccicato sull’asfalto» e, sebbene inizialmente si pensasse a una semplice rottura del setto nasale, il pugno fu talmente ben assestato da rompere la faccia di Tomjanovich e, di fatto, farla galleggiare libera dal resto del cranio; tutto questo mentre le prime operazioni di soccorso erano avvolte dal silenzio tombale del palazzetto e del pubblico, che aveva finalmente capito il filo sul quale si stava camminando da troppo tempo.

Il 1977 fu quindi un primo spartiacque nella questione, con un inasprimento delle sanzioni economiche e delle squalifiche ai giocatori: da un massimo di 500 dollari di multa  si passò a 10.000, e da un massimo di cinque giornate di squalifica si passò a un numero imprecisato, a discrezione della lega. La NBA aveva iniziato a capire che bisognava controllare il fenomeno, e che era stata solo una fortuna che questo match non fosse finito con un morto.

Are you ready to rumble ?

Nonostante tutto anche gli anni Ottanta e Novanta ebbero discreti picchi di agonismo.

La memoria degli uomini è però labile, questo si sa, e la NBA nel decennio successivo dovette affrontare problematiche ben più immediate rispetto alla questione sul gioco duro; gli scandali legati alla droga e la nascita di leghe concorrenti fecero dimenticare, o furono sfruttati per farlo, quello che era accaduto nel 1977, rendendo i cambiamenti a livello di regolamento utili, ma non definitivi. Sebbene nel corso degli anni furono emesse e modificate varie norme tese a multare e dare un messaggio riguardo un certo tipo di gioco fisico, le difese NBA continuarono a utilizzare un certo tipo di intimidazione fisica come arma psicologica, e non, da mettere in campo, soprattutto in difesa.

Squadre campioni NBA come i Boston Celtics di Larry Bird o i Bad Boys di Isiah Thomas e Bill Laimbeer utilizzavano uno smodato agonismo e un’esuberanza fisica che, unite alla tecnica difensiva, forgiarono alcune delle difese più toste della storia moderna del basket. La lega era sì più attenta ai pericoli per i giocatori relativi a queste “norme” tecnico-tattiche, ma lasciava un certo grado di libertà a questi, complice anche il legame con la cultura sportiva americana che vede(va) gli atleti professionisti come superuomini orgogliosi e sempre pronti alla lotta, in virtù dello spettacolo e dell’audience.

Ecco quindi alcuni esempi di come questo potesse traslarsi in campo: dalla “No-layup rule” (ovvero “non si segna sotto canestro”) di Kevin McHale, alla teorizzazione delle “Jordan Rules” da parte di Chuck Daly, coach dei Detroit Pistons, ovvero l’intimidire fisicamente in maniera sistematica Michael Jordan con tutti gli elementi del roster a disposizione. Nonostante quindi l’episodio del pugno di Kermit Washington avesse iniziato a porre l’accento su questa problematica, in realtà la NBA non considerò più di tanto il dover porre un freno a tutto questo, forte del suo monopolio e della sua popolarità, ma anzi sottovalutò episodi come quello di Karl Malone ai danni di Isiah Thomas, a dimostrazione di come certi concetti fossero ancora ben saldamente scritti nel DNA della lega.

Punto di non ritorno

Il momento in cui la NBA cambiò radicalmente volto.

L’avvento di Michael Jordan e l’assurgere di questi e della NBA a livello di icona e mercato globale portò quest’ultima, e il commissioner David Stern, a porsi delle domande su come presentare il prodotto e renderlo appetibile a realtà così diverse l’una dall’altra.
Non si trattava più di dover rendere piacevole la visione di un prodotto locale a un pubblico locale che ne aveva seguito sulla propria pelle le varie fasi di sviluppo, bensì di fare in modo che esso divenisse godibile anche per il profano appartenente, addirittura, a un altro paese.

Michael Jordan e le caratteristiche stesse del basket aiutarono enormemente questo processo: un gioco divenuto ormai adrenalinico e spettacolare, insieme all’apparizione del più grande giocatore della storia, fece sì che, nel giro di pochi anni, la NBA divenisse un marchio riconosciuto in tutto il mondo; quel problema relativo alla durezza del gioco, tuttavia, mal si amalgamava con un prodotto che doveva essere fruibile alle famiglie e a culture che non vedevano di buon occhio quel genere di approccio allo sport.

