La pallacanestro, dalla sua nascita fino ai giorni nostri, è uno sport che ha subito, e subisce tuttora, un’evoluzione costante in termini di sviluppo tecnico/tattico del gioco, nonché degli interpreti che lo mettono in atto sul campo di gioco. Autentiche eresie concettuali dei tempi “antichi” sono oramai la consuetudine, se non un vero e proprio must per il gioco attuale (si pensi ai lunghi dotati di tiro perimetrale o alla difesa a zona, principalmente per il basket americano), il che differenzia in maniera netta il gioco attuale da quello di anche solo dieci anni fa.
Contemporaneamente a questa evoluzione “naturale”, anche il contesto e gli strumenti con cui la pallacanestro viene analizzata si sono evoluti, sviluppando una statistica avanzata che sfiora picchi di eccellenza nell’analisi del gioco e del rendimento dei giocatori, picchi ben lontani dalle statistiche classiche quali punti, rimbalzi e così via. Questa ondata di informazioni che scaturisce da questa immensa mole di dati permette di spiegare molti aspetti del gioco, anche se non tutti, e di inquadrare in maniera efficace giocatori che in altri momenti storici non avrebbero goduto della stessa stima o dello stesso rispetto, limitatamente alla loro effettiva efficacia in campo.
Le statistiche possono essere sì fuorvianti, poiché debbono sempre essere contestualizzate al giocatore o alla squadra che si sta andando ad analizzare, ma sono anche – finora – il mezzo più utile a nostra disposizione per valutare, nella maniera più obbiettiva possibile, l’oggetto del nostro interesse. E Draymond Green è la perfetta dimostrazione di questa tesi.
Ben prima del suo ingresso nella NBA, Draymond Green era già oggetto di interesse da parte degli addetti ai lavori. Il suo cammino universitario a Michigan State è stato un impressionante crescendo sia dal punto di vista tecnico che statistico, dove, perfettamente in linea con i dettami di coach Tom Izzo, oltre a massimizzare le doti e limitare le debolezze nel suo gioco, Green ha sviluppato quella cultura del lavoro e dell’identità di squadra e quella ossessiva ricerca della vittoria che lo hanno reso il giocatore che è attualmente.
Il coach degli Spartans di Michigan State, uno dei più vincenti della storia della NCAA, ha da sempre posto l’accento, nei suoi programmi di allenamento, sulla durezza mentale dei giocatori e sui cosiddetti intangibles, ovvero quelle qualità proprie del giocatore che non possono essere analizzate da un dato statistico; e quando una personalità di questo genere definisce il proprio giocatore come “uno Spartano perfetto“, ciò significa che questi sarà una persona capace di sublimare qualsiasi limite del proprio gioco e arrivare persino a limitare sé stesso, pur di vincere.
Tuttavia, nonostante questo palmarès e qualche record universitario, alcuni preconcetti cari agli scout NBA («non è atletico», «è troppo basso per il suo ruolo» e simili) fanno sprofondare Draymond Green al secondo giro del draft NBA, dove i Golden State Warriors non se lo fanno sfuggire.
Dal draft ad oggi il ruolo di Draymond Green all’interno dei Warriors è mutato radicalmente, a dimostrare la sua unicità come giocatore e il suo essere fondamentale per gli equilibri della squadra. Dai suoi inizi come rookie, anno in cui gli infortuni di Brandon Rush e Richard Jefferson mostrarono per la prima volta la sua capacità di farsi trovare pronto quando richiesto, a oggi, il nativo del Michigan è diventato l’anima verbale e tecnica di una squadra i cui mantra tecnici, basati sul concetto di “small ball”, permettono a coach Kerr di massimizzare le sue caratteristiche.
Un giocatore capace di segnare gli equilibri di una partita, e di una stagione, con medie stagionali che potrebbero risultare anonime a un occhio poco attento (10.2 punti/8.2 rimbalzi e 7.3 assist) se mal interpretate; basti pensare che con lui fuori dal campo, in questa stagione, il Net Rating di Golden State cala da 12.6 a 7.1, mentre con lui in campo balza ad uno stratosferico 15.5 (terzo in graduatoria fra i giocatori dei Warriors con più di 1000 minuti sul campo), a simboleggiare la sua importanza in entrambe le metà campo.
Al netto di qualche scivolone fuori dal campo, come il caso delle foto della sua attrezzatura di piacere su snapchat, e dentro il campo, i calcioni rifilati alle parti basse di Steven Adams lo scorso anno, Draymond Green resta un giocatore imprescindibile per la sua squadra e anomalo per il suo modo di porsi in campo, nel bene e nel male.
Quanto scritto finora si è sostanzialmente rivelato, anche agli occhi dei profani, nella partita contro i Memphis Grizzlies di quest’anno, partita in cui Draymond Green ha realizzato una tripla-doppia senza l’ausilio dei punti: 12 rimbalzi, 10 assist e 10 recuperi (più 5 stoppate for fun) e la risibile cifra di soli 4 punti segnati.
Oltre all’ovvio record NBA e uno dei più grandi what if dell’ultimo decennio (6 punti in più e avremmo avuto la quinta quadrupla-doppia della storia NBA) quello che rende impressionante una prestazione di questo tipo è il pragmatismo che la permea; al netto di errori individuali, che sono e saranno sempre presenti in contesti di eccellenza come questi, ogni singola scelta di Draymond Green, in questa partita ma in generale nel suo modo di giocare, è sempre e costantemente tesa alla vittoria, sia che la scelta implichi la gloria personale sia che implichi la gloria per qualcun altro.
Effettuando un paragone azzardato: se Russell Westbrook sta disputando una delle sue migliori stagioni in senso statistico siglando una tripla-doppia dietro l’altra, in virtù però di un senso di rivalsa e di un egoismo totalmente fini a se stessi, Draymond Green invece sta disputando la sua stagione adattandosi e facendo unicamente ciò che è necessario per vincere, in barba all’ego e alle statistiche individuali.
Giocatori come Green non sono inusuali nella NBA oggi come nel passato, basti pensare ad autentiche icone della pallacanestro come Dennis Rodman, ma mai prima d’ora si era potuto vedere con una così precisa chiarezza statistica la loro grandezza.
L’unica cosa certa, dati i suoi trascorsi anche come giocatore di Football Americano, è che Draymond Green abbia perfettamente interiorizzato il concetto di Henry Russell Sanders: «Vincere non è tutto; è l’unica cosa che conta».
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