In qualsiasi sport professionistico le figure consegnate alla leggenda e all’immortalità, nei ricordi degli appassionati e nelle immagini, sono gli atleti che interpretano il gioco e ne rendono manifesta la bellezza, l’imprevedibilità e il crudele realismo. Storie umane e sportive di singoli atleti e squadre si intrecciano nella storia dello sport mondiale, a dimostrare come esso non sia altro che una diversa manifestazione della vita umana, con i suoi ostacoli e le sue gioie; il modo in cui questi raggiungono o disattendono i propri obiettivi sono il motivo per cui sportivi di un certo livello assurgono a rango di vere e proprie icone generazionali, lasciando un segno indelebile nella storia umana al di fuori del loro contesto di appartenenza. Viene da sé, premesso questo, che allenatori e figure più a margine dell’atto sportivo vero e proprio vivano di una luce riflessa, generata dalle prestazioni del singolo o della squadra, nonostante il loro contributo sia stato importantissimo per il raggiungimento di un determinato obiettivo: tutto ciò va a sminuire e mortificare il loro operato.
Pochi giorni fa, il 21 marzo, è venuto a mancare uno dei più fieri eversori di questo concetto così radicato nella mente di tifosi e appassionati, ovvero Jerry Krause, ex General Manager dei Chicago Bulls di Michael Jordan, un uomo che nel corso di tutta la sua vita ha vissuto in maniera decisamente sofferta questa discrepanza di giudizio e che ha, a torto o ragione, sempre rimarcato la bontà e l’importanza del suo operato. Con esiti talvolta nefasti, ma sempre a testa alta.
Jerry Krause nasce a Chicago nel 1939 da genitori ebrei, grandi lavoratori e proprietari di un negozio di scarpe, e mostra fin da bambino un forte amore per le attività sportive dividendosi principalmente fra basket e baseball. Il suo è però un tipico amore non corrisposto, infatti Jerry non è molto atletico ed è troppo basso per essere qualcosa di più di un panchinaro, neanche troppo di lusso. Il giovane Jerry capisce subito quindi che quella è una strada senza sbocchi, che rischia di inaridire questa sua grande passione, e si reinventa come giornalista sportivo presso un giornale locale, il Chicago American, in virtù dell’amicizia del padre con il direttore, suo cliente.
L’esperienza giornalistica rappresenta il primo turning point della sua vita, perché qui capisce la sua vocazione: fare lo scout, il cercatore di talenti. Nonostante l’iscrizione all’università di Bradley, nel corso di giornalismo, Krause passa più tempo in palestra che nelle aule dei corsi tracciando statistiche e analizzando i singoli giocatori della squadra dell’ateneo e degli avversari, aumentando le sue capacità tramite il lavoro e lo scambio di vedute con altri scout ben più affermati. Nel 1961 finisce il college e, spinto dai suoi colleghi e amici, invia lettere di lavoro a pressoché tutte le squadre della Major League di baseball, suo primo grande amore, venendo assunto dai Chicago Cubs.
L’impiego di Jerry Krause presso i Cubs è formativo, e non spezza affatto quel legame con il mondo del basket cui Jerry rimane tenacemente legato tramite delle amicizie comuni, tra cui quella con Slick Leonard, all’epoca giocatore dei Chicago Packers (che sarebbero divenuti successivamente i Baltimore Bullets). Leonard fu uno dei primi a riconoscere la passione e l’abilità di Krause nello scouting, con quest’ultimo che andava a seguire partite e allenamenti dei Packers senza essere remunerato, e gli promise un lavoro qualora fosse divenuto capo allenatore di una squadra; questo avvenne proprio con i Baltimore Bullets, di cui Leonard fu allenatore-giocatore nel 1962.
In quell’anno Krause mise a segno il primo colpo della sua carriera, scoprendo l’incredibile talento di Earl “The Pearl” Monroe, che giocò per i Bullets dal 1967 al 1971, un giocatore dallo stile avveniristico per la sua epoca che avrebbe vinto il suo unico titolo nel 1973 con i New York Knicks di Phil Jackson, altro giocatore suggerito da Krause ai Bullets (che però poi non lo scelsero al Draft). Nonostante quindi l’indubbia abilità e l’occhio per il talento, Krause, terminato il contratto con Baltimora nel 1965, passò venti anni lavorando come scout per diverse squadre della NBA e della MLB, ottenendo discreti risultati ma commettendo anche errori marchiani, come la scelta – nel Draft 1971 – di Kennedy McIntosh per i Chicago Bulls. Questo stato di cose ebbe termine nel 1985, quando il proprietario dei Chicago Bulls, Jerry Reinsdorf, lo chiamò per offrirgli un posto da GM della franchigia (dopo il primo disastroso tentativo fatto nel 1976, sempre con i Bulls ma con Arthur Wirtz come proprietario).
Jerry Krause sostituì il partente Rod Thorn e si gettò anima e corpo nella creazione di una squadra da titolo partendo dal giocatore principale, Michael Jordan, e da una precisa scelta: il roster si sarebbe costruito su scelte al draft e non free agent. Il rapporto fra GM e stella della squadra non fu idilliaco fin dagli inizi, poiché Krause, soprannominato briciola da Jordan per la sua figura e i suoi modi a tavola, scambiò il suo migliore amico e protettore in campo Charles Oakley per Bill Cartwright, soprannominato “Il Professore”, un centro difensivo destinato a essere una pedina fondamentale per i primi tre titoli dei Bulls. A questo si aggiunse l’autentica pesca miracolosa nel draft del 1987, dove Chicago selezionò un misconosciuto Scottie Pippen e Horace Grant, cementando le basi della squadra. Krause inoltre ebbe un particolare occhio anche per allenatori e assistenti, ingaggiando prima Doug Collins e poi Phil Jackson, quel Jackson suggerito ai Bullets, e assumendo come assistenti di quest’ultimo due dei più grandi santoni, a livello teorico, del gioco, ovvero Tex Winter e Johnny Bach.
