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Nemico pubblico numero uno: olio di palma

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Federico Massari

I supermercati non offrono soltanto la possibilità di acquistare beni necessari alla vita quotidiana, ma consentono anche di osservare le tendenze di consumo da una prospettiva molto ravvicinata. Tra gli scaffali dei reparti di prodotti dolciari – biscotti, merendine e quant’altro – è pressoché impossibile non notare una dicitura comune a gran parte delle confezioni delle diverse marche: «Senza olio di palma». Pavesi, Mulino Bianco, Giampaoli, Galbusera, Colussi, Saiwa, Balconi: sono solo alcune delle aziende che hanno optato per l’uso di oli vegetali alternativi – quali ad esempio l’olio di girasole o di colza – rispetto allo screditato “oro verde”.

L’economia contemporanea ha consentito ai consumatori, senza ombra di dubbio, di poter scegliere liberamente quale marca di uno stesso prodotto acquistare. Ciò è stato reso possibile anche attribuendo alle informazioni la reale importanza che meritano; la scelta tra il comprare un prodotto della marca X o della marca Y viene influenzata non solo dalla differenza di prezzo che intercorre tra le due, ma anche dal tipo di informazioni stampate sulle rispettive confezioni.

Queste rispecchiano a loro volta le esigenze dei consumatori. La recente presa di coscienza sui problemi ambientali riguardanti il nostro pianeta, unita al dato sconcertante riguardo alle emissioni di CO2 in agricoltura (20% del totale mondiale), ha portato alla demonizzazione dell’olio di palma, il principale responsabile di ingenti deforestazioni che hanno interessato soprattutto l’Indonesia, con un forte impatto ambientale a livello di riduzione della biodiversità e inquinamento dell’aria, del suolo e dell’acqua. Le critiche mosse contro l’oro verde appena presentate, tuttavia, non sembrano essere sufficienti: l’olio di palma è stato considerato, e lo è tutt’ora, potenzialmente cancerogeno quando non addirittura genotossico, ossia capace di causare alterazioni nel nostro codice genetico.

Deforestazione in Malesia

Mercato globale

La palma da olio (Elaeis guineensis) è ritenuta originaria dei paesi dell’Africa equatoriale (Congo e Angola). Introdotta in Malesia, negli anni ‘70 del diciannovesimo secolo, dall’Impero Britannico come pianta ornamentale, viene piantata per la prima volta a scopo commerciale nel 1917, per poi diventare – a partire dagli anni ‘60 – un prodotto cruciale per l’economia del paese, sostituendo come importanza la produzione di stagno e gomma.

Operaio raccoglie grappolo della palma. Photo credits: Kampee Patisena

Nel 2016 la produzione mondiale di olio di palma si assesta sui 64,5 milioni di tonnellate, l’86% delle quali sono fornite dalla Malesia e dall’Indonesia. Il grande apprezzamento, da parte del mercato estero, ha fatto in modo che questo diventasse, col passare del tempo, il terzo bene per esportazione in Indonesia – con 26 mln T esportate, dietro a carbone e gas petrolio – portando a un guadagno di 17,2 miliardi di dollari nel solo 2012. I principali importatori dell’oro verde sono i paesi dell’Unione Europea (per un totale di 6,6 mln T), l’India (10 mln T) e la Cina (5 mln T). Il commercio con l’estero a riguardo, tuttavia, non incide significativamente sul PIL dei due paesi del sud-est asiatico. Nonostante ciò, la coltivazione della palma da olio è nei due paesi un’importante fonte d’impiego. In Indonesia, su 120 milioni di lavoratori, di cui il 39% impiegato in agricoltura, 3,7 milioni di persone hanno come fonte di reddito la coltivazione della palma da olio, responsabile di un significativo aumento del salario medio, fatto che ha contribuito alla crescita della middle-class indonesiana a scapito della fascia di popolazione in povertà. In Malesia i numeri sono ridotti, seppur rilevanti: nel 2009, su 11,3 milioni di occupati, 590.000 persone erano nelle piantagioni di palma da olio. L’olio di palma costituisce pertanto un’ottima forma di limitazione alla cosiddetta informal economy, ossia l’economia non regolamentata e non tassata.

