theWise incontra: Diego Sacchetti e Matteo Corradini di Morbidware

Un citofono suona, nell’androne di un condominio a Roma sud, quartiere Tuscolano.

Dall’altra parte risponde Matteo Corradini, l’uomo che sta dietro a un terzo del collettivo comico romano protagonista della web serie The Pills, e più recentemente il fondatore – insieme allo sviluppatore Diego Sacchetti – di un giovane team di sviluppo italiano proiettato nella scena indie, Morbidware, con il loro prossimo progetto in fase di sviluppo: Ray Bibbia. Un progetto, questo, che Diego e Matteo presenteranno dal 15 al 19 marzo al Let’s Play Roma, dal 22 al 23 marzo al codEmotion Rome 2017 e dal 28 aprile al 1 maggio al Comicon di Napoli. Oltre a questi appuntamenti, una early build dello scontro con “Baphomet” verrà resa pubblica sulla piattaforma Itch.io in primavera.

Prima dell’incontro, Matteo e Diego mi hanno fatto provare una versione ancora acerba del gioco, con però le idee già ben chiare su ciò che esso vuole diventare. Al timone del comparto artistico è Giuseppe Longo, terzo membro del gruppo, alle prese anche con un altro progetto, pure questo ben radicato sul territorio sin dal titolo: Milanoir. Insieme al direttore editoriale Francesco Stati vengo accolto, nel salotto di casa, dalla TV accesa sulla schermata iniziale di Resident Evil 7 per PlayStation 4.

Un saluto rapido, butto la giacca sul divano come se fossi da amici e subito mi trovo in testa il visore di realtà virtuale di casa Sony. Prima di questa esperienza ho avuto contatti unicamente con il dev-kit della Oculus e solo con un paio di demo tecniche: le classiche montagne russe e un già più atmosferico survival horror ambientato in una foresta notturna. Panico. Entro tre minuti vengo sopraffatto dal motion sickness senza neanche il tempo di apprezzare la grafica, curata ma svalorizzata dalla bassa risoluzione della soluzione Sony e dai fastidiosi problemi di messa a fuoco delle lenti.

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Ciao Matteo e ciao Diego. Innanzitutto parliamo di Morbidware: spiegateci cos’è il progetto. Dal nome già s’intende una certa chiave hardcore…

D. «Sì, cerchiamo di fare giochi che siano abbastanza hardcore: insomma, giochi hardcore per giocatori hardcore, ma soprattutto con un spirito un po’ anni ’80, tipico degli arcade che c’erano prima».

Parlateci delle produzioni precedenti al vostro incontro. Che faceva prima Diego?

M. «Nelle produzioni precedenti al nostro incontro, Diego ha sempre fatto un po’ come cazzo gli pareva. Non per fagli i complimenti, comunque, ma Diego è un grandissimo sviluppatore, incredibilmente competente».

D. «All’inizio stavo con le agenzie pubblicitarie, anche grosse, ed ero uno sviluppatore Flash: uno degli ultimi rimasti. Ho vissuto proprio quel passaggio [da Flash alle nuove piattaforme HTML5, N.d.R.] a livello lavorativo, nel senso che all’improvviso non mi voleva più nessuno dentro le agenzie perché usavo Flash. Più o meno cinque anni fa, nel dicembre del 2012, ho detto: ‘buttiamoci sulle app’. Sono partito dall’iPhone con Sunshine, un gioco che ha ricevuto molte buone critiche ma che ha fatto zero soldi».

Qual è il tempo di sviluppo medio per un’applicazione per iPhone?

M. «Dipende da quanto la vuoi fare fica. Per Ray Bibbia ci metteremo un anno, un anno e mezzo. Abbiamo cominciato a parlare di Ray Bibbia a marzo dell’anno scorso, perché lui a gennaio aveva fatto la Jam. Adesso a gennaio non siamo neanche a metà gioco, ma abbiamo gettato le fondamenta per quello che sarà».

D. «A livello di funzionalità, però, nella demo c’è quasi tutto: il gioco è completo».

Che cos’è esattamente Ray Bibbia?

M. «Allora, Ray Bibbia è un gioco di boss battle: sono solo boss. A me è piaciuto moltissimo Furi, un gioco che strutturalmente spacca il culo perché è solo boss, lore, boss, lore, boss, lore… Noi poi arricchiremo un pochettino».

Qualcosa alla Dark Souls, insomma?

