Chi ha vissuto a Roma non avrà certo dimenticato (e come potrebbe, d’altronde?) l’immagine di una Piazza del Popolo gremita di cupe legioni di individui accampati sulle scale delle due “chiese gemelle”. Tralasciando per un momento il senso d’inquietudine da cui siamo stati pervasi, chi più chi meno, sappiamo davvero chi (e cosa) si celasse dietro quello sguardo assente e quelle frangette un po’ troppo lunghe?
Inizialmente il termine emo veniva usato come abbreviazione di ’emocore’, un sottogenere dell’hardcore punk – caratterizzato da una forte predilezione per i sentimenti (in opposizione alla rabbia, alla politicizzazione e allo smashing stuff up tipicamente punk) – che si sviluppa negli Stati Uniti verso gli anni Settanta e Ottanta, per poi raggiungere il suo apice intorno ai Novanta. In un primo momento, con emo si identificavano i gruppi musicali di Washington DC – centro propulsore dell’hardcore punk – come Minor Threat; il termine sembra che stesse a indicare il desiderio di queste band di emozionare i propri fan. Con il passare del tempo, poi, si venne a creare una vera e propria sottocultura emo, costituita perlopiù da adolescenti (14-19 anni) bisognosi per natura di appartenere a un gruppo di pari, per appagare in tal modo il proprio narcisismo e dar forma alla propria identità. Leslie Simon e Trevor Kelley, rispettivamente direttore editoriale e leading contributor di Alternative Press, nel loro libro Everybody Hurts: An Essential Guide to Emo Culture spiegano che «l’emo è sì ancora un genere musicale, ma molto di più è uno stato mentale. È un luogo dove le persone che si sentono fuori posto – dove chi si sente così vuole trovare dei propri omologhi – vengono a trovare riposo, e l’ideologia ivi dominante è qualcosa che chi segue prende molto sul serio».
L’ideologia alla base della subcultura emo interessa ogni aspetto della vita di chi decide di seguirla: da come sistemare i capelli a cosa mangiare, passando per i gruppi musicali da ascoltare, il modo di guardare il mondo e di percepire sé stessi. Esistono una serie di valori significativi cui la «sottocultura delle emozioni» – come la definisce Gianandrea Serafin – fa riferimento e che ne rappresentano le fondamenta ideologiche: la depressione, la (presunta) spontaneità, l’empatia, la convinzione, l’insicurezza e la mancanza di atletismo.
Per quanto riguarda la depressione, essa si configura come una cassa di risonanza per coloro che rivelano una stessa visione del mondo e della vita. Il nichilismo e il pessimismo sono alcune delle ragioni intrinseche dello stato d’animo depressivo, in quanto vi è la convinzione che la vita non sia neanche degna di essere definita tale.
La spontaneità consiste, per gli emo, nell’apparire del tutto indifferenti a ciò che gli altri pensano e dicono, cosa che, a ben vedere, risulta più complicata di quanto possa sembrare. Non è un caso se tipicamente essi impiegano ore e ore per sistemare i capelli con gel e pomate (dalle consistenze a tratti esecrabili) in modo tale da sembrare appena svegli, ostentando totale noncuranza verso il look e l’estetica quando, in realtà, il tutto ha richiesto loro uno sforzo notevole, più di quello che sarebbe stato necessario se, alzati dal letto, fossero usciti di casa effettivamente nature.
D’altronde, parafrasando l’umorismo di Simon e Kelley, essere emo significa inventare ostacoli inutili così da poterli superare. A proposito dell’empatia, uno dei principi cardine di questa sottocultura è quello di sentire come proprio il dolore altrui, aspetto ancora più pregnante se si pensa che numerosi emo abbracciano il veganismo proprio per manifestare un profondo rifiuto nonché disprezzo nei confronti dello sfruttamento di qualsiasi forma di vita. Secondo una ricerca dell’Università del Michigan, è proprio per questa spiccata sensibilità, nonché per un maggior senso di affidabilità suscitato (in netto contrasto con i tratti tipici di ciò che Serafin definisce lo «stereotipo dell’adolescente maschio»), che gli emo boys sono molto amati dalle ragazze giovani, non solo da quelle che appartengono alla sottocultura ma anche dalle altre.
Per quanto riguarda la convinzione, Kelley e Simon sostengono che «quando i seguaci della cultura emo credono in qualcosa, lo fanno al 110% […]. Per essere precisi, essere emo è soprattutto avere quell’incrollabile convinzione che permette all’individuo di affrontare le sfide di un nuovo giorno (e di parlarne su un blog a fine giornata)».