Piantagione di palma da olio in Malesia (Sungai Petani, Kedah). Photo Credits: WWF Australia

Il prezzo dell’olio si è stabilizzato a febbraio sui 778.75 USD a tonnellata, in leggera diminuzione rispetto a gennaio (-3.74%), ma in netto aumento rispetto al febbraio dell’anno precedente (+21.68%). La differenza di prezzo che intercorre tra l’olio di palma e l’olio di soia (838.25 USD/T a febbraio 2017) e di colza (917.37 USD/T a gennaio 2017) parla da sé, tanto che non è difficile capire il motivo per cui l’oro verde venga preferito ad altri oli vegetali. Quei 50-100 dollari a tonnellata di differenza rappresentano un motivo sufficiente, per i produttori, per continuare la coltivazione della palma, e lo stesso vale anche per i distributori. Si ritiene, inoltre, che l’ondata di disapprovazione dei consumatori – non solo europei ma anche statunitensi e cinesi – rispetto agli alimenti derivati da OGM possa rappresentare un punto di forza per l’olio di palma, dal momento che la palma non è soggetta alla tecnica del DNA ricombinante con la quale sono state ottenute la quasi totalità di varietà di soia presenti sul mercato.

Con l’inevitabile crescita della domanda di olio di palma (proporzionale alla crescita demografica), anche paesi dell’America meridionale e dell’Africa, come Colombia e Nigeria, hanno la possibilità di inserirsi in un segmento di mercato caratterizzato da un prodotto con un larghissimo impiego. La perfetta capacità di diversificare l’impiego dell’olio di palma, aggiunta a ben precise proprietà qualitative, lo rendono di gran lunga l’olio vegetale e fonte di grassi più apprezzata dal mercato, occupandone il 32% (su 186,4 milioni di tonnellate di oli vegetali prodotti annualmente).

Composizione dell’olio e impatto sulla salute

Il largo apprezzamento da parte dei compratori e distributori di olio di palma è dovuto essenzialmente al più alto contenuto di acidi grassi saturi (la maggior parte dei quali è acido palmitico) rispetto agli altri oli vegetali, la cui presenza permette all’olio di mantenere consistenza solida a temperatura ambiente. Questa caratteristica è molto importante per la conservazione dei prodotti, intendendo per conservazione la capacità di resistere all’ossidazione e all’irrancidimento, le alterazioni chimiche che fanno andare a male gli alimenti. È pertanto ovvio il contributo dell’olio di palma alla riduzione del food waste che tanto si cerca ti limitare oggigiorno.

Composizione dei principali oli vegetali

L’alta presenza di acidi grassi ha avuto tuttavia anche l’effetto contrario. Le accuse mosse all’olio di palma sono di essere la causa di rischi cardiovascolari e, come già accennato, potenzialmente cancerogeno e genotossico. È doveroso, innanzitutto, menzionare il fatto che nel latte materno la concentrazione di acidi grassi saturi sfiora il 40%, metà dei quali sono acido palmitico, lo stesso dell’olio di palma. Ciò evidenzia l’importanza nutrizionale dell’assunzione di acidi grassi saturi, soprattutto durante i primi anni di vita, in quanto fonte di vitamine. Lo stesso ingresso nel mercato dell’olio di palma ha sostituito la presenza negli alimenti dei grassi sottoposti a idrogenazione, un processo chimico grazie al quale viene aumentato il contenuto di grassi saturi, proprio per ottenere consistenza solida a temperatura ambiente. I grassi idrogenati ottenuti, tuttavia, presentano un’alta concentrazione di grassi saturi nell’isomeria trans (l’isomeria è quel fenomeno per cui, per una stessa molecola, esistono delle varianti che differiscono per la distribuzione nello spazio degli atomi). È già stato appurato in passato che gli acidi grassi trans comportano un aumento del rischio cardiovascolare, e la loro assunzione durante la dieta deve essere la più bassa possibile.

