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Salento e TAP: un non-problema che nasconde i veri guai

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Laura Primiceri

Il Salento è un paradiso. Lo dice chi ci vive e, soprattutto, lo dice chi decide di avventurarsi – da visitatore o da turista – per questi semisconosciuti territori. Semisconosciuti perché, a parte la movida gallipolina e l’aristocratica bellezza di Otranto, l’entroterra riserva delle sorprese che eguagliano e a volte superano i tramonti (mozzafiato certo, seppur un po’ ovvi) sul mare. Il Salento è una cartolina di natura e folklore, di pietra viva arsa dal sole, di terra rossa e fichi d’India, di mare di cristallo puro e cieli di un azzurro incredibile. Sembrerebbe che nulla manchi, in questo lembo di terra così stranamente benedetto dagli dei; sembrerebbe che si possa bastare a sé stessi. Quello che nessun catalogo turistico, nessuna pro loco, nessun sito di promozione territoriale vi racconterà, però, è il lato oscuro del paradiso, ovvero quel coacervo di misteri, contraddizioni e abusi che rendono il Salento l’anticamera dell’inferno per chi ci vive e (spesso) non solo.

Tramonto sul mare di Ugento.

Salento: una nuova terra dei fuochi

Quello che in pochi ammettono è che in Salento si muore tanto. Si muore giovani, di malattie orribili e con una frequenza molto più alta che in altre parti d’Italia. Eppure non c’è l’ILVA ad avvelenare l’aria, non ci sono industrie brutte e cattive, non ci sono multinazionali tentacolari che depauperano le risorse. C’è la malavita, però, quella che un tempo si chiamava Sacra Corona Unita e che, dopo i numerosi blitz e maxiprocessi che l’hanno decapitata e indebolita, adesso non si sa nemmeno più che nome abbia. Ci sono le connivenze politiche, c’è la corruzione, c’è l’avidità e la certezza dell’omertà e dell’impunità. Tutto questo ha permesso al Salento di diventare una gigantesca discarica a cielo (quasi) aperto, una discarica che ospita nelle sue immense campagne i rifiuti speciali, ospedalieri e radioattivi provenienti da tutta Italia e anche da fuori.

Un caso estremamente emblematico è quello di Burgesi, contrada sita nell’agro di Ugento, rinomata località turistica sul litorale ionico (30 km da Gallipoli). A Ugento le persone muoiono come mosche. Nell’estrema immobilità tipica dei paesi del profondo sud, la cosa che cambia più spesso sono i manifesti funebri affissi lungo le strade. Le età dei defunti sono sempre più basse, e non si tratta sempre di incidenti o di morti in qualche modo autoinflitte. Eppure gli ugentini non hanno fiumi inquinati, non hanno fabbriche che vomitano fumi tossici: perché, allora, la mortalità è così alta?

La discarica di Burgesi (foto ugentosette.it)

Perché gli ugentini hanno Burgesi: un triangolo di terra che ospita una discarica dismessa, la quale, tra la fine degli anni ’90 e gli inizi dei 2000, è stata venduta al racket delle ecomafie. Burgesi nasconde una quantità ancora non nota di veleni di ogni genere, tombati nelle campagne con la complicità di una classe politica forse troppo “distratta”, che hanno finito per contaminare la falda acquifera e finire nei bicchieri e nel cibo degli ugentini: proprio in quel cibo a km 0 di cui vanno così orgogliosi. La drammatica escalation di decessi è facilmente collegabile al naturale degradarsi dei fusti interrati. E c’è chi dice che la chiave per decifrare l’omicidio irrisolto di Giuseppe Basile, uno dei casi di cronaca più sanguinosi e misteriosi di sempre nella storia salentina, sia da ricercare proprio tra i miasmi e il percolato di Burgesi. Inutile precisare che gli abitanti di Ugento e dei comuni limitrofi abbiano tentato di protestare, per quanto potevano: picchetti, sit in, manifestazioni, comitati, conferenze stampa, per portare all’attenzione di quanti più media e persone possibili il terribile dramma ecologico e umano che si stava consumando a pochi chilometri dalle loro abitazioni. La politica è rimasta sorda quasi a tutto, in quanto parte largamente responsabile. Burgesi resta ancora una bomba innescata e pronta ad esplodere.