M. «No, perché comunque lì c’è pure il livello, capito? Cioè, noi arricchiremo un po’ perché abbiamo gli items, abbiamo tutta una serie di cose. Però Furi comunque ha una struttura molto semplice, che a me è piaciuta veramente tanto (e immagino pure a Diego). Ma facciamo a Diego questa domanda, che non gli ho mai fatto. ‘Perché Diego ha contattato Matteo Corradini per fare un videogame?’».

Forse perché era fan dei The Pills?

D. «No, è stato Matteo a contattare Diego Sacchetti».

M. «Avevo sentito questi nostri amici di Yonder, che hanno tra l’altro rilasciato un gioco da poco che si chiama Red Rope: Don’t Fall Behind, e ho fatto loro: ‘Guardate ragazzi, a me interesserebbe molto contribuire allo sviluppo del gioco a livello di scrittura’. Perché insomma, dato che non programmavo le mie competenze erano limitate. Loro avevano per mano questo progetto di Red Rope, che però era praticamente finito. Allora ho fatto: ‘Guardate se sapete di qualcuno che sta sviluppando un progetto fico. Fatemi sapere, perché a me interesserebbe veramente un sacco’. E loro mi hanno messo in contatto con Diego».

D. «Tornando a Ray Bibbia, è sostanzialmente un mash-up fra due generi: è un typing game mischiato a uno shmup [shoot ’em up, N.d.R.] come quelli degli anni ’80 della Cave, tipo DoDonPachi».

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Abbastanza hardcore.

M. «Come gli sparatutto: quelli proprio classiconi, anni ’90, giapponesi, con lo schermo stracolmo di proiettili».

D. «Il classico gioco molto emozionante».

M. «Dicevamo di Ray Bibbia che è un typing game. Nel senso che abbiamo voluto provare a inserire questa componente. Praticamente è la skill: quando giochi a un normale gioco, tutti sono capaci di usare un joypad, però la tastiera ti offre un sacco di possibilità in più perché puoi letteralmente scrivere, e le combinazioni di parole sono tantissime. Questa cosa ridefinisce un pochino anche il concetto di difficoltà nell’approccio a un gioco, perché – come dicevamo prima – magari il gamer fortissimo (come Daigo, campione mondiale di Street Fighter) non è un fast writer, quindi anche per lui risulta difficile».

Non è una segretaria con gli occhiali, insomma.

M. «Infatti noi avevamo pensato a dei video promozionali in cui vediamo varie professioni – come ad esempio ragionieri e segretarie – che stanno al lavoro, e che scrivono come in una tipografia, ma alla fine scopri che in realtà stanno giocando a Ray Bibbia».

D. «Infatti tutti i ragionieri a cui l’abbiamo fatto provare hanno giocato alla grande».

Ma in questo modo vi limitate alla piattaforma PC e Mac.

M. «Diego in realtà ha sviluppato una cosa per cui tu cominci una parola alla prima lettera, e poi puoi selezionare tra quattro altre lettere. Triangolo, quadrato, cerchio e X. Quindi metti che tu debba iniziare con A, poi i tasti ti danno A, B, C o D e tu devi premere quello giusto».

A tempo, naturalmente?

M. «A tempo, quello sempre, perché comunque hai un boss che ti smitraglia ogni due secondi. Però noi l’abbiamo giocato così ed è enormemente più difficile, quindi non lo so».

D. «Potremmo limitare le scelte. Da quattro, a tre o a due soli tasti addirittura, così avresti solo la lettera giusta e una sbagliata».

Parliamo del nome: perché Ray Bibbia?

D. «Ray Bibbia fu sviluppato durante la Global Game Jam di un anno fa, mentre stavamo lì quarantotto ore senza dormire. Ci siamo trovati all’improvviso con questa idea che l’esorcista fosse di Roma. E uscì così, dal nulla – e dalla stanchezza, e dall’ubriachezza e da tutto quanto il resto – il nome di Rebibbia, come quartiere, e poi quindi Ray Bibbia come nome e cognome».

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La prima incarnazione apparsa alla GlobalGameJam 2016, poi resa disponibile anche su NewGrounds.

In inglese suona tutto più fico.

