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Disoccupazione: l’Italia che non vuole lavorare

Published by
Laura Primiceri

Disoccupazione, crisi, cervelli in fuga, giovani disperati. Sono tutti temi che giornalmente riempiono le colonne dei giornali e i servizi dei telegiornali, spinti volta per volta dalle dichiarazioni del politico di turno – sempre pronto a proporre la panacea – o dalle rilevazioni che periodicamente restituiscono un quadro sempre più sconfortante dell’occupazione del nostro Paese. I dati Istat e Inps di fine 2016 sono chiari: il lavoro stabile è leggermente aumentato (i contratti a tempo indeterminato sono cresciuti, seppur a ritmo molto lento) grazie alla decontribuzione; il dato sulla disoccupazione giovanile, quella che coinvolge la fascia d’età 15-34 anni, è ancora tra i più alti d’Europa, mentre sembrano riprendere le speranze gli over 50, che riescono a fatica a reinserirsi in un mercato che troppo spesso li discrimina. Stupisce persino il Governo il boom dei voucher, nati come strumento per regolamentare le prestazioni occasionali, ma utilizzati secondo molti per ripulire in qualche modo il lavoro nero o cadere in contraddizioni tipicamente italiane.

Anche Cipputi non ha più certezze… (vignetta di Altan)

Le situazioni limite, però, sono ancora troppe: gli esodati, quelli che non riescono ad andare in pensione (o che comunque, quando ci vanno, percepiscono somme al limite della soglia di povertà), le “vittime” del Jobs Act e dei contratti-schiavismo a tutele crescenti, gli interinali perenni, gli eterni stagisti. In mezzo a questo caos, i ragazzi che per la prima volta provano ad affacciarsi al mondo del lavoro e si ritrovano gettati in una mischia da arena gladiatoria, dove mors tua è davvero vita mea. Comprensibile che tutto questo possa fare paura, specie a chi ha affrontato, magari con profitto, un percorso di studi per prepararsi a una professione che poi si rivela introvabile o del tutto improduttiva. Ecco quindi che assistiamo al triste fenomeno dei cervelli in fuga: ragazzi intraprendenti, preparati, competenti, che non si sentono valorizzati dal sistema Italia e si vedono costretti a scappare altrove, specie in Nord Europa o in America, per realizzarsi e trovare uno sbocco occupazionale degno di questo nome. L’altra faccia della medaglia, però, esiste anch’essa, ed è rappresentata da quei ragazzi che potrebbero lavorare ma semplicemente non lo fanno. Perché? Non hanno voglia, o non trovano nulla che sentano adatto a loro, o magari la ricerca di un lavoro deriva più da una pressione “esterna” che da una reale necessità; oppure, molto più semplicemente, non ne hanno bisogno, perché la famiglia ancora provvede a loro senza che si veda la fine di questo eterno assistenzialismo genitoriale. La disoccupazione, forse, è un problema che non li riguarda.

Disoccupazione: e se fosse voluta?

Disoccupazione “di comodo”: l’esperienza di Cristiano Gaifa

Di quest’ultimo parere sembra essere Cristiano Gaifa, imprenditore veronese nel ramo della ristorazione, il quale – trovatosi nella necessità di assumere del personale per nuove aperture della sua catena di ristoranti orientali-fusion Zushi – si è scontrato con una realtà quantomeno desolante: al Corriere Veneto ha raccontato di come una piccola percentuale delle persone che venivano contattate per un colloquio di lavoro si presentasse effettivamente per la selezione, mentre tutti gli altri semplicemente rifiutassero (dopo essersi regolarmente candidati) adducendo le motivazioni più fantasiose, tra cui la più bizzarra «mio papà mi ha appena comprato casa». Gaifa tratteggia un ritratto molto preciso del fannullone-tipo: età intorno ai vent’anni, estrazione medio-alta. Eppure lui giura di stare offrendo un lavoro con tutti i crismi: contributi, ferie pagate, messa in regola. Cerca sostanzialmente camerieri, ma anche direttori di sala e di ristorante, ma non trova nessun ragazzo disposto anche solo a presentarsi ai colloqui, che molto spesso finiscono per essere deserti senza nemmeno una chiamata di preavviso.

Unica eccezione è data dagli over 35 e dagli over 50, spesso con alle spalle storie lavorative ai margini della legalità o finite male: sono loro che, sempre a detta di Gaifa, salvano la barca Zushi dall’affondamento certo. Dopo lo sfogo, partito da Facebook e rimbalzato sulla stampa, la situazione ha comunque subito un apparente miglioramento, dal momento che i contatti dell’imprenditore sono stati inondati di curricula e richieste di lavoro. Sembrerebbero essere tantissimi quelli che si dicono pronti a mettersi in gioco e a iniziare subito una nuova avventura lavorativa. Spulciando, però, la situazione appare sostanzialmente invariata, in quanto sono sempre gli over 35 a proporsi e a dichiararsi subito disponibili, mentre da parte dei ventenni arrivano soprattutto livorose accuse di poca trasparenza e professionalità, unite a velate insinuazioni di sfruttamento.