L’affaire Xylella

L’olio è considerato, da sempre, l’oro liquido dei salentini. Quasi tutti, anche i meno abbienti, hanno un pezzetto di terra con qualche albero di ulivo, in grado di produrre l’olio sufficiente ai bisogni della famiglia: olio che spesso viene regalato, in segno di amicizia, o venduto. L’olio salentino, per le sue caratteristiche organolettiche particolari, è considerato un unicum tra gli oli del Mediterraneo, e per questo gli ulivi sono considerati una vera e propria miniera d’oro, da curare scrupolosamente e tenere sempre in ordine. Il momento del raccolto delle olive, nel Salento, è paragonabile alle feste per la mietitura o per la vendemmia: un rito contadino collettivo che coinvolge non solo i padroni degli alberi, ma anche manovali, lavoranti, amici e vicini di casa, che accorrono ad aiutare e che in cambio riceveranno una parte della produzione del prezioso olio.

Questo, almeno, fino a qualche anno fa, quando anche nel Salento sono sbarcate le coltivazioni sovvenzionate dall’Unione Europea. Immediate, redditizie e semplici, hanno provocato un profondo cambiamento nella morfologia delle campagne, che fino a poco tempo prima vedevano troneggiare gli ulivi e che improvvisamente si sono popolate di girasoli. Tutto questo ha portato verso un graduale abbandono degli ulivi, piante tradizionalmente impegnative e bisognose di cure e attenzioni, che di conseguenza si sono ritrovati più esposti agli attacchi di malattie e parassiti. Uno di questi è stata la Xylella Fastidiosa, vero e proprio killer spietato capace di uccidere piante che avevano resistito ai millenni prima di venire a contatto con questo infestante, tanto micidiale quanto misterioso. L’infezione da Xylella, quando diventa evidente, è ormai irreversibile. L’albero è condannato a morte e diventa veicolo di contagio, che passa così di campo in campo, di pianta in pianta, diventando inarrestabile.

Un ulivo con un’infezione di Xylella allo stato terminale (foto affaritaliani.it)

Per i contadini salentini è stato come piombare in un incubo: da una parte gli ulivi che morivano inesorabilmente, dall’altra schiere di agronomi, esperti e sedicenti guaritori che analizzavano, pontificavano, esaminavano senza venire a capo di nulla. Nel pieno bailamme dell’emergenza che stava mettendo in ginocchio un intero settore, l’Unione Europea prendeva in mano la situazione minacciando sanzioni e ordinando eradicazioni massive. Quel batterio, isolato per la prima volta nel 2013, ci ha messo esattamente tre anni (tre anni di incuria e lassez-faire) per diventare un problema e un caso internazionale. L’abbattimento è stato certamente l’extrema ratio: qualcosa si poteva forse fare prima, ma non è stato fatto. La politica ha provato a strumentalizzare il contagio a proprio vantaggio, ma ci è riuscita solo in parte: l’estrema complessità e drammaticità della materia ha in qualche modo (e per fortuna) impedito che si creassero delle fazioni che usassero gli ulivi malati come pretesto per darsi battaglia. In compenso, però, erano nate delle bufale che collegavano l’espandersi rapidissimo della Xylella alla multinazionale Monsanto, che avrebbe creato in laboratorio il batterio-killer per poi vendere il rimedio e guadagnarci. Le proteste popolari, in questi casi, hanno letteralmente abbracciato i proprietari degli ulivi espiantati, tentando di solidarizzare come con chi ha perso un figlio o un familiare e ponendo l’accento soprattutto sul mancato guadagno economico e sui conseguenti risarcimenti.

TAP-partengo, e io ci tengo

Spenti da poco i riflettori sul caso Xylella (senza che si sia trovata una vera soluzione al problema, peraltro) ecco che un nuovo “mostro” si appresta a turbare i sonni dei salentini e dei loro ulivi: TAP, acronimo di Trans Adriatic Pipeline, ovvero il gasdotto che collega un giacimento di gas in Azerbaijan con la rete di distribuzione sotterranea che passa dall’Italia per poi diramarsi in tutta Europa. La questione parte da un assunto semplice: le fonti utili per produrre energia non sono eterne e inesauribili. L’Italia, come il resto d’Europa, in materia di gas naturale è fortemente dipendente dalla Russia e dal colosso Gazprom, che di fatto può aprire e chiudere i rubinetti a piacimento, stabilire i prezzi (tutt’altro che economici) e causare vere e proprie crisi. Proprio come già successe nel 2006, quando, a causa delle tensioni politiche tra Russia e Ucraina, Gazprom minacciò di sospendere la fornitura che, passando proprio dall’Ucraina, alimentava l’intera Europa.

