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Confirmation bias: ecco perché ho sempre ragione io!

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Stefano Urso

Risulta ben noto come l’aspetto fisico fornisca un gran numero di informazioni utili nel formare giudizi sul prossimo, ma non è tutto così rose e fiori: il processo implicato nella formazione di impressioni è lungo e irto di bias (distorsioni). Un bias fra tutti è il conservatorismo (o bias di conferma), ovvero la tendenza ad andare a caccia di prove che confermino la nostra ipotesi di partenza arrivando perfino a ignorare la presenza di informazioni discordanti.

Ogni essere umano affronta la realtà sociale in cui è immerso con delle ipotesi, o aspettative. Questo permette a tutti noi di controllare l’ambiente che ci circonda, per esempio, aspettandoci come un altro essere umano potrebbe comportarsi in determinate circostanze. In questo modo possiamo pianificare il nostro comportamento e, tecnicamente, salvare la pelle. Queste ipotesi devono però affrontare la realtà oggettiva, quella densa di informazioni falsificanti: le ipotesi di partenza che abbiamo sono infatti stereotipi preconfezionati e falsi. Immaginatevi un prototipo di immigrato: questo sarà “sporco”, “violento”, “ignorante” e “pigro”. Questa ipotesi è statisticamente falsa, perché stiamo trattando un’impressione fornita da un esemplare come l’esemplare per eccellenza della categoria, e perciò basta un solo esemplare che non fornisca quelle informazioni per far cadere tutto il castello di impressioni. Questo, però, funzionerebbe se gli esseri umani fossero dotati di un pensiero logico razionale. Cosa succederebbe dunque se assistessimo a un immigrato che aiuta una vecchietta ad attraversare la strada?

Succede che abbiamo sempre ragione noi

Ed è qui che entra in campo il bias di conferma. Nel nostro esempio vedremmo sì un immigrato che aiuta una vecchietta ma, nonostante sia un’informazione disconfermante, avremmo l’impressione che l’immigrato in questione voglia rubarle la pensione, e magari seguirla fino a casa per occupargliela. In alternativa possiamo consideralo come unico nel suo genere: l’unico immigrato buono e generoso che si distingue dagli altri cattivi e puzzolenti. Quest’ultimo processo è definito subtyping (o creazione del sottotipo): un tipo particolare di categorizzazione che considera l’esemplare come facente parte della categoria superiore (gli immigrati) ma a sé stante, in quanto “eccezione alla regola”. Un esempio pratico sono le vecchiette che si lamentano degli stranieri perché “son tutti ladri”, fatta eccezione per il filippino che lava loro la biancheria. In questo modo la nostra idea iniziale non solo è ben protetta, ma anche rinforzata. L’ipotesi rinforzata sarà a quel punto maggiormente disponibile in memoria e ancora più resistente al cambiamento.

©happyjar.com

Ipotesi, maledette ipotesi

Come abbiamo visto, le ipotesi di partenza “guidano” il modo in cui si cercano le informazioni e come queste vengono utilizzate. Nel dettaglio, il bias di conferma interviene a due livelli: sulla ricerca di informazioni, influenzando la quantità e il tipo di informazioni che si ricercano prima di giudicare, e sull’elaborazione di informazioni, influenzandone l’interpretazione e il ricordo. La cosa affascinante è che il bias è attivo sempre e comunque, contemporaneamente su entrambi i livelli. Ha effetto, insomma, anche quando ci si attiva personalmente nella ricerca di informazioni. Per esempio, tendiamo a porre maggiormente domande volte a verificare la veridicità della nostra ipotesi (bias della domanda), oppure a sovrastimare o sottostimare l’importanza di informazioni ricevute a seconda che siano coerenti o in contraddizione con la nostra ipotesi (bias della risposta).

Vi sembra ancora una cosa aliena e distante dalla vostra realtà “oggettiva”?

Ancora un volta la ricerca psicologica ci da una mano

In un studio classico del 1980, Lord, Ross e Lepper dell’università di Stanford hanno selezionato un campione di studenti favorevoli o contrari alla pena di morte. A questi veniva presentato un articolo scientifico fittizio contenente (nella condizione 1) evidenze empiriche sull’efficacia della pena di morte o (nella condizione 2) evidenze sulla sua inefficacia. Successivamente veniva chiesto loro di giudicare gli articoli sulla bontà dello studio, quanto i dati dello studio fossero convincenti, quale potesse essere il potere deterrente della morte e, infine, quale fosse l’atteggiamento del partecipante nei confronti della pena di morte.