M. «Quant’è appealing per il pubblico americano! Ricordatevi sempre il caso Monteriggioni. Era un bellissimo paese, prima che uscisse Assassin’s Creed 2, però non era molto conosciuto. Gli americani poi sono andati a ruota con la cultura italiana, anche tramite Assassin’s Creed. Giri tutta Roma, ok, è già famosa, ma Monteriggioni è un paesino che ha avuto un boost di turismo incredibile, ragazzi. Cioè, a Monteriggioni fanno le foto ai ciccioni con la maglietta di Assassin’s Creed che fanno le foto ai palazzi. Questo perché gli americani – per tornare su Ray Bibbia – subiscono tanto la fascinazione».

Quindi voi volete far diventare famoso il graffito di ZeroCalcare alla metro Rebibbia?

M. «No, ma come è stata appealing la cultura italiana per Assassin’s Creed speriamo succeda pure per Ray Bibbia. Perché comunque contiene tanto. Non è che se non sei italiano non lo capisci, perché in realtà non è vero. Però, ad esempio, abbiamo i pattern delle strade che spesso sono sampietrini, poi c’è un livello all’inizio con gli archi, c’è il Nasone».

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La schermata introduttiva del gioco.

Quindi non sono tutte location chiuse?

D. «No, è ambientato a Roma».

M. «Alcune sono chiuse; diciamo che il gioco si sviluppa con una parte di lore che ti spiega cosa succede, che è semi-giocabile. Nel senso che ti puoi muovere negli ambienti, però ovviamente sono percorsi stabiliti e in questi ambienti subentra il fatto che io ho parecchie possibilità di caricare di cazzate qualunque cosa fai».

D. «Poi c’è anche una parte investigativa tra un livello e l’altro: dopo ogni quadro si torna nell’hub».

D. «Esempio, squilla il telefono. Ti avvicini ed esce ‘answer’. Typare. In quel momento parte un dialogo dove c’è una parola chiave. Devi andare, che ne so, a leggere il libro X. Vai alla biblioteca o allo schedario, hai delle interazioni e una parte investigativa piuttosto semplice».

M. «Per veicolare il lore, diciamo così».

M. «Ma anche perché è lo stesso effetto dei boss di Dark Souls. Quando sconfiggi un boss di Dark Souls stai proprio col fiatone, e comunque è bello avere un momento nel quale vieni anche premiato, ti spiegano una cosa, si sblocca un argomento della trama in più. Ti serve proprio per articolare il gioco oltre alle semplici boss battle».

La trama di Dark Souls è tutta lore.

M. «Beh, Dark Souls è troppo. Chi è che ti può raccontare la trama di Dark Souls? Forse un video di diciassette minuti fatto da Sabaku No Maiku. Ma forse neanche quello».

Parlando dell’aspetto tecnico, che motore o linguaggio di sviluppo usate? Per esempio, avete fatto questo giochino interattivo che è uscito per la promozione di Smetto quando voglio – Masterclass: ci avete messo qualcosa come dieci giorni, giusto?

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Locandina promozionale del gioco ufficiale per il film.

D. «Dieci, sì».

M. «Facciamo venti giorni, tre settimane».

Qua è civil war, perché Diego mi aveva detto dieci e adesso tu dici venti.

M. «Aspetta, io mi ricordo che quando ci hanno chiesto di farlo io ho detto: ‘guardate ragazzi, con meno di un mese è impossibile’. Poi l’abbiamo fatto in un po’ meno di un mese. Quindi io lì per lì ti butto tre settimane, ma magari ha ragione lui».

D. «Dipende sempre dai tempi».

Di cosa si tratta, più precisamente?

D. «È un runner banalissimo che ripercorre alcuni momenti del film, ma sopratutto ha lo stesso approccio del film: ci giochi, è leggero, è divertente, ha una durata breve. Insomma, esci che hai finito l’esperienza, sei contento e hai voglia di vederti anche il film, sostanzialmente. Non è un gioco veramente difficile».

M. «Tra l’altro abbiamo fatto una cosa che è fica da introdurre in un gioco così semplice, cioè abbiamo reso il quarto livello sbloccabile».

Che in realtà è una cosa che una volta si faceva.

M. «No ma si fa ancora, solo che quando c’è un progetto così ristretto è fico che comunque tu perda tempo per articolare il gioco, in modo che se uno ci gioca in maniera lineare si fa i primi tre livelli e poi sblocca il quarto. Fa venire voglia di finirlo. Il quarto livello infatti è anche un po’ diverso dagli altri».

