La NBA è oramai una lega cosmopolita e globale che accoglie al suo interno migliaia di anime cestistiche diverse, provenienti da ogni angolo del mondo; i cosiddetti international players sono una parte integrante dei roster NBA e, nel corso degli anni, il giudizio su di loro è radicalmente mutato da parte del pubblico e degli addetti ai lavori. Sono lontani i tempi in cui un giocatore americano poteva schernire con esiti – alle volte infausti per lui – un giocatore europeo (in virtù di una presunta superiorità tecnica e di comprensione del gioco); in egual modo, allenatori e dirigenti NBA non ostracizzano né discriminano più in alcun modo chi proviene da un ambiente estraneo a quello statunitense.
Questo processo – iniziato tempo addietro grazie ad autentici pionieri europei quali Vlade Divac o Drazen Petrovic, solo per citarne due – ha rappresentato una delle componenti evolutive più importanti per la pallacanestro americana e per lo sport in genere, sdoganando credenze razziali e tattiche (si pensi alla difesa a zona) e formando la lega globalizzata che tutti conoscono. E il 7 Marzo del 2017, Dirk Nowitzki, figlio della vecchia Europa, è entrato nella storia della NBA e della pallacanestro mondiale divenendo il sesto marcatore di ogni epoca della lega, primo fra gli europei, a quota 30.005 punti segnati.
Figlio di un giocatore di pallamano e di una giocatrice di basket, Dirk Nowitzki nasce a Würzburg, in Baviera, nel 1978. Provenendo da una famiglia di atleti, il giovane Dirk pratica svariati sport fin dalla più tenera età, ma la sua altezza già considerevole lo spinge naturalmente verso il basket (complice anche qualche battuta di troppo da parte dei suoi coetanei). Tutto ciò lo porta ad aggregarsi, nel 1994, alla locale squadra di pallacanestro, la DJK Würzburg, dove comincia a muovere i primi passi sul parquet; qui le sue caratteristiche fisiche e il suo talento vengono notati da Holger Geschwindner, ex-giocatore della nazionale tedesca, che lo inizia ad allenare personalmente con metodi non propriamente ortodossi.
Gli anni al Wurzburg sono formativi, e in essi le inusuali caratteristiche fisiche di Dirk Nowitzki, un’inspiegabile velocità di piedi e mobilità laterale su un corpo che supera già i 2 metri di altezza, vengono associate all’allenamento di Geschwindner, basato sulla mobilità e su esercizi di tiro e passaggio piuttosto che sui canoni tradizionali dell’irrobustimento fisico; tutto questo genera un mix sorprendente – fatto di atletismo, trattamento di palla e raggio di tiro – sostanzialmente mai visto in un unico giocatore.
Il suo talento e la sua atipicità sono svelate al mondo al Nike Hoop Summit del 1998, dove Dirk segna 33 punti e annichilisce i rampolli del basket americano, tra cui futuri giocatori NBA, come Rashard Lewis e Al Harrington, con una prestazione individuale assolutamente dominante. Improvvisamente gli occhi della più famosa lega di pallacanestro del mondo sono puntati su un biondo ventenne tedesco che ha appena finito il servizio militare.
Gli occhi della NBA sono puntati su Dirk Nowitzki, che punta direttamente al passaggio fra i professionisti, previsto come settima chiamata al draft del 1998 con Boston e Dallas fortemente interessate al giovane tedesco. Grazie a un articolato scambio a tre squadre (Mavericks, Bucks e Suns) la franchigia del Texas porta a casa non solo il tedesco, ma anche un giovane di belle speranze proveniente dal college di Santa Clara, Steve Nash; Don Nelson, coach di Dallas, opera una scelta all’epoca molto rischiosa: puntare su due giovani di indubbio talento, ma dal futuro nebuloso e non scritto, rispetto ad una safe pick come poteva essere Robert Traylor. Il futuro gli darà ampiamente ragione.
Il primo anno nella NBA, utilizzato nel ruolo di 4 da Nelson, è molto duro per il giovane Dirk, che paga la netta superiorità atletica degli avversari nel suo ruolo e un livello di gioco completamente diverso da quello cui era abituato, ma già nell’annata successiva le cose iniziano a cambiare.