I risultati mostrarono che gli articoli valutati più positivamente (e quindi ritenuti più convincenti) erano quelli in linea con l’atteggiamento di partenza. In altre parole, chi era a favore della pena di morte valutava positivamente l’articolo che portava evidenze sull’efficacia della pena di morte e viceversa; chi invece leggeva un articolo in contrasto con il proprio atteggiamento riportava errori nella composizione dell’articolo o nella sua struttura. Questo esperimento dimostra come, innanzitutto, quello descritto sia un processo naturale, e, in secondo luogo, mette in evidenza la potenza del bias. Infatti non sono le ipotesi di partenza (atteggiamento verso la pena di morte) che vengono ristrutturate in funzione di elementi falsificanti (le evidenze empiriche), ma ciò che avviene è, in realtà, l’esatto opposto. Quando i partecipanti leggevano un articolo incoerente proteggevano la loro ipotesi screditando la fonte, e questo è qualcosa che sembra altamente controintuitivo: non è il dato che cambia l’ipotesi, ma è l’ipotesi che cambia il dato.

A questo punto sorge spontanea un’altra domanda.

Ma perché succede?

Principalmente per due motivi: il primo è che non abbiamo il controllo sul processo, il secondo è che c’è un problema di sequenzialità. Per quanto riguarda il primo punto, non ricordiamo quando è stata creata la prima impressione perché semplicemente non siamo coscienti del processo, finendo per ricordarci solo del risultato di questo processo (l’ipotesi o impressione di partenza) ma non di come esso è stato creato; ci si “aggrappa” quindi solo all’ipotesi perché è l’unica che conosciamo. Per quanto riguarda il secondo punto, bisogna tenere in considerazione che, tra tutte le informazioni che riceviamo nel tempo, le prime sono quelle che si ritengono più importanti e diagnostiche. Il problema è che, razionalmente parlando, le informazioni che vengono acquisite per prime non sono necessariamente quelle più corrette e quelle acquisite successivamente dovranno per forza di cose essere confrontate con quelle già immagazzinate in precedenza.

Che lo si voglia o meno, quindi, abbiamo sempre ragione noi. Siamo disposti ad avere ragione anche a costo di ignorare informazioni falsificanti o addirittura di inventarcele di sana pianta. Gli esempi nella vita di tutti i giorni sono infiniti, ma c’è un ambiente particolare dove tutte queste ipotesi vengono confezionate e distribuite, rese facilmente digeribili e distribuibili su grande scala.

La fucina di ipotesi: il ruolo dei media

È proprio attraverso i media che le ipotesi si sviluppano e si espandono a macchia d’olio, sotto forma di stereotipi che vengono veicolati alla velocità della luce e fatti passare come verità assolute. Abbiamo talk show dove ognuno deve necessariamente dire la sua, in cui si chiede l’opinione a esperti che esperti non sono e al popolo che vive di rimedi della nonna. La moda di far sentire cosa pensa “la gente” porta alla conseguente espansione dei preconcetti di cui abbiamo parlato. Pensate alla facilità con cui anche il giornalismo può, consapevolmente o meno, contribuire a tutto ciò: con il bias della domanda e con quello della risposta possiamo fondamentalmente ascoltare e capire solo quello che vogliamo, quello che ci fa più comodo. Ogni giorno vengono sparate sentenze gratuite contro gli immigrati, insulti ai partiti politici della fazione opposta, notizie su false dichiarazioni, bufale e chi più ne ha più ne metta. Si può quasi pensare che, maggiore il potere di espressione che viene fornito dal mezzo, maggiore sia il grado di diffusione di stereotipi che ne consegue.

©chainsawsuit.com

Il punto però è un altro: i media forniscono sempre più opinioni e sempre meno fatti incontrovertibili e falsificanti, come ricerche e spiegazioni scientifiche degli avvenimenti. Così facendo le opinioni, molto semplici e molto spesso già indirizzate (come diceva Gaber, alla «grande confusione deviante»), vengono considerate come verità assolute, rinforzate, maggiormente ricordate e utilizzate per giudicare informazioni successive, ed ecco che abbiamo malattie terminali che si possono guarire con il bicarbonato, rettiliani al governo e, paradossalmente, una psicologia che non è più una scienza.


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