L’insicurezza è uno dei tratti caratteristici della fase adolescenziale, ed è legata essenzialmente ai cambiamenti da cui il giovane è investito a livello sia corporeo sia comportamentale. Augusto Palmonari, nel suo Gli adolescenti, spiega come tali cambiamenti creino un profondo squilibrio, evidente soprattutto nel rapporto con gli altri (i pari in particolar modo), rispetto ai quali ci si sente spesso “un po’ meno”. Nel mondo emo questo senso d’insicurezza risulta amplificato, sebbene i membri, come già spiegato, tendano a voler dare l’impressione contraria. Ciò avviene, oltre che per motivazioni del tutto naturali legate alla giovane età, anche per il profondo disprezzo che i coetanei, e in particolar modo i truzzi (altra sottocultura nella quale però prevale l’aggressività) provano nei confronti della sottocultura in questione: su internet è facile trovare blog e forum in cui si prendono di mira gli emo, anche con dispregiativi quali ‘sc-emo’ et similia. A ogni modo, Simon e Kelley ironizzano sulla questione, affermando che «l’insicurezza è un valore fondamentale inculcato agli emo già da giovani così da prepararli adeguatamente per la mediocrità della vita da classe media».
La mancanza di atletismo, infine, è forse uno dei tratti più evidenti dei giovani emo. D’altronde, coinvolgersi in attività sportive significa entrare in contatto con persone al di fuori della propria ristretta cerchia di conoscenti, nonché mettersi in mostra, entrambe ipotesi che non si confanno molto allo stile di vita emo. In più, la maggior parte delle attività tipiche di questa sottocultura si svolgono dietro agli schermi di computer e smartphone, sopra letti, divani e sedie: nulla che abbia a che fare, insomma, con palestre e campi da calcio.
Ancora Simon e Kelley ritengono che il mondo emo attinga gran parte del proprio impianto ideologico da una serie di personaggi storici, tra i quali William Shakespeare, Jane Eyre, Emily Dickinson, Holden Caulfield e Buddy Holly. L’estrema sensibilità, nonché l’ambiguità sessuale, fanno di Shakespeare un emo to the core. «It’s no coincidence that the members of Panic! at the Disco [noto gruppo della scena emo, N.d.R.] look like they’re about to star in a performance of Hamlet». Per quanto riguarda Jane Eyre, romanzo pubblicato nel 1847 da Charlotte Brontë, la protagonista, oltre a essere cresciuta come un’orfana, scopre diversi anni dopo che l’uomo che era in procinto di sposare era in realtà già sposato. L’autrice pubblicò il romanzo sotto lo pseudonimo (indefinito dal punto di vista del genere sessuale) di “Currer Bell”, in risposta all’idea diffusa di quel periodo secondo cui le donne non potevano essere scrittrici di successo. Moltissimi anni dopo, JT Le Roy, “emo-approved author”, userà lo stesso espediente.
Emily Dickinson, una delle principali poetesse americane del diciannovesimo secolo, è considerata tra i maggiori emo ancestors, soprattutto per la sua presunta agorafobia che la costringeva alla reclusione e per la sua opera romantica e melodrammatica allo stesso tempo. A tal proposito, Kelley e Simon puntualizzano: «Sia la parola ‘recluso’ che la parola ‘melodrammatico’ potrebbero sembrare un’offesa, ma dagli emo sono estremamente benvolute». Holden Caulfield, protagonista del celebre romanzo The Catcher in the Rye di J.D. Salinger, è ritenuto un’icona del mondo emo, essendo un manifesto d’insicurezza e depressione. E infatti, proseguono i due autori, «è stata solo una questione di tempo (sei anni, per essere precisi) per fare sì che una band melodic hard-core della West Virginia adottasse il suo nomignolo». Infine Buddy Holly, cantautore statunitense morto precocemente in un incidente aereo, rientra a pieno titolo tra gli emo ancestors. In particolar modo, «[la sua] eredità emo vive ancora nei classici pezzi boy-meets-girl come Peggy Sue e That’ll Be the Day, nell’uso della sua calata singhiozzante (ahem, Daryl Palumbo) e nel fascino estetico di Rivers Cuomo».