Tutto ciò, compresi anche degli errori come la scelta di Brad Sellers al Draft del 1986 o quella di Stacey King nel 1989, creò la leggenda dei Bulls di Jordan e Jackson e quella di Jerry Krause, “Il Segugio” capace di scovare autentiche pepite d’oro nella cenere.
Nonostante quanto di buono fatto, però, il GM non fu mai adorato dall’ambiente di Chicago – troppo pendente verso Jordan e incapace di accettare razionalmente le impopolari decisioni del dirigente – e arrivò a sviluppare un rapporto di sostanziale diffidenza verso tutto e tutti, e un malcelato desiderio di essere apprezzato per quanto di buono aveva fatto per la franchigia e i tifosi. Inoltre, il libro The Jordan Rules (1992) di Sam Smith – che descriveva l’ambiente dei Chicago Bulls in controtendenza rispetto alla loro immagine pubblica, dipingendo Jordan e lo stesso Krause in toni tutt’altro che lusinghieri – acuì fortemente tutto questo.
Negli anni del primo ritiro di Michael Jordan, Jerry Krause si adoperò (per quanto possibile) per riempire il buco lasciato dal giocatore più forte del mondo, acquisendo lo specialista difensivo Pete Myers (che abbandonò in poco tempo la nave) e i free agent Ron Harper e Steve Kerr, destinati a essere delle pedine fondamentali del secondo three-peat.
Sono anni, questi, in cui il rapporto con Jackson comincia a deteriorarsi, data la crescente fama del coach e il modo in cui egli veniva considerato artefice delle fortune della squadra. Anche i rapporti con i giocatori, mai stati idilliaci a causa del controllo maniacale di Krause nella gestione della franchigia, cominciarono a destabilizzarsi, primo fra tutti quello con Scottie Pippen, anche a causa dell’arrivo di un particolare giocatore. Nel 1993, infatti, i Bulls firmarono Toni Kukoc, ala della Benetton Treviso corteggiata per lungo tempo dal GM e selezionata nel 1990 con la ventinovesima scelta, il cui contratto fu pagato con dei soldi risparmiati non estendendo quello di Pippen (quest’ultimo e Jordan si vendicarono con il Dream Team nel 1992 nella partita contro la Croazia).
Negli anni senza Jordan i Bulls non superarono mai le semifinali di Conference e tutte le pressioni e le aspettative accumulate negli anni iniziarono a mostrare il conto; il delicato equilibrio su cui la franchigia si reggeva rischiava di crollare, ma il rientro di Michael Jordan nel 1995 e l’ingaggio di Dennis Rodman dai San Antonio Spurs (altro colpo da maestro del GM) trasformarono tutto ciò in una delle più grandi squadre di tutti i tempi, consacrandola alla leggenda e portandola a vincere altri tre titoli consecutivi. Tuttavia le pressioni e i dissidi interni erano ancora presenti e continuavano a emergere continuamente sia nelle interviste che nella pianificazione del futuro della franchigia. Krause fece intendere chiaramente all’ambiente e ai media che il 1998 sarebbe stato l’ultimo giro di giostra, «the last dance», e dopo la vittoria contro gli Utah Jazz di Stockton e Malone iniziò la smobilitazione.
Dopo l’ultima grande vittoria dell’era Jordan, Jerry Krause iniziò con viva speranza e ottimismo il lento processo di ricostruzione dei Chicago Bulls, selezionando Eddy Curry al draft del 2001 e scambiando, con i Los Angeles Clippers, Elton Brand per Tyson Chandler, volendo costruire su questo asse le basi della futura fortuna dei tori; inoltre si liberò dei due rookie Ron Artest e Brad Miller per portare a Chicago Jalen Rose, con l’idea di creare un core giovane e atletico da cui ripartire.
Tutto questo non prese mai forma, sia per il ritiro di Krause nel 2003 per problemi medici sia perché i giocatori scelti si riveleranno tutt’altro che stellari, mentre i partenti diventeranno solidi giocatori NBA e, nel caso di Artest, anche campioni; il GM non rientrerà più nel giro della NBA, ma tornerà saltuariamente a lavorare nel baseball come scout prima che cronici problemi di salute lo portino alla morte.
Il ricordo che Jerry Krause lascia di sé è quello di un uomo egotico e abile nel suo lavoro, un duro capace di prendere delle decisioni impopolari e azzardate perché credeva ciecamente in esse e nelle sue capacità, ma al tempo stesso un uomo sensibile e fragile che non si è mai sentito del tutto apprezzato e amato dalla città e dai tifosi che ha contribuito a portare alla gloria sportiva eterna, cercandone continuamente l’approvazione.
Un uomo schivo, nonostante le apparenze, con un amore viscerale per lo sport e un occhio di riguardo per il talento, lui che possedeva tanto del primo e così poco del secondo. Un uomo che traccia il bilancio della sua vita e della sua carriera nell’epitaffio sulla sua lapide: «Here lies the heart and soul of a scout».
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