Gli italiani sono da sempre un popolo di santi, poeti, navigatori e, aggiungiamo noi, scrittori di prosa. Nascosto in ognuno di noi c’è uno spirito narrativo che aspetta solo un’occasione per venire fuori. Noi di theWise abbiamo pensato di dare spazio e voce alle giovani penne che popolano questo Paese. Inizia quindi con questo numero una nuova rubrica, “theWise racconta”. Ogni mese ospiteremo un racconto breve di un nostro lettore o di un nostro autore.
Diego Salvadori apre le danze con Il re della scuola, una storia di ordinaria diversità narrata però in maniera delicata e onirica.
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Laura Primiceri
Ho solo otto anni e sono il re della mia scuola.
In realtà ne ho ancora sette e mezzo, ma tutti a scuola diciamo sempre di avere già gli anni che dobbiamo ancora compiere.
I miei genitori mi hanno iscritto alla migliore scuola privata della città, e io di questa scuola sono sicuramente il ragazzo più popolare.
Ho lo zaino più bello della mia classe, probabilmente il più bello di tutto l’istituto, ma di questo non sono sicuro perché non ho visto tutti gli zaini di tutti i bambini che ci sono a scuola.
Il mio zaino però ha le ruote, come la valigia della mamma e quella del papà. E pochissimi altri bambini hanno lo zaino con le ruote, quindi il mio è più bello.
Sono il re della scuola perché tutti mi vogliono bene e mi rispettano, come quel re di cui ci ha parlato la maestra di storia lo scorso anno.
I miei compagni mi chiedono sempre se ho bisogno di qualcosa, o se voglio un pezzetto della loro merenda.
Ogni tanto la mamma di Sara compra una merenda a Sara e una anche a me.
Sara è ricca, quindi la sua merenda è la più buona di tutte; la sua mamma infatti la compra alla pasticceria vicino alla scuola, quella con i tavolini fuori anche d’inverno.
Una volta ho chiesto alla mamma di comprarmi la merenda anche a me in quella pasticceria, ma mi ha risposto che costavano troppo e che quindi mi dovevo accontentare delle crostatine confezionate.
Anche le maestre riconoscono il mio stato di re della scuola, per esempio quando facciamo gli sciocchi.
Una volta abbiamo iniziato a tirarci gli astucci per gioco, e a me, essendo il re della scuola, non hanno fatto scrivere cinquanta volte sul quaderno «non si tirano gli astucci degli altri», ma solo cinque!
Se questo non vuol dire essere il bambino più popolare, non so davvero cosa possa significare.
Anche i bambini ritenuti più bulli mi lasciano in pace.
Secondo me hanno un po’ paura di me, anche se hanno un anno o due di più, e hanno soprattutto paura dei miei compagni, i miei scudieri, che accorrono subito in mio soccorso se qualcuno mi dà fastidio.
Una volta un bambino cattivo (almeno a quei tempi) chiamato Paolo, mi ha dato una spinta a ricreazione e mi ha fatto sbattere forte per terra.
Non mi sono messo a piangere – i veri re non piangono – ma mi sono venuti lo stesso i lacrimoni, sono diventato tutto rosso (questo me lo hanno detto, in quanto non riesco a vedermi la faccia) e per un attimo mi è mancato il respiro.
Comunque le maestre si sono molto arrabbiate con Paolo, e anche i suoi genitori.
Il papà di Paolo mi ha anche voluto parlare, per assicurarsi che stessi bene e che non scatenassi i miei amici contro suo figlio.
«Vedi ometto» mi ha detto, parlandomi da uomo a uomo, «Paolo ogni tanto fa delle fesserie, ma non è cattivo e ti assicuro che ha imparato la lezione.»
Adesso io e Paolo siamo amici, e anche se è più grande di me viene sempre a salutare e una volta mi ha persino regalato una scatola di pennarelli nuova di zecca.
Non vi ho ancora detto che il disegno e l’arte in generale sono la mia più grande qualità.
Ogni volta che a scuola facciamo un disegno, e poi giudichiamo ognuno i disegni degli altri, i miei sono sempre quelli che piacciono a tutti.
Solo una volta la maestra si è arrabbiata e mi ha detto che il mio disegno era brutto (e in effetti non mi ero impegnato molto), e ha detto a tutti gli altri bambini che non devono dirmi che i miei disegni sono belli se invece non lo sono.
Secondo me era un po’ invidiosa, però quella volta il mio disegno non era niente di che.
A parte questo sono molto contento della mia situazione. Spero di poter continuare ad essere così popolare per tanti altri anni, e che tutti continuino a volermi bene e a voler stare con me.
Non voglio più stare male come quella volta che andammo al matrimonio della cugina di papà.
Anche lì erano tutti molto carini con me, tutti tranne un bambino, che non so bene chi fosse, che tutto il giorno mi ha guardato in modo strano, ridacchiando con la sua sorellina.
La sorellina a un certo punto mi ha indicato, dicendo una parola che non avevo mai sentito prima, e che non credo significhi nulla, in realtà.
Almeno così mi ha risposto la mia mamma, quando le ho chiesto: «Mamma, che vuol dire down?»
* * *
Il risveglio è brusco. Anna, quasi spaventata dal suo stesso battito cardiaco, riesce a malapena a tirarsi su, avvicinando la schiena al muro nudo su cui appoggia il letto. Marco dorme tranquillo. Respira profondamente e rumorosamente, pensa Anna, e un sorriso benevolo le compare sul volto.
Ripensa al sogno che ha fatto, cerca di ricordare ogni dettaglio, ha paura che se non lo rielaborerà subito al mattino non ricorderà più niente. Vuole svegliare Marco: valuta la possibilità di scuoterlo appena, di baciarlo sulla fronte, di accendere la luce o fare semplicemente rumore. Dopo poco rinuncia, decide di rimettersi a dormire. Parleranno al mattino. Supina, cullata dal respiro di Marco, Anna chiude gli occhi e, carezzandosi la pancia, pian piano si riaddormenta.
* * *
«Mi ami?»
Lui appoggia il tablet sul piano della cucina, accanto ai fornelli. Lei lo fissa: non ha dormito molto. Il ricordo del sogno che l’ha svegliata non è nitido come lo era poche ore fa, ma lei non lo ha dimenticato.
«Mi ami e mi amerai qualunque cosa succeda? Qualsiasi scelta io faccia?»
Lui la fissa. I suoi occhi azzurri si specchiano in quelli di lei. Aspetta, in silenzio, senza distogliere lo sguardo: aspetta sia lei a farlo. Alla fine lei cede, portando la mano dove l’ha tenuta per quasi tutta la notte.
«Hai deciso di tenerlo?»
Nel silenzio della cucina, Marco riesce quasi a sentire il rumore del suo leggerissimo segno di assenso.
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