La sottocultura emo, fin dai suoi albori, è stata oggetto di numerosi pregiudizi, aspetto che non può (e non deve) meravigliare se si pensa al modo in cui venivano percepiti i giovani punk alcuni anni prima. È chiaro che le subculture “spettacolari” rappresentino una rottura rispetto al mainstream e tendano a enfatizzare tale frattura tramite l’adozione di comportamenti, look e idee fortemente stigmatizzanti (e stigmatizzate): come già chiarito da Dick Hebdige, «l’emergere di una sottocultura spettacolare è invariabilmente accompagnato da un’ondata di isterismo». Everybody Hurts. An Essential Guide to Emo Culture fa riferimento ai principali preconcetti riguardanti il mondo emo. Ad esempio: «essere emo significa non avere amici», «il termine emo si riferisce a un genere musicale e non a un lifestyle», «esser definiti emo è un insulto», «essere emo significa piangere tutto il tempo», «i veri emo sono celibi», «se sei emo ti astieni da ogni tipo di eccesso».
Gli autori del testo fanno notare come in tutti questi casi, sebbene la componente del pregiudizio sia forte, vi sia comunque un fondo di verità. La subcultura non prevede la preclusione di rapporti d’amicizia, eppure è stato notato come tenda a privilegiare i rapporti online, strizzando un occhio a piattaforme quali il defunto MySpace e blog di vario tipo come Tumblr. Inoltre, sebbene sia fuori discussione che il mondo emo preveda non solo un genere musicale di riferimento ma anche (e soprattutto) un impianto di atteggiamenti e stili (nonché un certo modo di vivere), è altrettanto indiscutibile che, alle sue origini, il termine designasse un particolare sottogenere dell’hardcore punk. Altra questione interessante riguarda la presunta ostilità cui il termine emo rimanda: nel testo di cui sopra si sottolinea come – sebbene oggigiorno band e fan abbiano deciso di porre fine a ogni discussione, auto-celebrandosi come emo – inizialmente il termine venisse usato in senso dispregiativo, e nessun gruppo amasse definirsi ed esser definito tale.
Considerando, invece, la supposta tendenza dei ragazzi emo a piangere frequentemente, nel libro viene specificato come questo avvenga «con moderazione», ma non si discute l’effettiva sensibilità di cui è fautrice questa sottocultura, né quindi la propensione alle lacrime dei suoi membri. A proposito dell’ipotizzato celibato, gli autori affermano in modo estremamente chiaro che «il sesso è qualcosa che viene spesso ambito dalle masse emo ma che, di solito, difficilmente è stato realmente mai provato». In conclusione, la presunta straight edge di cui la sottocultura sarebbe promotrice non è in realtà così straight, in quanto la sperimentazione è assolutamente accettata e, anzi, incoraggiata: si pensi, ad esempio, alla tenacia con cui viene promossa la bisessualità. Indiscutibilmente, tuttavia, gli eccessi non sono graditi in nessun ambito e contesto.
Uno dei principali modi attraverso cui una subcultura esprime la propria ideologia e la propria mission è lo stile. L’abbigliamento – e, in generale, il look – rappresentano lo strumento tangibile e visibile che permette di manifestare la propria diversità e il distacco dal mainstream, fortificando il senso di appartenenza e creando un insieme di codici comunicativi nei quali i membri si possano riconoscere e identificare. Scelte estetiche, comportamentali e musicali rappresentano, nelle parole di Serafin, vere e proprie «strategie di protesta simbolica», ed effettivamente la caratteristica fondamentale delle sottoculture spettacolari è quella di svilupparsi in un contesto chiaro e preciso. Nel caso dello stile emo, un ruolo fondamentale è svolto dai dettagli.
Nel tentativo di fornire una panoramica esauriente del look tipico di questa subcultura, è necessario operare una distinzione tra abbigliamento maschile e abbigliamento femminile. Si inizierà dal primo. Uno dei must-have per eccellenza degli emo boys è rappresentato dalle magliette raffiguranti le principali band di riferimento. Simon e Kelley precisano che queste debbano essere cento per cento cotone e, preferibilmente, prodotte negli Stati Uniti. Lo scopo non è boicottare la manodopera a basso costo o, più in generale, palesare un certo nazionalismo. Semplicemente «le magliette prodotte negli USA sono in qualche modo – del tutto non spiegabile – più soffici di quelle prodotte, che so io, in Indonesia». A causa di personaggi come Anthony Raneri (frontman del gruppo Bayside) e Buddy Nielsen, molti emo hanno iniziato a indossare sempre più spesso le polo, dotate di applicazioni raffiguranti cuori spezzati e stelle serigrafate con, immancabile, il colletto piegato in alto. I blazers sono gli unici outerwears consentiti insieme alle felpe: in estate è possibile abbinarli con una t-shirt o una canotta, mentre in inverno con un maglione a girocollo. Per quanto riguarda i jeans, essi devono essere necessariamente skinny, sulla falsariga di quelli femminili. Le scarpe privilegiate sono quelle di tela e tendenzialmente si scelgono Vans e Converse.
