Dopo l’Hoverboard di Ritorno al futuro e le macchine volanti, il robot è una delle figure più significative della fantascienza, in grado di evocare il tipico fascino del futuro lontano e tecnologico. Dagli anni ‘80 in poi, infatti, televisione, cinema e letteratura sono stati letteralmente bombardati dalla figura del robot. Johnny-5 del film Corto circuito, Wall-E, il gigante di ferro, R2D2, C3PO, Terminator, Rosy (la cameriera di metallo di The Jetsons) e Bender sono solo alcuni dei protagonisti dotati di intelligenza artificiale che hanno accompagnato la crescita di intere generazioni: possiamo solo immaginare quando la loro figura farà finalmente parte della vita di tutti noi. Dove c’è un robot, insomma, c’è il “futuro” a cui il genere umano aspira, e che spesso viene rappresentato non solo al cinema, ma anche nella letteratura e nell’arte in generale.
Il fascino del robot, nonostante esso sia simbolo di avanguardia del genere umano, porta con sé una nota amara. Se proviamo a pensare al robot tipo, molto spesso questo è di metallo, di forma umanoide, con una voce metallica e un movimento poco fluido, dotato di una mente profondamente analitica e malvagia. In quasi ogni rappresentazione, il robot è considerato come un essere che, in qualche modo, ha delle capacità che vanno oltre il limite umano: limite che non è solo di tipo fisico, come la super forza o la mancanza di percepire il dolore, ma anche morale, come la mancanza di comprensione della differenza tra bene e male e la dubbia concezione di giustizia.
In questa visione rientrano robot come Terminator o i Cybermen di Doctor Who, ma in una visione diametralmente opposta possiamo trovare figure particolarmente buone e ingenue come Wall-E e R2D2. Oltre alla dicotomia bene/male, la figura del robot spazia anche nel grado di corporeità e somiglianza con gli esseri umani: da un semplice software, come può essere Cortana della saga videoludica di Halo, fino ad arrivare alla forma umana completa come gli androidi di Blade Runner. Ma non solo: i robot possono distinguersi nel grado di consapevolezza (si passa dai Cybermen a C3PO), nelle capacità di linguaggio verbale (da R2D2 a Marvin) e per tante altre caratteristiche che sono tipicamente umane.
Nel 2017 non abbiamo ancora un robot umanoide nelle nostre case, ma abbiamo qualcosa di molto simile. Sempre più, a livello industriale, la forza lavoro umana viene sostituita da forza robotica. Questo genere di robot viene principalmente usato per superare il limite fisico umano: il robot non si ammala, non ha cali di efficienza e, soprattutto, non ha una rappresentanza sindacale. Dall’altra parte, invece, siamo circondati da software. Questi spesso non hanno materialità e si interfacciano con gli umani attraverso linguaggi di programmazione, fino ad arrivare al linguaggio umano. Siri è uno degli esempi più lampanti e attuali. Che siano corporei o meno, lo scopo dei robot è quello di semplificarci la vita.
In un mondo in cui le auto si guideranno da sole, con grande probabilità si vedranno assai presto anche i robot umanoidi. Ecco perché, parallelamente allo sviluppo degli androidi, bisogna cominciare a pensare a come veramente gli umani potranno prenderla. Saranno visti come un’opportunità o come una minaccia? Potremo davvero affidare le nostre vite a loro o dovremo guardarci le spalle? Avranno una consapevolezza? Con l’avvento degli androidi nella società umana, anche se questo potrebbe sembrare strano, saranno in realtà ben poche le novità: gran parte delle questioni, infatti, si riscontrano già con altri soggetti, come, per esempio, gli animali.
Quando si parla di robot non si può non fare menzione di colui che è considerato il loro padre: Isaac Asimov. Non è stato né il primo né l’unico autore a trattare di robot, ma è stato sicuramente colui che li ha cullati e li ha trasformati in qualcosa di più realistico e credibile. Grazie a lui i robot acquistano una venatura psicologica che li rende solo esternamente degli esseri viventi pensanti dotati di coscienza, ma che in realtà sono degli ammassi di tubi e “cervelli positronici”.
Asimov riesce a trattare, forse inconsapevolmente, la dimensione antropomorfica degli esseri umani. I protagonisti umani dei suoi racconti si trovano spesso a interpretare il comportamento dei robot come qualcosa di umano, ma è soltanto attraverso la conoscenza della matematica e della robotica – neologismo coniato dallo stesso Asimov – che si ritorna alla realtà. Ed è proprio qui che Asimov, attraverso l’uso dei robot, mette alle strette il cervello umano: c’è chi si fida dei robot perché seguono le “Tre leggi della robotica”, e c’è chi, invece, di quelle leggi non si fida proprio, perché, in fondo, i robot sono pur sempre delle macchine pericolose.