I tuoi giorni da padre padrone del gas sono finiti, caro Vladimir… o forse no?

Un’alternativa era assolutamente necessaria, ed è stata individuata nel giacimento di Shah Deniz, in Azerbaijan appunto, che se sfruttato a dovere porterebbe nuovo respiro e aprirebbe nuovi scenari (anche diplomatici) in tema di approvvigionamento energetico. Per poter ricorrere al gas azero, però, è necessario collegare l’Europa al giacimento tramite un nuovo gasdotto che attraversi l’Anatolia e i Balcani, e poi, una volta superato l’Adriatico, si allacci alla rete italiana. Questa nuova monumentale opera, denominata Corridoio Meridionale del Gas, si compone di tre gasdotti raccordati tra loro: il Sud Caucasico (SCPX) che inizia in Azerbaijan e finisce in Georgia, il Trans Anatolico (TANAP) che attraversa la Turchia e il Trans Adriatico (TAP) che unisce Grecia, Albania e Italia.

Il Corridoio Meridionale del Gas (foto tap-ag.it)

La storia del gasdotto (e quindi di TAP) inizia nel 2008, quando la ratifica degli accordi internazionali dietro il progetto sancisce lo start ai sopralluoghi e alla progettazione dei tre tronconi del Corridoio. Per l’Italia il lavoro è “minore”: il gas azero viaggerà nelle stesse condutture che adesso ospitano il gas russo, ma è necessario realizzare un raccordo tra la vecchia rete e le nuove condutture. Data la sua posizione geografica strategica (le coste del Salento distano solo 100 km dalle dirimpettaie albanesi), è stato quasi naturale per TAP richiedere che l’approdo italiano venisse costruito a San Foca (marina di Melendugno). Sulla carta sembrerebbe che non ci possa essere nulla di più positivo: indipendenza energetica, nuove opportunità di lavoro, progetti moderni e pionieristici, rinnovate sinergie con paesi la cui importanza strategica nella diplomazia internazionale è riconosciuta. Peccato che TAP non avesse fatto i conti – letteralmente – con la disaffezione alla politica (e all’ordine in generale) che sembra aver investito l’Italia da qualche anno a questa parte.

Come il progetto TAP potrebbe aiutare l’Europa (foto tap-ag.it)

Guardati sempre con estrema diffidenza, gli uomini di TAP sono diventati in questi giorni il nemico numero uno dei salentini, nel momento in cui sono iniziati i lavori per la costruzione del raccordo. Lavori che sono sfociati presto nella guerriglia urbana. Diversamente da quanto successo con la questione Xylella, la strumentalizzazione politica stavolta è partita subito a razzo: il periodo elettorale, d’altronde, sembrava quasi imporlo. Bisogna ricordare che TAP è un progetto internazionale in cui l’Unione ha avuto grande peso decisionale: il lungo periodo di studio che ha preceduto l’inizio dei lavori è servito proprio a determinare quali fossero le migliori soluzioni – pratiche e logistiche – per realizzare il gasdotto. La scelta di San Foca non è casuale, e ovviamente, prima di essere ufficializzata, è stata approvata da tutte le parti in causa. Solo ora, però, il populismo e il guerrafondismo tipici di certe parti politiche sta armando la mano di tutta una parte di popolo – popolo che, fino a ieri, ignorava sia cosa fosse TAP, sia a cosa realmente servisse.

Due pesi e due misure

Per chiunque fosse minimamente interessato a crearsi una propria opinione scevra da considerazioni aprioristiche e manipolate, il sito ufficiale di TAP offre un quadro molto chiaro di quelli che saranno i lavori e del loro impatto sui territori italiani, greci e albanesi: la parte che attraverserà San Foca sarà lunga un chilometro e mezzo e verrà scavata a 25 metri di profondità. Il tubo che verrà posato avrà un diametro di circa 50 centimetri e, almeno nelle intenzioni, una volta completato non avrà alcun impatto ambientale né sulla spiaggia né altrove (in quanto, appunto, completamente invisibile). L’inghippo, però, sta nella ormai famigerata azione di espianto degli ulivi nel tratto strettamente necessario a effettuare gli scavi per la posa del tubo. Facciamo parlare i numeri: tutta la Puglia conta circa 60 milioni di ulivi (censimento del 2011) di cui 300.000 secolari. Costruire l’approdo TAP comporterebbe lo spostamento di poco più di 200 piante (211 per la precisione), che verrebbero temporaneamente collocate in un sito vicino per consentire i lavori, per poi essere rimesse a dimora nella loro sede originaria una volta terminato. Tecnica che, peraltro, è stata già utilizzata con successo nel 2016 per consentire i lavori dell’Acquedotto Pugliese.