L’abbigliamento femminile segue la stessa logica di quello maschile: i dettagli sono fondamentali. Anche in questo caso s’indossano frequentemente magliette raffiguranti gruppi musicali e i jeans sono preferibilmente skinny. Per quanto riguarda i top, idealmente questi dovrebbero essere a righe con uno scollo a V, ma tendenzialmente le emo girls indossano anche canotte e magliette con maniche a tre quarti. Anche i cardigan sono un capo peculiare, perlopiù raffiguranti ciliegie, pistole incrociate e passeri. L’obiettivo principale di un’emo-girl è quello di apparire carina e, a tale scopo, l’outerwear privilegiato è il parka, sebbene anche i blazers vengano largamente indossati. Infine, anche nel caso delle ragazze, si tende a preferire scarpe di tela come le già citate Converse e Vans; eppure, se lo scopo è risultare più femminili, sono assolutamente adatte anche le ballerine e i tacchi sottili a spillo.
Una menzione a parte meritano i tatuaggi, i quali, fin dalle origini del movimento emo, hanno giocato un ruolo rilevante. Simon e Kelley precisano che non vi sono regole precise per quanto riguarda lo stile dei tatuaggi, fatta eccezione per una: i tribals sono boicottati. D’altronde, essi sono tipici dei ragazzi palestrati e sportivi che popolano generalmente il liceo, e – come si è già sottolineato – il rapporto tra gli emo e lo sport (e, più in generale, coloro che lo praticano) non è affatto sereno.
Un’altra componente significativa della sottocultura emo sono i capelli, e nello specifico il modo di sistemarli. Sono sempre Trevor Kelley e Leslie Simon a precisare la ragione di quest’importanza: «The point is that if you are born an emo type you’re often going to feel like an awkward social outcast and – for better or worse – you’re probably going to look that way too». Ancora una volta, è necessario distinguere tra acconciature maschili e femminili. Si inizierà dalle prime, che comprendono:
Per quanto riguarda, invece, le acconciature femminili, si possono riconoscere:
Grande importanza riveste internet – o, se vogliamo, la panacea di tutti i mali: attraverso blog, forum, chat e siti online, la rete crea, per dirla con le parole di Gianandrea Serafin, assistente sociale, sociologo e criminologo, nuovi «spazi di socializzazione e confronto che integrano, e talvolta sostituiscono, le dinamiche di relazione face-to-face». Secondo Maria Egizia Fiaschetti, inoltre, l’assenza di compresenza fisica garantita dallo schermo del PC consente la creazione di una identità virtuale che spesso, soprattutto tra i più giovani, sopperisce a un disagio di tipo relazionale.
Nelle sottoculture spettacolari il bisogno di creazione di una certa identità risulta più acuto, e il web, dunque, rappresenta lo strumento più adatto per la realizzazione dell’immagine di sé. Tale processo è favorito dalla presenza degli avatar, le identità virtuali che, celando quella reale, possono risultare anche molto rischiose. A tal proposito, Kelley e Simon chiariscono: «Internet si è di recente trasformato in un posto estremamente più accessibile rispetto al passato, dove chiunque può trovare una moltitudine di ragazzini emo annoiati, ragazzi che diversamente finirebbero emarginati nei sobborghi urbani – un posto dove, in sostanza, chi normalmente non avrebbe modo di socializzare può fare amicizia».
Le comunità online sono uno dei fronti comunicativi preferiti dagli emo, i quali, attraverso i post, riescono a esprimere le proprie emozioni e i propri stati d’animo. Lo scopo è quello di condividere un bagaglio emotivo che nella quotidianità viene celato dietro frangette un po’ lunghe e sguardi sfuggenti. Così, un articolo de ilReporter dal titolo Emo, una moda rischiosa (2009) ha proposto l’esempio di un post pubblicato su un blog da un ragazzo, dal contenuto non trascurabile: «Non sarò un vero emo finché non sarò morto». I commenti che hanno fatto seguito al post sono stati di solidarietà e, soprattutto, d’incentivo al suicidio.