AAA agenti cercasi: l’opinione di Attilio Campobello

vaurosenesi.it

La vicenda di Cristiano Gaifa e Zushi, però, non sembra essere l’unica: dello stesso parere del ristoratore è Attilio Campobello, trentasettenne direttore commerciale di un’agenzia pubblicitaria, sempre a Verona, originario della provincia di Taranto ma trapiantato nella città scaligera ormai da diversi anni, con una carriera ben avviata. Il suo punto di vista in merito è estremamente netto: «da mesi ormai ricerchiamo una figura professionale che possa affiancarci nella vendita di prodotti pubblicitari. Il lavoro della nostra agenzia è molto particolare: ci occupiamo di pubblicità ‘a km 0’, stampando un volantino che contiene sconti e coupon risparmio che viene poi distribuito nelle cassette della posta. Il vantaggio è duplice: chi usufruisce dei coupon risparmia sugli acquisti di beni e servizi, mentre l’inserzionista ha la certezza che la propria pubblicità sarà estremamente targettizzata, dunque efficace in termini di riscontri concreti, e soprattutto che andrà dritta nelle mani del consumatore interessato, senza perdersi in inutili giri e canali di comunicazione inefficaci. Al momento, la nostra azienda è l’unica sul territorio a portare avanti un discorso simile, e i numeri ci danno ragione: le prospettive sono in costante crescita e si guadagna molto bene. E non finisce qui, perché l’attività si sviluppa attraverso tantissimi altri canali di comunicazione che rappresentano ulteriori fonti di guadagno per gli agenti e per l’azienda. Il lavoro, però, deve essere condotto in un certo modo: il rapporto con le aziende che si rivolgono a noi per la loro promozione deve essere quasi personale. I nostri agenti devono innanzitutto creare empatia con i clienti, mostrando poi i reali vantaggi derivanti dai nostri prodotti e abbracciando appieno la nostra filosofia di vendita. Successivamente devono poter mantenere i contatti con i clienti, anticipandone le esigenze e comprendendone le necessità. Insomma, si deve lavorare sodo, ma se si lavora bene le soddisfazioni e i guadagni arrivano».

Dov’è il problema, quindi? Il problema, spiega Attilio, «è che la nostra ricerca di figure da inserire nell’organico vendita praticamente è a un punto morto. Inizialmente abbiamo provato a fare dei colloqui occupandocene direttamente, mettendo degli annunci sui vari portali e contattando gli aspiranti che inviavano il curriculum: già dalla prima telefonata si capiva che stavamo parlando con persone che o non avevano voglia di lavorare o non ne avevano nessun bisogno: svogliati, indolenti, spesso anche privi della capacità di esprimersi correttamente in italiano. Eppure non sto parlando di stranieri eh, parlo di ventenni italiani normalissimi, come ce ne sono milioni».

Anche convocando i candidati in sede per un colloquio conoscitivo, d’altra parte, le cose non sono andate meglio: «di persona, poi, l’impressione è stata anche peggiore: ho avuto a che fare con ragazzi neanche tanto più piccoli di me, ma impreparati, inadeguati, inaffidabili e soprattutto senza nessuna “fame” di mettersi in gioco, di scoprire, di provare. Cercano certezze, ma non ne offrono. Vogliono serietà, ma non la garantiscono. Ad alcuni abbiamo anche provato a dare una possibilità con un periodo di prova (ovviamente retribuito) e di affiancamento, che ho curato personalmente. Un disastro. Successivamente ci siamo rivolti a una ditta di selezione del personale, pensando che il problema fossimo noi che non avevamo le necessarie competenze nelle risorse umane: la situazione non è migliorata affatto, ma ci è sembrata, se possibile, ancora più sconsolante».

Poco sembra c’entrare, quindi, la crisi, la disoccupazione cronica e forzata, le difficoltà economiche contingenti e il momento di grande incertezza internazionale. Numerosi sono gli stranieri che si propongono, ma andando avanti con le selezioni la poca padronanza della lingua diventa un handicap: il sapersi esprimere propriamente è essenziale in un lavoro al contatto con il pubblico. Sembrerebbe proprio che i giovani italiani non abbiano né voglia né necessità di lavorare. «Esatto, dal momento che sono pochi gli anni di differenza non posso evitare di fare un paragone con me stesso: alla loro età non vedevo l’ora di affrancarmi dalla famiglia, di rendermi autonomo. Studiavo, ma contemporaneamente facevo mille lavori, grazie ai quali ho accumulato la necessaria esperienza per questo attuale posto. Cercavo di non scoraggiarmi, mi ponevo con umiltà e caparbietà, senza superbia e con voglia di imparare. Tutte caratteristiche che non ho ritrovato in nessun aspirante candidato. Il Nordest è tendenzialmente ricco, diciamocelo chiaramente: i ‘figli di papà’ cresciuti nella bambagia, che non hanno nessuna necessità di lavorare perché mantenuti al 100% dai genitori, sono tantissimi, molti più di quanto si creda. Per loro la disoccupazione non è mai stata un problema, e forse non lo sarà nemmeno in futuro. Le nostre posizioni sono ancora apertissime, ma io onestamente non so proprio se e quando troveremo qualcuno di adatto a coprirle».

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Laura Primiceri

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