D. «Ci siamo basati su una tecnologia in cui abbiamo creduto abbastanza, perché abbiamo usato Haxe. Non molte cose sono state sviluppate con quel linguaggio, però una notevole è stata Papers, please. Abbiamo fatto una scelta un po’ azzardata sulla tecnologia, che però alla fine si è rivelata giusta. Ma ci sono state diverse difficoltà».

Aiuta nella compilazione, Haxe?

D. «Sì, Haxe sostanzialmente è un linguaggio che poi si trasforma in altri linguaggi, e quindi ha una bella performance in HTML5».

M. «Per alleggerire il gioco abbiamo anche fatto dei sacrifici, perché avevamo dei grossi problemi su Android. Poi dopo un po’ – poveraccio – Davide ci è stato fino a mezzanotte e mezza, e io accanto a lui a testarlo e a scrivere a Bellioni per farglielo testare su Android. Alla fine obbiettivo raggiunto».

Su MotoG4 ha una fluidità comparabile al PC?

M. «Comparabile a PS4Poi abbiamo dovuto girare intorno a tutte le problematiche che ti pone il non creare l’app, perché – ricordiamolo – non abbiamo fatto l’app per via dei tempi tecnici».

E non c’è possibilità in futuro, magari espandendo la cosa?

M. «Vediamo un’attimo, magari anche con Groenlandia».

Con più livelli, più features?

D. «Uno shop per le skill, multiplayer».

Pay-to-win, naturalmente.

M. «Sì, calcola che fai i costumi di Pietro Zinni a 99 centesimi l’uno».

Poi a seconda di come va l’app decidono se fare o no il terzo film, giusto?

M. «In realtà non è stato possibile fare l’app per tempi tecnici di convalidazione sugli store, dieci o quindici giorni».

D. «La submission purtroppo non potevamo permettercela».

M. «Quindi ci siamo orientati verso i browser, web-game».

D. «C’è anche un’altro motivo: sicuramente è meno impegnativo, il web-game, per l’utente, perché non deve scaricare niente, non deve fare tre tap dall’app store».

Un sacco di gente non scarica neanche Facebook e usa direttamente il browser.

D. «Esatto, proprio per seguire questa tendenza che comunque è stata evidenziata ultimamente».

Anche perché magari non tutti hanno un dispositivo di fascia alta che permette di tenere aperte 800 app: vanno sul broswer, è una sola app, consuma tutta la ram e via.

D. «Ma anche a noi permette di fare degli aggiornamenti in tempo reale, ad esempio, appena ti rendi conto che qualcosa non funzioni aggiorni e non passiamo per la submission».

M. «Questo ci ha fatto tendenzialmente avere tutta una serie di problematiche che sono legate al fatto che devi stare su browser, per mettere il landscape, per eliminare la barra degli indirizzi su Chrome».

D. «Oppure l’anti-aliasing su Safari».

Anti-aliasing in un gioco 8-bit?

D. «Purtroppo il discorso è che Haxe, quando esce in HTML5, si vede le impostazioni sovrascritte dai singoli browser e tu devi sostanzialmente andare in CSS a dire ad ogni browser – ognuno ha il suo sistema – come trattare le immagini».

E che differenze di approccio avete avuto, invece, con un progetto a lungo termine  – che ancora sta in piena fase di sviluppo – come Ray Bibbia?

D. «Tu pensa, Ray Bibbia è l’unico gioco che io abbia mai sviluppato in Game Maker».

Che è lo stesso tool di sviluppo usato anche, tra gli altri, per Undertale da Toby Fox.

D. «Anche per HotLine Miami e Hyperlight Drifter. Diciamo che GameMaker è sempre stato un tool abbastanza visto, un po’ troppo elementare e banale. Poi dopo alcuni anni abbiamo visto una serie di titoli di altissimo livello, compresi DownWell Nuclear Throne. Giochi che anche su Steam sono andati».

Come si fa un videogioco, da dove si comincia?

D. «Innanzitutto fai un tipo di scelta a partire dal design. Ti cominci a immaginare come sarà l’approccio grafico: ad esempio, nel caso di DownWell c’è un aspetto grafico in stile ZXspectrum, con pochi colori. E da lì derivano tutte altre scelte di game design, dove tu capisci che con un approccio del genere abbiamo poi dei limiti. E chi coinvolgiamo? Chi chiamiamo per fare una grafica in questo stile? Alla fine la scelta è caduta sul nostro Giuseppe Longo, che sta seguendo anche altri titoli».

