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theWise in cucina: il Maiale era una gran bestia

Published by
Carlo Bellioni

Oggi tratteremo un argomento scivoloso, unto e scivoloso. Parliamo infatti del maiale, una gran bestia. Il porco come lo conosciamo oggi è il risultato di millenni di incroci, dal momento che per secoli questo animale è stato – nelle società agrarie – alla base della sussistenza. Una volta tolta la cacciagione, esclusivo appannaggio della nobiltà (impiccheranno Geordie con una corda d’oro), e una volta tolto anche il bue, che per tirarlo su ci volevano anni e poi comunque serviva nei campi, il maiale diventa una scelta quasi obbligata. Lasciandolo grufolare allo stato semibrado per un paio di stagioni, alla fine si otteneva oltre un quintale tra carne, lardo, cotenna e ossa, perché – come si sa – del maiale non si butta via niente.

Il porco di una volta era un animale pesante, dai tratti ferini, quasi cinghialeschi: se lasciato alla macchia si nutriva di tutto quello che trovava, comprese bacche e ghiande che trasmettevano al lardo lavorato tutti gli intensi aromi del bosco. Con questo sistema ogni anno, a fine estate, l’abbattimento del maiale diventava una festa. Fino all’autunno successivo l’animale sarebbe stato fonte di sostentamento e beni di prima necessità per un’intera famiglia. Un’intera famiglia vedeva ruotare la propria esistenza intorno ai fili del destino del porco! Pettini e spazzole con le setole, arnesi e decotti con le ossa, gelatina e collagene dalla pelle e dalla cartilagine, oli e unguenti vari dal grasso e dagli umori; addirittura, un tempo, le camere d’aria per i palloni da gioco venivano ricavate dalla vescica del maiale. L’esigenza di preservare questo tesoro ha portato nella storia a metodi di conservazione differenti, che girano intorno a due elementi fondamentali: il sale e il fumo.

  • Nelle fredde e secche lande del nord prevalse la disidratazione per affumicatura; lo stesso metodo utilizzato, per esempio, nella cura di alcuni tipi di pesce fresco, come il salmone, alcune varietà di stoccafisso e altri ancora.
  • I paesi della fascia temperata come l’Italia, invece, hanno da sempre fatto affidamento sulle proprietà igroscopiche del sale per la conservazione delle carni (pur con la presenza di casi ibridi, come lo Speck alto Adige).

Che cosa vuol dire? Semplicemente, indica la capacità di eliminare l’acqua dagli alimenti. Così come l’aria fredda e secca dei paesi nordici quasi liofilizza le parti conservate, similmente il sale elimina l’acqua dai tessuti cellulari, privando così i patogeni del principale medium necessario al sostentamento della vita sulla terra.

Tutto questo, s’intende, prima dell’avvento della conservazione tramite freddo e della surgelazione. Il sale, e il sapore di sale cui siamo abituati da sempre, è in realtà nient’altro che un vecchio legame, un legame cui l’uomo è stato costretto dalla necessità di sopravvivere. Come molti “capricci” del palato, il salato nella dieta è un’abitudine indotta. In quanto mero esaltatore di sapidità, in realtà, il sale non è un vero e proprio sapore, quanto semmai una contraffazione del gusto. NaCl (il comune sale da cucina), glutammato monosodico e altri agenti “insaporenti”, in realtà, vengono spesso sfruttati per coprire prodotti e materie prime di bassa lega dietro un muro di finto gusto.

Tutto questo per dire una cosa molto importante, ossia che le abitudini del passato ci stanno facendo perdere il controllo sul nostro modo di mangiare.

Grasso: nemico pubblico n°1

Le razze di maiali allevate alla maniera di un tempo producevano animali le cui carni erano caratterizzate da una frazione lipidica di molto superiore allo standard industriale attuale: si parla, in quel caso, del cosiddetto maiale pesante.

Il grasso è il primo vero (e unico) vettore di sapidità nella chimica di un piatto, a differenza del sale che piuttosto ne è un mero esaltatore. Tradotto, ciò significa che – ad ogni boccone di carne magra – bisogna accostare una bella quantità di sale per ottenere lo stesso appagamento dato da un pezzo di carne grassa. Ma non solo: l’effetto ottenuto sul palato è completamente differente!