I lavori di espianto degli ulivi sul sito TAP (foto fattoquotidiano.it)

È possibile spostare un ulivo? Certamente si, se l’azione viene effettuata con le dovute accortezze. L’ulivo è una pianta molto forte, soprattutto se di certe dimensioni: se lo spostamento avviene comprendendo tutte le radici con la zolla di terreno in cui si espandono e proteggendo adeguatamente la chioma, un ulivo è in grado di affrontare tragitti anche molto lunghi per essere ripiantato altrove e attecchire anche piuttosto bene. Prova ne è una triste (ma redditizia) pratica che da qualche anno spoglia il Salento dei suoi alberi più belli: facoltosi proprietari di ville del nord si accordano con vivaisti dai pochi scrupoli per acquistare ulivi secolari da collocare nei propri giardini. Questi alberi vengono eradicati, caricati sui bilici che si usano per trasportare le auto e fatti viaggiare in autostrada per centinaia e centinaia di km fino a destinazione. Un ulivo particolarmente anziano e rigoglioso può costare centinaia di migliaia di euro, e non sono mancate le denunce per veri e propri furti operati nottetempo presso fondi agricoli mal custoditi.

Anche le nuove generazioni vogliono fermare il massacro! (foto Facebook)

Ovviamente, in questi casi, mai si sono visti cordoni di manifestanti impazziti a difendere i poveri alberi costretti a “emigrare” verso nord. A proteggere gli ulivi di TAP, invece, si è mobilitata tutta l’intellighenzia salentina, che ha chiamato alle armi il popolo per impedire quest’aberrazione, questa tremenda onta. Chissà dov’era però, quello stesso popolo, quando centinaia e centinaia di ulivi venivano abbattuti (e non certo spostati) per far posto alle “praterie” di pannelli fotovoltaici che sempre più spesso ornano le campagne salentine. I possessori di impianti di una certa dimensione possono diventare indipendenti per l’energia elettrica: qualora la produzione ecceda il fabbisogno privato, è possibile vendere l’energia prodotta in più al gestore, ricavando un guadagno. Volendo contare gli ulivi che sono stati abbattuti per far posto ai pannelli, si supererebbero in scioltezza i numeri di TAP. In questo caso, però, la pratica appare perfettamente legittima perché, in fondo, degli ulivi privati ognuno fa quel che vuole.

«È una questione politica, ‘na grande presa per culo»

Cos’è stato, allora, che ha fatto scattare nel cuore della gente quel sentimento di appartenenza e di difesa che ha portato persino i bambini a voler scendere a tutti i costi in strada per impedire lo spostamento degli ulivi? Perché si è arrivati alle cariche della polizia in assetto antisommossa? Non potendo spingersi a credere che tutti i manifestanti si siano approfonditamente e adeguatamente informati sulla questione utilizzando tutti i mezzi a disposizione e formandosi un’opinione personale sull’argomento, verrebbe da pensare che di mezzo ci sia, per l’ennesima volta, la politica. Il governatore della Puglia Michele Emiliano, candidato alle primarie del PD e quindi bisognoso più che mai di consenso, ha tentato di tacciare le operazioni TAP di illegittimità, atteggiandosi a vittima delle istituzioni che egli stesso rappresenta: peccato che la sua firma, insieme a quella di tutti gli altri attori, comparisse sulle carte che autorizzavano l’inizio delle operazioni dopo aver vagliato che tutto fosse in regola, come era giusto che fosse. Emiliano, in queste ore convulse, è una scheggia impazzita: pur essendo perfettamente a conoscenza di tutta la questione e avendola (si spera) seguita dalla sua nascita – prima come assessore nella giunta Vendola e poi come presidente della Regione – ora diventa il paladino di un popolo che protesta sull’onda della più totale inconsapevolezza e disinformazione.

La giustificazione di Emiliano alle critiche mossegli su Facebook.