La situazione esplose nella serie di Playoff del 1993 fra Chicago Bulls (ironia della sorte la squadra di Jordan) e i New York Knicks, quando un impietrito David Stern assistette a una rissa fra le squadre al completo, a ridosso degli spalti. Avendo compreso che una cosa del genere non sarebbe mai più dovuta accadere, il commissioner emanò una serie di misure draconiane per far sì che la cosa non si ripetesse mai più. Da allora la NBA, principalmente per ragioni economiche e di visibilità, ha iniziato sempre più a bandire e reagire con fermezza a qualsiasi episodio di violenza sul parquet.

C’è sempre malizia

La peggiore notte della storia NBA.

Da allora la linea di condotta della NBA si è sempre mantenuta in quel solco, tracciato quella notte del ’93, ed è divenuta un Leitmotiv della storia contemporanea del gioco. Sanzioni e squalifiche molto più pesanti hanno via via ammorbidito e modellato la pallacanestro americana, e il sempre crescente ingresso di giocatori internazionali al suo interno, nonché il diverso approccio culturale di questi al gioco, ha reso più globalizzato il modo in cui essa viene intesa e giocata.

Tuttavia la pallacanestro è e rimane uno sport fisico, giocato principalmente dai poveri del paese e del mondo (con il loro carico di personalità eccentriche e disfunzionali), che fa di agonismo e aggressività la sua base di partenza; è quindi impensabile che essa possa completamente reprimere un qualcosa che è nelle corde del suo essere e dei suoi interpreti, che sfogano e manifestano il loro essere sul parquet di gioco.

Non a caso, infatti, la peggior rissa mai accaduta nella storia della NBA, i cui eco hanno avuto risonanza mondiale, è avvenuta nel 2004 con il cosiddetto “Malice at the Palace“: una rissa fra Indiana Pacers e Detroit Pistons, iniziata sul parquet e finita sugli spalti, con il coinvolgimento di alcuni tifosi, che ha dato origine ad alcune fra le sanzioni più pesanti mai comminate nella storia dello sport professionistico americano. La totale repressione degli impulsi alla base del gioco non può, di fatto, eliminare una caratteristica fondante del gioco stesso, ed è impossibile, oltre che dannoso, sperare che questo avvenga.

Una difficile coesistenza

Rispetto e agonismo: questo deve essere il mix vincente.

Molto spesso si sente dire che la NBA non sarebbe più quella di una volta, e che quella fisicità e quella durezza che hanno segnato un certo “periodo d’oro” del basket professionistico americano sarebbero ormai irrimediabilmente perduti.

Tuttavia un discorso del genere manca di obiettività, e non contestualizza il lungo percorso che la pallacanestro stessa e la NBA hanno subito nel lungo viaggio fino ai giorni nostri: dai primi vagiti e dalla sua adolescenza, in cui ognuno era padrone del suo destino e libero di esternare le sue emozioni nella maniera a lui più consona, senza dover rendere conto a nessuno, siamo lentamente giunti a una maturità, cercata e ottenuta al prezzo di numerosi sbagli, in cui, nonostante qualche episodio vintage, l’anima guerriera di questo sport cerca di essere incanalata verso lo sport stesso, e non dispersa in comportamenti futili o dannosi.

Il basket avrà sempre una dualità al suo interno, fatta di razionalità e istinto, e questa dualità gli è data dall’essere una creazione umana e quindi imperfetta; tuttavia, esattamente come l’essere umano, ha il compito, tramite chi dirige le sue manifestazioni terrene, di tendere alla forma più alta e ideale del suo essere e delle sue possibilità.

Perché questo è il valore massimo dello sport: educare a un’eccellenza fisica e di spirito, nel rispetto dell’avversario. Valgano come motto le parole del creatore di questo sport meraviglioso, James Naismith: «Be strong in body, clean in mind, lofty in ideals».

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Lorenzo Vagnoni

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