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Stile ostile.

Esattamente che ruolo ha?

D. «È il pixel artist. Mentre, all’epoca, del prototipo per la GlobalGameJam della pixelart mi sono occupato io, in questo caso io ho scritto solo il codice».

M. «Abbiamo fatto anche una scelta, siccome è un progetto a lungo termine su cui lavoreremo tanto. Lasciamo questa mansione a qualcuno che veramente possa coprirla al 100%, qualcuno di davvero competente. Non che Diego non sappia farlo, ma questo è un’altro livello».

D. «Ultimamente sono molti gli shooter che fatti con GameMaker, e se ci pensate, essendo Ray Bibbia un gioco con feel completamente old school, ed essendo anche lui uno shooterone, perché no? Siamo un team piccolo, abbiamo un gioco grande e questo significa molti mesi, tanto tempo. GameMaker ti accorcia molto determinati tempi di sviluppo: per un team piccolo e per un gioco di questa portata è perfetto».

Avete pensato alle piattaforme di distribuzione? O è un po’ prematuro?

D. «Entreremo su Steam».

M. «A noi farebbe piacere, però, passare per un publisher europeo o americano».

Devolver, per esempio?

D. «Devolver pubblica molti titoli di questo tipo, tra cui DownWell, e sarebbe molto buona».

Naturalmente dopo essere passati per GreenLight.

D. «Non è detto che passeremo da GreenLight, dipende dal publisher. Se ha già sviluppato giochi di un certo tipo non passa per GreenLight, quindi si pubblica direttamente. Questo non toglie che sia una buona esperienza con cui raccogliere molti feedback positivi e aggiustare il tiro durante lo sviluppo: è un beta-testing interessante. Sostanzialmente andrebbe fatto quasi in ogni caso».

M. «Ci sto riflettendo, ci stai facendo riflettere».

D. «Forse sarà più probabile magari un’alpha, fondamentalmente è la stessa cosa però saremmo pagati. Il che sicuramente dà un po’ più di motivazione, e poi rispondi meglio alle critiche».

Parlando di alpha, avete presentato una demo al GameOver Festival.

M. «Esatto: a settembre, mi sembra».

E quindi esiste già in forma giocabile: quando intendete renderla disponibile?

M. «Devo convincere Diego a re-tunare quella a cui avete giocato pure voi e a pubblicarla. Diciamo che noi abbiamo sempre paura di commettere passi falsi: metti che esce e non piace. Ancora ci stiamo pensando a pubblicare quella lì, ma adesso che abbiamo finito questo gioco di Smetto quando voglio lavoreremo in maniera continuativa su Ray Bibbia fino ad avere, spero ad aprile o maggio, se non una beta quasi».

D. «Qualcosa di molto sostanzioso, insomma».

Mentre la promozione on-line sta andando avanti, con la pagina avete publicato gli sketch dei concept per i vari personaggi.

M. «Sì, ma ti faccio un esempio: quella è una cosa che influenza indirettamente. Cioè, rendere disponibile un prodotto influenza direttamente il modo in cui la tua pagina poi viene recepita, perché se tu non pubblichi nemmeno una demo è difficile fare in modo che per gli sketch la gente ti segua. Cioè, ti segue chi sta infognato, però se tu non hai manco mai giocato a una demo non sei incuriosito».

Potreste partire da un walktrough, c’è solo il teaser per adesso.

M. «Sì, e quello è fico, però non ha avuto tutto questo successo, l’abbiamo diffuso pure poco».

Diciamo che aspettate di presentarvi a un publisher.

M. «Però per andare da un publisher devi avere almeno una demo, e che cazzo!»

D. «In questo caso potremmo tranquillamente decidere di fare quel benedetto prototipo, tunarlo come si deve, poi lo rilasciamo e lo mandiamo anche al publisher».

Noi ci abbiamo giocato, e devo dire che dieci euro ve li darei subito.

D. «Sicuramente occupa la sua nicchia, nel senso che non hai altri giochi di quel tipo… giusto Typing of the Dead, se ci avete mai giocato».

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M. «Ma Typing of the Dead non è manco un gioco».

D. «Non devi neanche schivare, scrivi solo».

L’unico gioco del genere che mi sia mai capitato era un vecchissimo SpaceInvader-like per DOS, dove le astronavi erano parole da uccidere scrivendole, ma niente di altrettanto coinvolgente e difficile.

