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Meditate gente, meditate! Come la meditazione cambia il cervello

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Ludovico Coletta

Meditazione: il classico argomento in grado di polarizzare qualsiasi discussione. Le ragioni per essere fervidi sostenitori o impavidi scettici non mancano. Alcuni benefici, come un miglioramento dell’attenzione, della regolazione delle emozioni e delle capacità introspettive (la cosiddetta self-awareness, insomma), sembrano essere innegabili. Tuttavia, in molti studi, è difficile controllare tutte le variabili di disturbo, e nei casi qualitativamente più scarsi è addirittura impossibile escludere l’attribuzione dei risultati all’effetto placebo.

Una definizione, molteplici implementazioni

Con il termine meditazione si intendono tutte quelle pratiche di “training mentale” atte a migliorare le abilità psicologiche di base. Bisogna sottolineare come in ambito accademico la scena sia ampiamente dominata dalle tecniche di mindfulness, ossia da tutte quelle tecniche caratterizzate da un atteggiamento contemplativo e scevro da ogni giudizio nell’elaborazione costante del flusso sensoriale e non. L’origine di queste usanze sembra essere buddhista, ma il grande interesse del mondo occidentale ha poi portato a veri e propri programmi con fini terapeutici. I più importanti sono il “Mindfulness-Based Stress Reduction” (MBSR) e il “Mindfulness-Based Cognitive Therapy” (MBCT), sviluppati da Jon Kabat-Zinn presso l’università del Massachussetts e oggi utilizzati in un grandissimo numero di studi.

Meditazione e attenzione

Svariati modelli teorici si sono occupati di inquadrare il fenomeno a noi noto come attenzione. Uno dei più importanti prevede l’esistenza di tre subcomponenti: allerta, orientamento e risoluzione dei conflitti. Dal punto di vista evolutivo è evidente l’importanza dei suddetti processi: monitorare l’ambiente circostante, decidere a quale stimolo dare la priorità e quale inibire e aggiornare continuamente il flusso di informazioni erano (e sono ancora oggi) indispensabili per sopravvivere. Non a caso, ognuna delle tre componenti viene mappata individualmente nel cervello.

I risultati di una meta-analisi pubblicata nel 2011 dimostrano che le tecniche di mindfulness sono associate a un miglioramento in ognuna delle tre componenti, mentre una meta-analisi pubblicata nel 2014 conferma invece che i miglioramenti a livello comportamentale vanno di pari passo con cambiamenti morfologici nei rispettivi circuiti cerebrali. Anche in ambito clinico non mancano risultati incoraggianti: relativamente al fattore attenzione, una recente meta-analisi ha confermato l’efficacia di terapie basate sulla meditazione di stampo mindfulness nel ridurre i sintomi del disturbo da deficit di attenzione o iperattività. Lo scenario è invece agrodolce per quanto riguarda le dipendenze: una meta-analisi pubblicata nel 2017 non ha riscontrato nessun beneficio della meditazione sul numero di sigarette fumate per giorno, anche se sembrano esserci risultati promettenti (seppur solamente preliminari) per le dipendenze da gioco d’azzardo.

Meditazione e regolazione delle emozioni

Come nel caso dell’attenzione, anche per la regolazione delle emozioni i benefici della meditazione appaiono evidenti: minor frequenza e intensità di episodi emotivamente negativi, minore reattività fisiologica a emozioni negative e – globalmente parlando – maggior buonumore. Dover cogliere l’hic et nunc senza giudicare sembrerebbe promuovere una certa disposizione a un controllo di stampo cognitivo sul flusso emotivo. Questa speculazione è coadiuvata dai risultati del neuroimaging funzionale: alle prese con uno stimolo di natura cognitiva, i meditanti mostrano una ridotta attività dei circuiti limbici – per l’appunto coinvolti nella generazione delle emozioni, soprattutto quelle negative – e un’aumentata attività dei circuiti prefrontali, a loro volta noti per essere circuiti di regolazione. Anche per quanto concerne la regolazione delle emozioni sembrano esserci promettenti sbocchi clinici, soprattutto per i disturbi affettivi (depressione, disturbi d’ansia e disturbo bipolare), in quanto in quest’ultimi è noto un certo disequilibrio tra i circuiti prefrontali e quelli limbici. Uno studio pubblicato nel 2015 su The Lancet ha mostrato che una terapia mindfulness ha la stessa efficacia degli antidepressivi nel trattamento della depressione.

Un altro studio pubblicato nel 2013 ha invece analizzato la connettività funzionale del cervello – calcolata come correlazione nell’oscillazione del segnale tra due regioni – pre e post terapia in pazienti afflitti da un disturbo d’ansia generalizzato. Prima della terapia i pazienti erano caratterizzati da una correlazione negativa; in altre parole, all’aumentare dell’intensità del segnale della corteccia prefrontale corrispondeva una diminuzione dell’attività dei circuiti limbici, risultato interpretato come tentativo di reprimere la forte emozione negativa. Dopo la terapia, invece, la correlazione del segnale tra le due regioni era positiva e, fatto ancora più importante, la correlazione positiva del segnale andava di pari passo col miglioramento dei sintomi. Il miglioramento della terapia è sembrato quindi dipendere dal tentativo di monitorare l’emotività piuttosto che reprimerla, proprio come previsto dal tipo di terapia in questione.

Meditazione: nuova panacea contro i grandi mali del nostro tempo?

Si parlava in apertura di articolo delle diverse lacune metodologiche di quest’area di ricerca. Uno dei primi punti dolenti è la mancanza di integrazione tra gli studi di neuroimaging e quelli comportamentali, per la quale spesso è impossibile sapere se e come le differenze cerebrali si riflettono effettivamente nella vita quotidiana. Le carenze metodologiche sono anche osservabili nelle letture delle meta-analisi. Da un campione molto esteso di papabili articoli, infatti, spesso una buona parte viene esclusa per le questioni metodologiche più disparate: mancanza di un gruppo di controllo adeguato, variabili di disturbo completamente dimenticate o campioni troppo piccoli. Paragonare una tecnica di meditazione al non fare niente, per esempio, potrebbe essere una scelta infelice in alcuni casi, soprattutto in caso di principianti, dove l’interazione con l’insegnante o gli altri membri del gruppo – o semplicemente il fare qualcosa – potrebbe rappresentare una buona spiegazione alternativa.

La soluzione, in questi casi, è avere un gruppo a cui si fa credere di star meditando, in modo da controllare i fattori di disturbo citati poc’anzi. Anche il controllo di tutte le variabili di disturbo è qualcosa di subdolo: spesso, al fianco della meditazione, vi sono diete diverse rispetto alla non-meditazione, diverse abitudini nel dormire (chi medita tende a dormire di meno) o addirittura un’altra struttura della personalità. Inoltre il campo di ricerca sulla meditazione sembra particolarmente affetto dal publication bias: questo fenomeno descrive la tendenza a pubblicare studi con esito positivo (qui da intendere come studi che trovano un qualsiasi effetto statisticamente significativo) a scapito di studi che non trovano alcun risultato. Per concludere va sottolineato come comunque – anche in quest’ambito – esistano molti studi di qualità eccellente, i cui risultati fanno ben sperare nell’applicazione clinica della meditazione.

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Ludovico Coletta

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