Tornando agli acidi grassi saturi presenti nell’olio di palma, però, in merito all’aumento del livello di colesterolo – ed eventuali problemi cardiovascolari che ne conseguono – si legge nel rapporto dell’Istituto Superiore della Sanità che questi comportano un aumento del colesterolo HDL e una diminuzione del colesterolo LDL. Il colesterolo, non essendo in sé mobile nell’organismo umano, ha bisogno di essere trasportato da lipoproteine che fungono da capsula. Le Low Density Lipoprotein trasportano il colesterolo alle cellule (dal momento che esso è indispensabile al loro funzionamento), e un loro eccesso può ostacolare il flusso sanguigno per ostruzione dei vasi arteriosi o per riduzione della loro elasticità, che contribuisce a spingere il sangue assecondando le pulsazioni del cuore. Le High Density Lipoprotein, al contrario, veicolano al fegato il colesterolo, che – passando per l’intestino – viene in parte espulso dal corpo tramite le feci. Se ne evince, pertanto, che non sempre un aumento del colesterolo è riconducibile a un effetto negativo sulla salute.

Data l’ingiustificata asserzione per cui l’olio di palma è nocivo per la salute, in definitiva, non sono state applicate restrizioni al suo uso, ma ciò non impedisce alle autorità di competenza (EFSA e OMS) di stabilire delle soglie oltre le quali ne è sconsigliata l’assunzione (la quantità giornaliera di acidi grassi saturi nella dieta non dovrebbe superare il 10% delle calorie totali). In più, come specificato nel rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità, la valutazione dell’impatto sulla salute di un alimento non può prendere in esame, ad esempio, l’olio di palma senza tenere in considerazione come esso si inserisce nella dieta e nello stile di vita.

Olio di palma: uso e consumo

L’olio di palma viene utilizzato dall’industria alimentare dopo essere stato raffinato. L’olio crudo grezzo, in seguito alla spremitura del frutto o dei semi, è caratterizzato da un’elevata concentrazione di beta-carotene, il precursore della vitamina A, che gli conferisce il caratteristico colore rossastro. Nella maggior parte dei paesi del sud-est asiatico e dell’Africa l’olio viene consumato nella sua forma grezza, e gli viene attribuito pertanto anche un valore terapeutico. Nei paesi occidentali, al contrario, esso viene utilizzato dopo il frazionamento per ottenere stearina e oleina. I due composti sono soggetti a un’ulteriore liquefazione da cui deriva l’olio filtrato. La palm-stearina è dotata di una concentrazione maggiore in acidi grassi saturi, mentre la palm-oleina contiene una quantità maggiore di acidi grassi monoinsaturi, e l’olio che deriva da quest’ultima viene principalmente utilizzato come olio da frittura, per l’elevato punto di fumo (200°C). Le temperature alle quali si svolgono questi processi fanno sì che l’olio esca dal processo quasi privo di carotene.

Olio di palma non raffinato, ancora ricco in carotene

Gli scarti derivanti dalla spremitura al mulino del frutto e dalla raffinazione dell’olio grezzo possono essere riutilizzati come biomassa per alimentare gli impianti di produzione di bioenergie. I gusci svuotati dalla polpa e la fibra in essi contenuta, in particolare, possono fungere da substrato microbico per produrre metano (in altre parole vengono utilizzati come mangime per i microrganismi), che viene generalmente convogliato in un reattore che brucia il gas producendo energia elettrica. Un altro prodotto di scarto dalla lavorazione del frutto della palma da olio sono le acque reflue, potenzialmente inquinanti, che possono essere trattate con impianti di fitodepurazione, capaci di consentirne il riutilizzo come acqua d’irrigazione. Le industrie alimentari non sono le uniche a sfruttare l’olio di palma. L’olio ottenuto dalla spremitura dei semi e non della polpa dei frutti è particolarmente apprezzato dalle industrie di cosmetici, saponi e detergenti, ed è identificabile sulle etichette dal nome ‘Kernel Oil’.

