theWise incontra: Sherif El Sebaie. Prospettive sul mondo mussulmano

L’epoca contemporanea pone domande semplici che esigono risposte complesse, ma il bravo giornalista è colui che spiega risposte complesse in modo semplice. Tenendo presente questo metro di giudizio, la semplicità delle risposte di Sherif el Sebaie – esperto di diplomazia culturale, interprete presso l’ONU e giornalista di Panorama – è disarmante.

Essere mussulmano in Italia: come si vive l’Islam da cittadini italiani?

«In Italia, ai cittadini di fede mussulmana manca ancora qualcosa, per essere ritenuti cittadini a tutti gli effetti. Se consideriamo l’aspetto burocratico, essendo la maggioranza dei mussulmani costituita da immigrati o figli di immigrati, permangono le difficoltà per quel che riguarda la cittadinanza e l’essere riconosciuti come italiani a tutti gli effetti. Ma queste sono tematiche comuni a tutti gli immigrati: i mussulmani non affrontano questi problemi in quanto mussulmani, ma in quanto immigrati. Se consideriamo invece l’aspetto religioso, nonostante la libertà di culto, rimane la questione delle moschee, che tuttora (e nella maggioranza dei casi) sono costituite da garage oppure operano sotto la qualifica di centri culturali non riconosciuti come luoghi di culto. Complessivamente, la situazione è migliore rispetto a quella di altri paesi, ma mancano gli strumenti per renderla ottimale».

Quindi sarebbe necessario costruire nuove moschee?

«Un paese civile garantisce la libertà di culto e di fede. Se una confessione necessita di un luogo di culto, le istituzioni devono consentire che esso sia costruito; tuttavia lo Stato deve avere la garanzia che questi luoghi siano effettivamente dedicati al culto e non ad attività politica, propagandistica o di proselitismo estremista, che metta in pericolo l’armonia sociale».

Sherif, una distinzione a te cara è quella tra “mussulmano” e “islamista”: chi sono queste figure?

«Il mussulmano è chi professa l’Islam come fede e ne osserva le regole: prega, digiuna durante il Ramadan, non beve alcol e non mangia carne di maiale. L’islamista è chi vuole che lo spazio pubblico venga regolato dalla religione, anzi dalla (sua) interpretazione della religione e della Sharia. L’islamista è chi si è convinto della preminenza della legge divina sulla legge della società».

L’Islam è al centro del dibattito politico ed è entrato in politica: come valuti i primi mussulmani scesi in campo?

«Chi fa politica in quanto mussulmano, e sfrutta la religione come vessillo dell’attività politica, è un islamista. Io preferirei che ci fossero anche politici di fede mussulmana, ma che non si occupino solo di Islam e delle esigenze della comunità mussulmana, altrimenti è solo uno strumento per la ghettizzazione. Un politico deve occuparsi dei problemi di tutti, non solo del velo, del “burkini” o delle piscine separate. Altrimenti è un islamista».

Uno dei cavalli di battaglia dei partiti anti-Islam è la mancanza di volontà di integrarsi dei mussulmani: l’Islam è conciliabile con i valori occidentali?

«Sono gli islamisti, ad essere inconciliabili con i valori occidentali: li rifiutano e li vorrebbero cambiare, a loro uso e consumo. Sotto questo punto di vista, cioè se gli interlocutori sono gli islamisti, i partiti ostili al mondo mussulmano hanno ragione. Se invece pensiamo ai mussulmani, non è così: l’Islam è conciliabile con i valori occidentali. Finalmente anche la stampa si inizia a raccontare la varietà e la ricchezza delle posizioni dei mussulmani in Italia, e sono convinto che la maggioranza dei mussulmani non si riconosca negli interlocutori [gli islamisti, N.d.R.] che generalmente ci sono stati propinati dai media e da certa politica come rappresentanti dei mussulmani».

Lo Stato dovrebbe trattare con l’Islam?

«Io sono contrario al fatto che si debba trattare con una comunità su base religiosa. Soprattutto con la comunità mussulmana, dove esiste una grande varietà di culture, di costumi e di modi di vivere. Per assurdo, è come se nel XX secolo gli USA, invece che trattare con gli immigrati italiani o irlandesi, avesse trattato con loro assieme in quanto cattolici. È un ragionamento sbagliato: se si vuole il dialogo con le comunità è necessario cercarlo su base nazionale, anche perché ogni comunità vive l’Islam in modo diverso dalle altre. Se invece si volesse cercare, come è stato fatto con altre confessioni religiose, un’intesa con i mussulmani, allora, essendo l’Islam una religione senza gerarchie (non ha un’autorità come il Papa), dovrebbero essere le istituzioni a creare un interlocutore affidabile. Ad oggi, tuttavia, o questo non è stato fatto, oppure è stato tentato ma scegliendo gli islamisti come interlocutori».