Nella stagione 1999/2000 le cose per Dirk Nowitzki e i Dallas Mavericks prendono una piega decisamente positiva: un nuovo proprietario, Mark Cuban, porta nuove aspettative e nuove possibilità economiche alla franchigia, mentre Don Nelson comincia ad utilizzare il tedesco come point forward, sfruttando il suo trattamento di palla e l’abilità nel passaggio per renderlo più efficace in attacco. Tutto questo, unito alla visione di gioco di Steve Nash e alla fisicità di Michael Finley, trasforma Dallas in un habitué dei Playoff, dove i Texani però, negli anni dal 2000 al 2004, raggiungono una sola volta le finali di Conference.
In queste annate Dirk Nowitzki mostra agli americani tutte le particolari sfaccettature del suo gioco: alla sua mobilità e coordinazione, già citate, si aggiungono un trattamento di palla da guardia pura (con delle partenze incrociate assolutamente inspiegabili per un lungo) una fluidità al tiro che arriva dietro la linea da 3, rendendolo un autentico incubo per le difese NBA, e un’abilità nel passare la palla veramente notevole; altra costante che il tedesco si porterà addosso per il resto della carriera è la sua rivedibile fase difensiva destinata, negli anni, a costringere i suoi allenatori a nasconderlo all’interno di un sistema difensivo di squadra ben strutturato.
Nella stagione 2004/2005 Dirk Nowitzki perde, in free agency, l’amico Steve Nash – che si accasa ai Phoenix Suns – e il suo primo estimatore Don Nelson, sostituito da Avery Johnson, suo assistente in panchina; i Mavericks aggiungono però a roster Jason Terry, guardia destinata a lasciare un marchio indelebile nella storia della franchigia. Quanto maturato negli anni precedenti sembra essere pronto a fare l’ultimo salto di qualità per arrivare al titolo, e alcuni segnali in regular season fanno ben sperare (53 punti del solo tedesco contro gli Houston Rockets e la nomina nel primo quintetto NBA), ma proprio i Phoenix Suns del caro nemico Steve Nash eliminano i texani nelle semifinali di Conference.
L’anno successivo, forti dell’esperienza accumulata e affamati di rivincita, i Mavericks approcciano in maniera ben diversa la stagione già dalla regular season, con 60 vittorie totali e l’ascesa di Dirk al rango di superstar con prestazioni impressionanti anche nei Playoff: prima contro Memphis e poi contro gli Spurs (vera bestia nera dei Mavericks negli anni precedenti). Tuttavia i sogni di gloria di Dallas si interrompono alle Finals contro Miami dove, nonostante un perentorio 2-0 iniziale nella serie, la franchigia della Florida riesce a rimontare e vincere il titolo in sei gare. Nowitzki e l’ambiente sono scioccati e ammutoliti, incapaci di metabolizzare quanto sia successo, e lo stesso Dirk decide di intraprendere un viaggio in Australia, con il mentore Geschwindner attorno alla Ayers Rock, per fare mente locale e capire quali siano state le sue mancanze, in maniera tale che una cosa simile non accada mai più.
L’annata 2006/2007 è quella della vendetta: Dallas sigla un record stagionale di 67 vittorie e Nowitzki fa incetta di premi individuali, giocando, a livello statistico, una delle sue migliori stagioni; non solo vince il premio di MVP (primo europeo a riuscirci) ma entra a far parte anche del club dei 50-40-90, che annovera tra le sue fila i giocatori capaci in una singola stagione di tirare il 50% dal campo, il 40% da 3 e il 90% ai liberi. Classificatisi con la prima testa di serie i Mavericks vanno quindi ai Playoffs, certi che questo sia il loro anno, con un primo turno agevole contro i Golden State Warriors di Baron Davis allenati da Don Nelson, l’ex di turno.
La serie è storica e Nowitzki riscopre gli antichi timori e la sua fallibilità, tirando con un 38.3% totale dal campo e mettendo a referto una media di 19 punti (a fronte di un 50% e di 24 punti di media in stagione regolare). Sembra un boccone troppo amaro da buttare giù, una di quelle etichette difficili da scrollarsi di dosso (quella del perdente), quasi che, nonostante tutti gli sforzi compiuti, una legge di natura impedisca l’affermazione e il giusto epilogo per il talento di un eroe romantico che tenta, invano, di consolidare il suo posto nella storia del gioco.