Non risulta affatto strano se nei suoi personaggi metallici possiamo trovare somiglianza con emarginati sociali come gli immigrati o gli ebrei al tempo del nazismo. Questi venivano deumanizzati al punto di essere considerate delle macchine da lavoro incapaci di percepire emozioni o sentire dolore. La deumanizzazione e l’oggettivazione sono i processi diametralmente opposti all’antropomorfizzazione, processo che Asimov è riuscito a portare sulla carta.
Quello che risulta evidente è che – quando si parla di robot – inevitabilmente si parla anche di percezione umana. Ecco perché Susan Calvin, protagonista di molti racconti, è una robopsicologa. Se lo scopo è, dunque, quello di studiare come i robot umanoidi potrebbero essere percepiti nella società umana, allora forse, in fondo, la Robopsicologia non è così fantascientifica.
Isaac Asimov, nell’introduzione alla sua raccolta di racconti Visioni di robot, riporta che il termine robot deriva dal titolo di un testo teatrale di Karel Capek: R.U.R. (I robot universali di Rossum). Robot è una parola cecoslovacca che significa ‘lavori forzati’ o ‘schiavitù’. Il protagonista dell’opera infatti, Rossum, «produce una serie di esseri umani artificiali destinati a liberare gli uomini dai lavori più faticosi e permettere loro di condurre un’esistenza agiata e confortevole». Se è questo lo scopo comune con il mondo reale dobbiamo domandarci come, visto che il futuro non è più così lontano, noi percepiamo ora questi robot umanoidi.
Alexander ed Elena Libin – dell’Università di Georgetown e dell’Institute of Robotic Psychology and Robotherapy – affermano che, secondo il punto di vista dei robopsicologi (sì, esistono davvero), le creature artificiali possono essere distinte in due gruppi: assistenti robot, più orientati ad attività militari, industriali, di ricerca, medica e di servizi, e robot interattivi, designati per scopi sociali, educazionali, riabilitativi, terapeutici e per l’intrattenimento. Gli appartenenti al primo gruppo hanno la caratteristica di avere un aspetto fisico e un comportamento programmato in funzione dell’attività che svolgono: in sostanza, hanno lo scopo di preservare la salute umana a fronte di comportamenti rischiosi. Il secondo gruppo, invece, è antropomorfizzato, e sia l’aspetto fisico che il comportamento richiamano l’espressione e le gestualità umane; tutto ciò è funzionale al loro compito, che va dalla semplice compagnia alla riabilitazione fisica e psicologica.
Non a caso questi due gruppi rispecchiano due costrutti fondamentali nella formazione di impressione tra esseri umani: il calore e la competenza. Secondo Amy Cuddy, Susan Fisk e Peter Glick tutti noi percepiamo il prossimo in termini di calore (quanto quella persona è minacciosa) e competenza (quando quella persona è capace di farmi del male). Così avremo persone percepite con alto calore e bassa competenza – come le casalinghe, poco minacciose e socialmente protette – e persone a basso calore e ad alta competenza, come la donna manager, percepita come molto minacciosa e poco socievole sul posto di lavoro. Questa similitudine nella percezione di umani e androidi è collegata ad un altro processo: l’antropomorfismo.
Per i costruttori di robot è già molto importante trovare un modo efficace per creare una relazione tra il proprio freddo prodotto e il caldo compratore umano. Per esempio, secondo i ricercatori della Carnegie Mellon University, le persone hanno un comportamento più positivo e responsivo quando interagiscono con un robot umanoide presente con loro in una stanza, piuttosto che quando lo fanno con una proiezione virtuale. Jennifer Goetz, ricercatrice dell’Università della California, riporta inoltre che i partecipanti alla ricerca preferiscono principalmente robot humanlike per lavori artistici e sociali, mentre preferiscono robot machinelike per lavori realistici e convenzionali.
Perciò le persone si aspettano, in qualche modo, che per determinati compiti i robot abbiano l’aspetto congruente. Ma non è tutto. Secondo due ricercatori tedeschi dell’Università di Bielefeld, la percezione dei robot dipende anche dalla loro nazionalità. Ai partecipanti veniva mostrato il volto di un robot umanoide, presentato alternativamente come ARMIN (tipico nome tedesco), prodotto da un’università tedesca, o ARMAN (tipico nome turco), prodotto invece da un’università turca. I risultati mostrarono come, sia per i partecipanti tedeschi che per quelli turchi, veniva valutato più positivamente il robot che apparteneva alla propria nazione di appartenenza. Lo stesso robot inoltre, se appartenente alla stessa nazione, veniva dotato di maggiore calore, attribuzione mentale, vicinanza psicologica, maggiori intenzioni di contatto e una migliore valutazione del design rispetto alle altre condizioni. Questo dimostra non solo la potenza del pregiudizio, in quanto applicato anche ad androidi, ma anche che, di conseguenza, il robot della nazionalità altrui è percepito come meno umano rispetto a quello della propria.