D. «Sì, è tosto».

Devi essere bravo come in uno sparatutto classico, con in più la componente typing: non sono neanche riuscito a finire la demo. Quindi io lo comprerò, lo guarderò, dirò che è bellissimo e poi non lo finirò mai.

M. «Diciamola anche questa cosa, noi in realtà quel prototipo lo dobbiamo tunare principalmente perché siamo andati in convention e volevamo portare un prodotto mega-hardcore».

D. «Sì, volevamo dimostrare le nostre capacità».

M. «E l’hanno finito in realtà soltanto due persone, mentre stavamo la, con noi che comunque davamo delle indicazioni da dietro le spalle. Ti faccio un esempio: in tutti i pattern che hanno i boss, se tu te li studi per dieci secondi poi capisci il pattern, e appena capisci che il boss sta per sparare ti metti nel punto dello schermo nel quale al 90% lo schivi».

Capirlo fa anche parte del gioco, è game design 101.

M. «Però non dev’essere imposto sul giocatore, il giocatore deve essere guidato. Invece in quell’alpha era un po’ a senso unico, dalla prima alla sesta wave».

Non ho trovato molti punti dello schermo dove rifugiarmi.

D. «Perché non ce li ho messi io».

M. «Infami, proprio».

Adesso che state progettando anche dei piccoli trailer promozionali – l’idea della segretaria, della tipografa serissima che in realtà gioca al vostro gioco – questo potremmo dire che si ricollega un po’ al passato di Matteo?

M. «Perché passato? Alla fine è ancora presente. Però forse no, forse riesco a esulare dal web, speriamo».

Ma tornando a cose serie, a parte che il web è morto, come ti stai muovendo in questo altro ramo dei tuoi interessi?

M. «Io sono contento di quello che stiamo facendo: di base noi abbiamo sempre fatto i video a titolo gratuito perché eravamo super punk, cioè avevamo proprio l’attitudine punk, tipo: ‘Oh, fanculo, registriamo una cosa col cellulare e mettiamola online’. Perché non ce ne fregava. Solo che a un certo punto è diventato un lavoro, giustamente, e per fortuna, perché se no stavo ancora a casa dei miei a trentun anni, io. Quindi ringrazio e bacio per terra ovunque passi chi mi paga per fare le mie cazzate. Però, comunque, avere la possibilità di fare sketch per il programma di Michele Santoro, andare ospiti fissi su Stracult su Rai2, avere uno sponsor: è una bella roba. Come anche avere un brand che paga il tuo lavoro per mettere degli sketch, che comunque sono liberi al 99%: è chiaro che se ti arriva Coca Cola non puoi fare uno sketch in cui pisci dentro una bottiglia di Coca Cola».

Ma l’avete già fatto, in realtà, in Radical History X sulla Cola vegan.

M. «Il messaggio del video era più che altro quello di far vedere che comunque, quando un certo tipo di approccio alla società diventa trend, non è detto che sia giusto. Magari ci sono le cose bio che sono fantastiche, mica dico niente. Il radicchio bio, ad esempio, è incredibilmente buono. Però non la Cola. Il fatto è questo, il fatto è che io sono laureato in lingue, e se non avessi fatto The Pills sarei stato una persona con nessuna attitudine artistica. Nessuna. Poi è uscita fuori questa cosa, e la gente ha cominciato a dire che faccio ridere. Ok, prendiamo questa cosa come un complimento, ma perché faccio ridere? Che cosa c’è nella mia storia che mi ha consentito di far ridere? C’è tanto, ci sono un sacco di cose, però i videogame hanno giocato veramente un ruolo fondamentale. Comunque il mio umorismo, volente o nolente, riprende quello di Monkey Island 2».

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I grandi classici intramontabili.

M. «Perché è inutile che uno ci giri intorno, se una persona a dieci anni è stata così colpita da qualcosa. Stesso motivo per cui mi continuo a leggere JoJo, perché quando cominci a quattordici anni come fai a smettere? Non puoi. Cioè, è una cosa che ti forma così tanto che alla fine quel tipo di umorismo ti entra anche un po’ dentro, ed è chiaro che prima non è che potevi dargli libero sfogo tramite un’applicazione nei videogame, perché era infattibile. Non è che un pischello a caso se ne esce, senza nessuna competenza in programmazione, e dice: ‘Voglio fare un videogame che faccia ridere’. E quindi la cosa dei The Pills mi ha veramente un sacco aperto la strada».