Residui di lavorazione del frutto (EFB – Empty Fruit Bunches), utilizzabili per la produzione di bioenergie

Olio di palma: coltivazione e impatto ambientale

Il film-documentario uscito l’anno scorso con Leonardo DiCaprio – Before the Flood – denuncia la presunta insostenibilità ambientale delle piantagioni della palma da olio. È innegabile che la sempre maggiore domanda di “oro verde” comporti l’incremento delle deforestazioni per avere a disposizione più superficie coltivabile. Vengono tuttavia trascurati aspetti di grande importanza. Innanzitutto, il largo apprezzamento dell’olio di palma mostra come sia impossibile rinunciare a un terzo del mercato globale di oli vegetali e grassi, proprio per i motivi economici sopra elencati. Una sua eventuale sostituzione con altri oli vegetali, inoltre, sarebbe ancor più rovinosa per l’ambiente. Su 258,9 milioni di ettari, infatti, solo il 5,5 % viene occupato da Elaeis guineensis. Da questo dato emerge che la produzione per ettaro tra le colture oleifere è di gran lunga maggiore nelle colture di palma da olio, se si considera che soia e colza costituiscono rispettivamente il 22,2% e il 13,1% del mercato globale di oli vegetali, occupando più del doppio della superficie dedicata alla palma. Una sola palma può arrivare a produrre 40 Kg di olio all’anno, e la vita dell’impianto (che coincide con la produttività della coltura) varia dai 25 ai 30 anni, mentre le colture erbacee da olio vanno seminate ogni anno. A questo punto, sapendo che per produrre una tonnellata di olio sono necessari due ettari di girasole, un ettaro e mezzo di colza, e solo un quarto di ettaro di palma, è lecito supporre che sostituire l’olio di palma con altri oli vegetali non potrebbe far altro che portare alla situazione contraria rispetto a quella desiderata in difesa dell’ambiente. Degna di nota è inoltre la maggiore necessità di pesticidi della colza e del girasole, rispetto al tanto demonizzato olio di palma: i primi due necessitano rispettivamente di 11 e 6 kg di pesticidi per produrre una tonnellata di olio, contro i soli 2 kg richiesti dalla palma. Aumentando gli input di coltivazione – vale a dire suolo, acqua, pesticidi, fertilizzanti e carburante per il funzionamento dei macchinari – le emissioni di CO2 e il conseguente danno ambientale non possono che aumentare.

Rese per ettaro delle principali colture da olio

I difensori dell’olio di palma: Ferrero e la Rountable of Sustainable Palm Oil

In una situazione in cui le strategie di marketing cavalcano l’onda dell’indignazione e presunzione dei consumatori – i quali credono erroneamente di poter salvare un pianeta che nel corso dei suoi 13 miliardi di anni di vita ha dovuto sopportare eruzioni vulcaniche, terremoti, collisioni con asteroidi e venti solari – c’è però anche chi si schiera dalla parte dell’olio di palma. Ferrero ha dichiarato che non vi rinuncerà (pur specificando sull’etichetta, per ovvi motivi legati alla percezione dei consumatori, che il prodotto «non contiene grassi idrogenati»), ma opterà per l’olio certificato dalla RSPO, l’organizzazione che si occupa di garantire che il processo produttivo si svolga entro i criteri di sostenibilità economica, ambientale e sociale. Lo stesso WWF incita al consumo di olio certificato RSPO, che nel 2014 ha raggiunto il 20% del totale presente sul mercato. A prescindere dall’ingiustificato ostruzionismo, il futuro dell’olio di palma è garantito dalla crescita della popolazione mondiale, che si concentrerà negli anni a venire soprattutto nei paesi in via di sviluppo, i quali – appunto – si svilupperanno anche grazie al tanto odiato “oro verde”.

Logo RSPO

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