  • Tutto ciò con cui decideremo di accompagnare eventualmente la carne, come spezie o aromi, troverà veicolo nel grasso per raggiungere i recettori chimici situati a livello della lingua e del palato. Questo genere d’interazione porta a un grado di soddisfazione sempre stabile e “fisso” da parte del consumatore, poiché ciò che si sente in bocca è effettivamente ciò che si mangia, semplicemente espresso nel suo massimo potenziale, con l’aiuto di un “veicolo” per le sue componenti aromatiche che non va ad alterarne in alcun modo la percezione.
  • Nel caso del sale, invece, superata una soglia molto bassa e in alcuni casi già coperta dal naturale contenuto salino degli alimenti, entro la quale si produce un effetto positivo di esaltazione del gusto, si otterrà un effetto coprente a livello di tali recettori, che finirà per saturarli. Ad ogni ulteriore dose della sostanza, pertanto, il sistema riproporrà sempre uno stesso livello “fisso” di una data sensazione al nostro cervello, che inevitabilmente nel tempo risponderà con un principio di assuefazione. Risultato: saranno necessarie dosi sempre più massicce di sale per farci percepire il gusto degli alimenti a un livello adeguato a soddisfare i nostri apparenti bisogni.

L’alimentazione umana ha subito una svolta nell’ultimo secolo. L’automazione dei processi e le procedure di standardizzazione del prodotto hanno permesso di sostenere una popolazione in continua crescita. Già da diverse generazioni il mercato della carne non può semplicemente più permettersi i ritmi di crescita naturali di un animale. Ora, aggiungiamo all’equazione i fenomeni patologici di massa come l’obesità, le malattie cardiovascolari e il diabete: tutte piaghe sociali in crescita esponenziale negli ultimi cento anni.

La risposta dell’industria alimentare a questi problemi, legati principalmente all’eccesso di grassi e zuccheri nella dieta, è stata quella di assecondare anche un secondo, frivolo, fenomeno sociale. Stiamo parlando del cambiamento dei paradigmi estetici e della conseguente corsa alla dietasana“, finalizzata ad ottenere l’irrealizzabile: un raro insieme perfetto di genetica, stile di vita, trucchi scenografici e abilità nell’alterazione delle immagini digitali a cui solo una sparuta élite di esemplari umani può ambire in una sola vita, e al costo di immensi sacrifici.

In che modo? Eliminando i grassi dai prodotti “naturalmente” o sostituendoli, se vogliamo essere più precisi.

Per tutte le ragioni riportate sopra, nell’industria dell’allevamento intensivo il trend è quello di produrre animali sempre più magri e a ritmo crescente. Tutto questo, naturalmente, spingendo la selezione delle razze fino quasi a snaturare le caratteristiche organolettiche della specie d’origine. Il cosiddetto maiale “magro” è oggi pressoché l’unico prodotto disponibile negli scaffali dei nostri supermercati. Animali sottoposti a una dieta monotona e prevalentemente di origine vegetale che riduce l’accumulo di massa grassa nelle carni e di conseguenza la stessa natura intrinseca dell’alimento.

Oggi il consumatore medio si aspetta di acquistare un prodotto derivato dal suino, con caratteristiche nutrizionali ascrivibili più alle carni bianche avicole che a quelle di un animale onnivoro con forte tendenza all’accumulo, sotto forma di grasso, di riserve energetiche nei tessuti. Anche quando questo è presente, la prassi consiste nel rifilare quello che ormai è considerato un “eccesso” di lardo intorno a tagli come le braciole e le fettine. Siamo talmente assuefatti al mito della carne magra che consideriamo di seconda scelta qualsiasi prodotto risulti di aspetto diverso da un omogeneo rosa pallido, contornato al massimo da qualche millimetro di tessuto connettivo bianco.