Gli anni successivi alla debacle contro i Warriors sono anni in cui Dallas e Nowitzki si leccano le ferite, scossi ma mai domi. Un avvicendamento sulla panchina, con Rick Carlisle a sostituire Avery Johnson, e l’aggiunta di alcuni tasselli mancanti a roster quali: veterani di esperienza come Jason Kidd e difensori perimetrali e d’area, Shawn Marion e Tyson Chandler, permettono al nuovo coach di creare una squadra bilanciata che ruota attorno al talento del tedesco in attacco e ne maschera le lacune difensive.
Negli anni che vanno dal 2007 al 2010 Dirk Nowitzki mantiene dei livelli di assoluta eccellenza, con una media stagionale mai sotto i 20 punti e una eFG%, ovvero la percentuale di tiri segnati dal campo che considera anche il valore maggiore di un tiro da 3 punti rispetto ad uno da 2, intorno al 51%; inoltre lavora ossessivamente sul suo fadeaway ad una gamba, che diventerà, negli anni, il suo marchio di fabbrica e uno dei singoli gesti tecnici più efficienti e immarcabili dai tempi dello Sky Hook di Kareem-Abdul Jabbar. La stagione 2010/2011 sembra però iniziare nel peggiore dei modi: Nowitzki si infortuna a metà stagione e i Mavericks si qualificano solo come terza testa di serie; il loro avversario al primo turno è Portland che rimonta in gara 4 ben 23 punti (con una prestazione spaventosa di Brandon Roy) e pareggia la serie sul 2-2 facendo sembrare Dallas e Nowitzki pronti ad un’altra roboante sconfitta.
Ma i Mavericks e il suo leader sono coesi e ben consci delle proprie possibilità, potendo far tesoro di tutte le frustrazioni e le esperienze accumulate; superata Portland, Dirk trascina Dallas in finale battendo i Lakers e gli Oklahoma City Thunder. La serie finale è, per uno strano scherzo del destino, contro Miami e i suoi Big Three: LeBron James, Chris Bosh e Dwyane Wade; quasi che un bardo abbia voluto tracciare una sorta di Ringkomposition nell’epica e travagliata ricerca della gloria di Dirk Nowitzki. Le Finals sono equilibratissime, con Miami che prende il controllo 2-1 della serie e Dallas capace di pareggiarla in gara 4, dove il tedesco vittima di una forte influenza segna il canestro della vittoria, e andare a chiuderla in 6 partite. Nowitzki viene nominato MVP delle finali e riesce finalmente a conquistare l’ultimo tassello, necessario per farlo ascendere all’Olimpo dei grandi di questo sport.
Negli anni successivi al titolo, pur mantenendo dei livelli di assoluta efficienza, Dirk Nowitzki non è riuscito a bissare l’impresa, sia per problemi fisici, ad esempio l’intervento al ginocchio nel 2012, sia per lo smantellamento del roster campione del mondo, con sostituti incapaci di raggiungere nuovamente quel livello di efficacia.
Nowitzki ha rappresentato, da un punto di vista squisitamente tecnico-tattico, un giocatore avveniristico per i suoi tempi: prototipo dello stretch 4 moderno e, per certi versi, uno dei primi giocatori capaci di poter realizzare, sebbene in modo embrionale, quel concetto di small ball che è ormai predominante nella NBA; mai prima di lui si era visto un atleta capace di coniugare in maniera così mirabile caratteristiche tecniche così diverse in un corpo, tradizionalmente, associato ad altri compiti su un campo da basket.
Nonostante alcune cose possano essere, ed effettivamente siano, attualmente considerate scontate a livello tecnico, non bisogna mai dimenticare che uno dei precursori di queste rivoluzioni è stato proprio Dirk Nowitzki, un ragazzone tedesco proveniente da una piccola cittadina della Baviera, che, nonostante le 38 primavere e una carriera quasi giunta al capolinea, continua a incantare sul parquet con la sua pallacanestro atipica fatta di una sgraziata leggerezza difficilmente replicabile. Con quel fadeaway a passo d’oca e quel tiro a obice con una parabola altissima, Dirk Nowitzki è stato l’eccellenza europea più grande dello sport americano, ed è riuscito a divenirne un’icona e una leggenda assoluta, grazie al duro lavoro e imparando dagli errori fatti nel corso della sua carriera.
Quindi danke schon, Dirk. Di tutto.
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