Eppure, come mette giustamente in luce Gianandrea Serafin, «[è] interessante notare il fatto che colui che annunciava il gesto estremo si sia connesso il giorno dopo per controllare quali messaggi erano stati scritti, palesando così una profonda richiesta d’attenzione». La depressione tipica degli emo boys e delle emo girls, emblema di un intimo disagio, si canalizza spesso nel bisogno di stare nell’occhio del ciclone e di suscitare le premure altrui. Appare evidente, in questo senso, un contrasto netto con l’intimità e il solipsismo di cui la sottocultura si fa portavoce. Ma se in rete gli emo ricercano una qualche dose di popolarità attraverso la pubblicazione di stati melodrammatici che possano far breccia nel cuore delle communities, la stessa popolarità viene completamente rinnegata nel quotidiano.
L’autolesionismo è una delle pratiche tipiche della sottocultura emo, che mal cela una forte componente deviante al suo interno; una devianza particolare, però, che si riversa esclusivamente su chi la compie. Alla base di questa prassi vi è un’angoscia psichica che si cerca di attenuare con quella fisica, considerata meno intollerabile: Rita Ferrarese e Roberto Pani – nel loro Il sé insipido negli adolescenti – sottolineano che «bruciature, incisioni, scorticature, scarnificazioni inflitte sul corpo sono paradossalmente un mezzo di tutela di Sé e allo stesso tempo un modo di lottare contro la paura del perdersi, che in adolescenza si esprime con le condotte a rischio». Queste sono, ancor prima che ferite fisiche, ferite spirituali e psicologiche: un grido disperato e una ricerca di attenzione.
Il dolore provato direttamente sulla pelle diventa una valvola di sfogo, attraverso cui si esorcizzano la sofferenza e il disagio: nelle parole di Le Breton, «aggredendosi in qualche modo l’individuo infrange la sacralità sociale del corpo, poiché la pelle risulta il recinto inviolabile, pena lo scatenarsi dell’orrore». Secondo Serafin, tra le ragioni che conducono un adolescente emo ad auto-infliggersi pene corporali vi sono «l’insicurezza tipica della fase adolescenziale, durante la quale i ragazzi sono più soggetti ai diversi tipi di influenze», ma anche l’estrema facilità con cui i giovani possono comunicare ed entrare in contatto. A tal proposito, diversi sono i siti internet che propongono, in maniera problematicamente esplicita, veri e propri elenchi di come e dove provocarsi dolore; «il rischio è che farsi del male diventi una moda pericolosa, e che il significato della parola emo [finisca] per diventare quello di emulazione».
Sarebbe scorretto affermare che la sottocultura in questione sia completamente avviluppata nella logica dell’autolesionismo, in quanto non tutti gli aderenti ricorrono a pratiche di questo tipo. Ciononostante, la presenza di situazioni simili è innegabile (scorrendo nel web se ne fa menzione in blog, forum, community varie e articoli di testate giornalistiche) e ne ha resa necessaria un’analisi. A tale scopo, risulta pregnante e significativo l’intervento della sociologa Luisa Stagi: l’età moderna ha portato con sé un profondo vuoto a livello sia individuale sia interpersonale. Oggigiorno è più facile conoscere persone ma, allo stesso tempo, è più difficile relazionarsi con esse senza perdere di vista sé stessi. Il senso di indeterminatezza che permea la società può influire sulla condotta di un soggetto, portandolo, in alcuni casi, a riversare le proprie frustrazioni con il mondo esterno sull’unico elemento che percepisce veramente come proprio: il corpo, appunto. La Stagi spiega questo fenomeno, affermando che «il disagio generato dal muoversi in un contesto di incertezza, di rischio, di complessità porta a preferire strumenti di definizione che siano concreti, immediati, tangibili. Il corpo diventa allora la superficie ideale per disegnare la propria individualità, per esprimere le proprie ossessioni o il proprio disagio, per scrivere in modo indelebile e visibile il proprio dolore».
A Piazza del Popolo tutto è rimasto più o meno immutato: i piccioni sono sempre più grassi e spavaldi del normale, i turisti hanno ancora quei volti ricolmi di soddisfazione dopo gli acquisti sfrenati a Via del Corso, e i musicisti di strada continuano a essere la colonna sonora delle coppiette che amoreggiano al tramonto al Pincio. Solo una cosa è cambiata: su quelle scalette consumate dal tempo non si vedono più i volti inespressivi e i ciuffi bizzarri che caratterizzavano i giovani di qualche anno fa. Cosa sia loro accaduto o dove essi siano migrati è un quesito che, ad oggi, rimane tristemente irrisolto.
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