Cosa comporta questo? Lo svilimento di quello che un tempo era una Gran Bestia, allo stesso livello di un petto di pollo o di tacchino. In pochi mesi gli allevatori ottengono animali ben al di sotto del quintale di peso, avviando al macello una carne pressoché insapore e priva delle caratteristiche originali del suino.

La logica conseguenza di questo processo di dimagrimento ha luogo nei processi di trasformazione di un prodotto del genere, che se ne voglia ottenere una carne processata in scatola, un salume o una “sana” ricetta casalinga. Lunico modo per sentirsi appagati da una preparazione di maiale di scarsa qualità, spesso, ricade su scelte di bassa qualità. Più olio in padella, più sale durante il processo di asciugatura dei prosciutti, più glutammato nelle carni in scatola e nei prodotti trasformati. Tutto questo in un vortice di cattiva informazione alimentare e cattiva educazione che si autoalimenta ormai da anni.

Il triste destino del maiale

Restando nell’ambito casalingo, chi riesce più a ricordare l’ultima volta che non ha dovuto aggiungere a una braciola dell’olio, del burro o degli altri grassi per ottenere una carne morbida?

La braciola, per esempio, è in sé un taglio proveniente dalla schiena del maiale, sovrastato in teoria da una generosa porzione adiposa sottocutanea che in alcune specie viene addirittura utilizzata per la produzione di lardo e altri derivati. Sempre senza eccessi, qualche millimetro basterebbe a sopperire alla necessità di ricorrere ad altri grassi che non siano quelli del maiale, il tutto a vantaggio del gusto.

Nel maiale, non dimentichiamolo, il grasso è veicolo e fonte del sapore in un taglio di buona carne. La sua quasi totale assenza produce caratteristiche organolettiche pressoché neutre, che spesso trovano rimedio nell’aggiunta del sale.

Tanto più insipida è la carne, tanto più sale e grassi esterni si dovranno aggiungere per ottenere una pallida imitazione di quello che una volta era il prodotto di partenza. Il sapore di carne, appunto. Un tempo questo genere di pratiche era dedicato allo scopo di conservare il gusto del maiale, non di esaltarlo. Il sale era usato per inibire la carica batterica per mezzo della disidratazione e l’olio per tagliare l’ossigeno fuori dall’equazione metabolica dei patogeni aerobi. Poi poco male che il prodotto finale risultasse più o meno saturo di questi elementi: mater artium necessitas!

Invece oggi, anche con le moderne tecniche di refrigerazione e lo sviluppo di reti di distribuzione che permettono la consegna giornaliera di prodotti freschi, facciamo appello a quelle stesse pratiche arcaiche per sopperire a necessità apparenti e frivoli capricci.

L’industria alimentare non è un’entità astratta, ma è fatta di esseri umani e come tale è soggetta alla stessa evoluzione dei costumi che influenza il resto della nostra società. Ci siamo volontariamente immolati a dei sacrifici inutili in nome della modernità, per non fare in realtà nessun vero passo in avanti rispetto a problemi millenari, ma anzi perdendo completamente il senso di ciò che veramente è importante quando si decide di consentire a qualcosa d’entrare a far parte di noi per il resto della nostra vita. Il senso per le cose buone.

Sugo di spuntature alla romana.

 

Oggi nun ve volevo parlà veramente de questo, oggi ho ‘nvitato n’amica mia a magnà a pranzo e ho cucinato pe’ voi le spuntature de maiale, ar sugo. Da leccasse li diti! Que’e che a cuocese ce metteno er tempo de vedesse ‘nsieme un ber film, e manco da’a trama particolarmente spedita. Sò venute ‘na bomba popo perché ho utilizzato uno dell’urtimi taji der maiale che, pe’ fortuna, ancora nun je l’hanno fatta a faje perde ‘r loro carattere. Le spuntature sò ‘e costole der maiale, foderate de grasso, legate dar tessuto connettivo tenace e avvinghiate disperatamente all’osso loro. Tutti elementi che ‘nsieme contribuischeno a la sinfonia de sapori de ‘na gran bestia: er porco.

Che ve debbo dì, sarà pa’a prossima vorta!

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Carlo Bellioni

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