Ciò significa che i produttori di robot dovranno avere a che fare non solo con l’aspetto fisico ma anche con il nome. I robot sono e saranno prodotti a tutti gli effetti e, come tali, saranno percepiti differentemente in base a dove saranno stati prodotti. Anche per il contesto italiano, per esempio, percepiremo più affidabile e competente un robot di nome Georg rispetto a uno di nome Moustafa.
Da questi studi emerge come, in realtà, non vi sia nulla di nuovo sotto il cielo della società umana. A livello cognitivo, gli esseri umani sono profondamente motivati a conoscere l’ambiente in cui vivono per sopravvivere. In altre parole, rendiamo il mondo più semplice – in termini di relazioni causa-effetto – in modo da renderlo più prevedibile e poter rispondere con comportamenti adeguati. Si semplifica la realtà anche accomunando cose che in comune hanno ben poco: in questo modo avremo solo un determinato numero di minacce a cui risponderemo con un limitato numero di comportamenti. Il cervello è potente quanto vogliamo, ma tende a preservare energia nel lungo termine. Questo è il processo fondante che porta al fenomeno del pregiudizio e dell’antropomorfismo.
Come è stato visto precedentemente, i robot – attraverso un processo di antropomorfismo – vengono umanizzati in base al loro aspetto e a come si comportano, e vengono percepiti secondo la categorizzazione sociale umana: la stereotipizzazione. Ecco perché i due robot di origine turca o tedesca vengono percepiti in maniera differente.
Inoltre, sempre attraverso questi due processi, in un futuro lontano probabilmente si discuterà della presenza – o meno – di una coscienza e di un giudizio morale. Analogamente a ciò che succede con gli animali, gli umani non hanno uno schema mentale dei processi che i robot possono avere nel loro cranio di latta. Più ci allontanerà dal sapere tecnicistico, pertanto, più si sentirà la necessità di inserire gli androidi all’interno di un circolo morale in cui saranno conferiti loro dei diritti. Non sarà così impossibile, quindi, prevedere processi di umani che vengono accusati di violenza su androidi, non tanto considerati come bene economico appartenente a qualcuno, ma piuttosto come esseri simili agli umani. Ovviamente questo varrà solo per robot di forma umanoide: per quelli a forma di ragno o topo ci sarà ben poco da fare.
Ma non è tutto: a differenza degli animali, i robot vengono anche considerati molto competenti. La socievolezza e la competenza sono due dimensioni fondamentali della percezione umana e costituiscono le fondamenta della formazione di impressioni. Se da un lato persone molto socievoli e calorose vengono percepite come molto buone e poco pericolose, non si può dire lo stesso di chi è percepito come solo competente. Ecco perché i robot che non hanno caratteristiche socievoli potrebbero essere inseriti nel circolo della responsabilità. Potremo avere, insomma, anche situazioni in cui saranno gli umani ad essere vittime di comportamenti inadeguati di robot. In entrambi i casi, però, ci si affiderà alla materialità del robot e della sua non colpevolezza. L’era del diritto del robot è praticamente scritta: d’altronde si fonda sulla percezione morale degli esseri umani, ed è per questo che è importante studiare fin da subito non tanto la psicologia dei robot, quanto come i robot potrebbero essere percepiti.
Il messaggio che la Robopsicologia e Asimov intendono far cogliere è che i robot sono e saranno dei compagni profondamente utili e ben voluti, e che, in base a come si comporteranno, verranno considerati come delle fredde macchine o al pari degli esseri umani. Quando ci approcceremo a loro dovremo tenere presente che tutte le reazioni che avremo nei loro confronti saranno il frutto delle percezioni che noi applichiamo agli umani.
Questa divisione tra amore e freddezza nei confronti dei robot è particolarmente evidente nel primo racconto di Asimov, in cui si racconta di una sincera amicizia tra una bambina e il suo compagno di giochi, il babysitter robotico Robbie. Spinti dal pregiudizio della comunità nei confronti dei robot, i genitori decidono di sostituirlo con un cane. La bambina rifiuta la compagnia animale e affronta il distacco dal robot come fosse un vero e proprio lutto nei confronti di un umano. Solo dopo che Robbie metterà a repentaglio la propria esistenza per la sopravvivenza della piccola protagonista, finalmente, i genitori si ricrederanno, e Robbie tornerà ad essere il fedele amico di giochi della bambina.
In questo racconto Robbie è un robot particolare, perché non comunica se non attraverso i movimenti della testa o la velocità di camminata. Bastano questi piccoli dettagli per farlo sembrare triste, amareggiato, ingenuo e avido di racconti inventati dalla bambina. Asimov, in qualsiasi suo scritto, porta il lettore a riflettere se vi sia effettivamente un animo umano o se sia piuttosto tutto l’insieme di indizi oggettivi – come il linguaggio del corpo e l’obbedienza alle tre Leggi della robotica – a farli percepire come tali. Quello che è sicuro è che, per quanto essi non potranno mai essere veramente umani, la nostra percezione farà di loro delle persone.
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