Non è solo il lancio mediatico di avere un pubblico, ma l’influenza culturale che ti dà l’ambiente.

M. «Anche in The Pills. Luca e Luigi, in realtà, in questo momento non giocano, però sono delle persone che nella loro vita hanno giocato tanto».

Magari per Luca hanno contato di più i film e la cinematografia…

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M. «Sempre di sottofondo la partita a DownWell -Massì, la puntata col PSM l’abbiamo fatta».

M. «Ragazzi, io comunque sono una persona che ha fatto Lingue a Tor Vergata».

A proposito della tua laurea in Lingue: localizzazione?

M. «Lo scrivo io in inglese, e sarà tutto divertente sia per un italiano che per un inglese allo stesso modo. Cioè zio, per forza, non perché lo faccio io. Ma è importante, anche un italiano secondo me ci dovrebbe giocare in inglese. Perché l’influenza dell’italiano sull’inglese è funzionale al gioco, fa ridere. Non è che lo puoi chiamare Raimondo Bibbia. È in inglese, viene scritto in inglese, il pubblico italiano ci giocherà in inglese. Se non conoscete l’inglese, nel 2017, è ingiustificabile questa cosa».

Colonna sonora e sound design?

M. «Vogliamo farla un po’ eclettica, la cosa più fica del mondo sarebbe tentare di fare una roba alla Hotline Miami: per ogni livello ci sarà un feature soundtrack e li sarebbe proprio il top. Diciamo che se non riusciamo a fare tutte le tracce featuring un producer, ci inseriremo almeno due o tre pezzi OST».

D. «Io in realtà qualche nome ce l’avrei».

M. «Sì sì, ne abbiamo vari».

D. «Anche qualche nome veramente grosso, bisogna vedere un attimino quello che esce fuori, sia per tempi che per budget».

Per il sound design, invece, avete pensato all’impatto che può avere ogni colpo e suono, ogni singola mossa, ogni singola lettera?

D. «Sì, è particolare, perché non è che tu digitando spari, digitando tu fai una parte dello sparo; è alla fine della frase che tu lanci tutto quanto. Noi abbiamo sistemato questa cosa del feedback con una specie di cantilena, nel senso che escono delle note armoniche scrivendo, mentre quando sbagli lettere escono dei suoni “dolorosi” per farti capire che hai sbagliato».

Nella demo è come se fosse un canto gregoriano, c’è quasi un senso di preghiera.

D. «Sì ci sta, ci potrebbe stare ecco, è una buona ipotesi. L’altro feedback più importante è stato quello dei proiettili, nel senso che quando tu scrivi se ci fai caso ora spuntano una serie di proiettili che gli fluttuano vicino, e all’ultimo carattere vanno tutti insieme. Prima, nel prototipo, non c’era questo feedback, nel senso che tu scrivevi e all’ultimo carattere quello prendeva il danno, ma mancava la sensazione di una potenza applicata contro il personaggio. E questo è un altro buon feedback da aggiungere, secondo me».

Che poi è atipico, perché il boss prende solo un numero esatto di colpi.

D. «Però abbiamo dei criteri di combo per la frase corretta dove non sbagli mai, con qualsiasi velocità tu scriva».

Con una barra a riempimento, giusto?

M. «Quella era ancora molto provvisoria, non era tarata perfettamente, però comunque funzionava. Ti moltiplicava effettivamente i punti per ogni lettera giusta, in base al tempo e in base al fatto di non averne sbagliata nessuna prima e così via».

Ringraziamo molto Matteo Corradini e Diego Sacchetti. Appena avremo qualche dettaglio importante sul lancio vi terremo aggiornati. Potete seguire Morbidware sul canale ufficiale YouTube, su Facebook, NewGrounds e Twitter per non perdervi nessuna informazione. Alla prossima!

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Baphomet.

Ray Bibbia è una fusione originale tra uno shoot ’em up 2D con visuale dall’alto e un typing game da tastiera. Sviluppato indipendentemente da Morbidware, uscirà per PC e Mac a cavallo tra il 2017 e il 2018. Sarà inoltre presente in forma giocabile al CodEmotion di Milano, al Let’s Play di Roma e al Comicon di Napoli più tardi nel corso del 2017. Oltre a questi appuntamenti, una early build dello scontro con il boss “Baphomet” verrà resa pubblica sulla piattaforma Itch.io in primavera.

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