Sempre in tema di integrazione, in una tua intervista a La Repubblica affermasti che il Museo Egizio di Torino avrebbe potuto rappresentare uno strumento per l’integrazione degli egiziani in Italia. Ha rispettato le promesse?

«Certamente, il Museo Egizio ha rispettato le promesse. Però ha destato sorpresa la scelta di una campagna pubblicitaria che offriva un biglietto gratis a chi si recasse al museo con una persona parlante arabo. A sollevare qualche critica è stato il fatto che nella pubblicità comparisse solo una donna velata, che non necessariamente rispecchia la comunità egiziana in Italia. Non tutte le mussulmane sono velate, e non tutte le donne egiziane sono di fede mussulmana. Ma quello che conta è che il Museo abbia inteso aprirsi alla diaspora egiziana, sebbene ci sia stata ingenuità nell’approcciarsi al tema, e nonostante la caduta nei soliti stereotipi commessa dai media quando si approcciano alla religione e alle comunità mussulmane».

Guardando al mondo, l’elezione di Trump rappresenta un pericolo per i rapporti con l’Islam?

«Ogni presidente americano, quando si insedia, è una grande incognita. Trump più di tutti, perché è un outsider e non ha ancora formato definitivamente la sua squadra. Trump oscilla tra posizioni demagogiche e populiste, il suo cavallo di battaglia elettorale, e un’apparente comprensione dei problemi del Medio Oriente. Un esempio sono gli ottimi rapporti che ha subito instaurato con l’Egitto e il fatto di aver confermato di voler combattere l’ISIS; anche gli accordi con la Russia di Putin potrebbero stabilizzare il Medio Oriente. Tuttavia è anche vero che il passaggio dalla demagogia propagandistica pre-elettorale all’applicazione pratica non è stato indolore. Il cosiddetto Muslim ban è un esempio. Però attenzione a chiamarlo Muslim ban: non ha colpito tutti i mussulmani, ma solo quelli di determinati paesi. Certo, il guaio è che, per come è stato presentato e applicato, ha messo in difficoltà chi aveva ottenuto regolarmente un visto o una carta di soggiorno. In effetti è stato bocciato sia dalla società che dai giudici federali, e lo stesso Trump ha confermato che verrà modificato».

L’Egitto sta attraversando un momento storico delicatissimo: cosa sta accadendo?

«L’Egitto, dal 2011, attraversa una fase di instabilità politica ed economica. Il fatto che ci siano state due rivoluzioni ha intaccato il turismo, settore vitale, e l’economia ne ha risentito: l’inflazione è aumentata, e la Lira egiziana ha visto dimezzarsi il proprio valore nel giro di tre anni. Tuttavia il governo sta cercando di perseguire grandi progetti infrastrutturali e partnership internazionali: ci si aspettano grandi ritorni economici, in particolare dai giacimenti di gas del Mediterraneo. Però ci sono buone prospettive per la ripresa dell’economia: il FMI ha accordato un prestito, sollecitando ad adeguare gli assetti di mercato per rispondere alle sfide dello scenario economico internazionale. La speranza è che tali progetti e provvedimenti possano aiutare a stabilizzare la situazione e permettere all’economia egiziana di rifiorire, con ricadute sui più poveri».

Quindi, la decisione dell’Egitto di rifornirsi del petrolio iracheno rientra in questo programma?

«Rientra nel quadro delle difficoltà dell’Egitto, che a livello energetico non è autosufficiente e dipende dalle forniture provenienti dall’estero: le risorse nazionali non bastano. Fino all’anno scorso c’era un accordo con l’Arabia Saudita, saltato a causa delle divergenze politiche sulla crisi siriana e sui rapporti con Mosca. Il risultato è l’accordo con l’Iraq».

I rapporti tra Egitto e Italia si sono parzialmente riallacciati dopo il caso Regeni. Da egiziano, come hai vissuto la vicenda?

«Da egiziano ho vissuto questa vicenda con perplessità. È una cosa mai vista: non è mai accaduto prima che uno straniero fosse arrestato, torturato e ucciso. Chi viene ritenuto un pericolo dalle autorità – non che Regeni rappresentasse chissà quale pericolo per il governo egiziano, comunque viene espulso dall’Egitto, o al limite gli si nega l’accesso. Non era mai accaduto qualcosa di così eclatante e strano. Sono le dinamiche e le circostanze ad essere strane: come è apparso il corpo, le vicende successive alla sparizione, il comportamento dell’Università di Cambridge, come l’Egitto ha trattato il caso. Si è creata confusione su tutti i fronti: sia da parte dell’Italia, con la circolazione di notizie non confermate e notizie non vere, sia da parte dell’Università di Cambridge, che oltre al supporto morale non ha fornito la propria collaborazione ai magistrati italiani, sia infine da parte egiziana. Evidentemente le autorità non hanno saputo che pesci pigliare. L’impressione che ha fatto, a me e a tutti gli egiziani, è stata di sgomento e confusione».

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