Come è possibile leggere dal commento estrapolato da una discussione su Facebook, secondo il governatore Emiliano i salentini (gli stessi che hanno votato in massa No allo scorso referendum costituzionale) non starebbero protestando contro l’espianto degli ulivi, ma perché non sono stati interpellati circa l’opportunità della scelta del sito di San Foca. Il buon Michele riterrebbe più consono allo scopo il sito di Cerano, in provincia di Brindisi. La presenza dell’omonima centrale elettrica a carbone renderebbe la zona ormai “spacciata” dal punto di vista ambientale, per cui nessuno si scandalizzerebbe se vicino sorgesse anche l’approdo TAP. Peccato che Cerano (che pure era nella lista delle località papabili) si trovi a circa un centinaio di km da San Foca, e che in linea d’aria la costa brindisina disti circa 200 km da quella albanese: se realizzato in prossimità della centrale, il tratto di gasdotto dovrebbe essere lungo quasi esattamente il doppio di quanto progettato, con conseguente aggravio di spese e revisione di tutto il progetto. Problemi che certo non sembrano riguardare il nuovo eroe della gente.

Di fatto, però, il popolo non si pone domande; o meglio, se le pone ma conosce una sola risposta. Volete le trivelle? No. Volete le pale eoliche? No. Volete il fotovoltaico? No. Volete le centrali nucleari? No. Provare a chiedere a qualche NO-TAP le ragioni della loro protesta è abbastanza inutile: le risposte sono vacue, confuse, contraddittorie e di fatto si riduce tutto a un grande, urlatissimo «NO». Incuranti del fatto che tutto sia stato già deciso, incuranti del fatto che l’opera abbia un’importanza strategica per loro in primis, incuranti del fatto che il progetto sia del tutto legittimo e rispettoso delle norme, incuranti di tutto, loro protestano perché per l’ennesima volta lo straniero invasore ha messo piede nella loro terra senza prima consultarli, e nella loro protesta sono spalleggiati da una classe politica schizofrenica che con una mano firma le concessioni e con l’altra brandisce le bandiere mentre urla slogan contro lo stesso potere che rappresenta.

Gli scontri nelle campagne di Melendugno (foto TgCom24)

Abbiamo vinto! (Anzi, No)

E alla fine, tanto tuonò che piovve: giovedì scorso il TAR del Lazio ha accolto la richiesta della Regione Puglia per una sospensiva ai lavori fino al 18 aprile, per poter accertare che tutte le firme e le autorizzazioni all’opera siano state concesse tenendo conto di tutti i fattori e interpellando tutti gli enti preposti e di competenza. Il sempre valido e tipico pasticciaccio burocratico all’italiana, insomma, a cui ricorrere in extremis per prendere tempo quando ci si sente mancare il terreno sotto i piedi. TAP, dal suo canto, annuncia che si atterrà alle decisioni della magistratura, ma fa sapere che a questo punto si pone il concreto allarme ecologico per gli ulivi già espiantati: a cantiere bloccato, infatti, le piante non possono ricevere le cure necessarie in questa fase di transizione così delicata e rischiano danni irreparabili, con buona pace degli agronomi della domenica che hanno manifestato in loro strenua difesa. E non mancano le denunce (sempre a mezzo Facebook) sui danni causati dai manifestanti. In una foto postata dalla pagina Il Comandante Risponde, dietro alla quale c’è Antonio Nahi della Polizia Municipale di Melendugno, si vede un muretto a secco (architettura rurale tipica del Salento, manufatto antico e spesso irripetibile vecchio di centinaia e centinaia di anni) completamente sventrato dai contestatori, che hanno usato le sue pietre per erigere le barricate anti camion.

Il muro a secco devastato dai manifestanti NO Tap (foto https://www.facebook.com/IlComandanteRisponde/)

Il commento del Comandante ha un sapore molto amaro:

È probabilmente vero che il Salento non meritava la TAP. Ma è anche sicuramente vero che il Salento non merita i ragazzi che muoiono di cancro a vent’anni. Non merita gli ulivi lasciati a morire perché non si riesce a trovare una soluzione a un problema di cui ci si è accorti solo quando è diventato endemico. Non merita la cronica mancanza di infrastrutture anche elementari, non merita un tasso di disoccupazione tra i più alti d’Italia e un tasso di abbandono scolastico da allarme sociale. Non merita l’ignoranza che ancora lo stringe nelle sue inesorabili morse e lo allontana dal resto del mondo ancora di più di quanto non abbia già fatto la natura, rendendolo allo stesso tempo così particolare e così isolato. Forse, alla fine, quello che il Salento non merita davvero sono i salentini, così facili alla strumentalizzazione e così restii a pensare con la propria testa.


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