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Tim Hardin: la pecora nera del folk americano

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Simone Barondi

Quando Tim Hardin sale sul palco di Woodstock è già sera. Davanti a una folla che non lo conosce intona timidamente la sua If I Were a Carpenter, uno dei suoi pezzi migliori. Finita la parte acustica chiama a raccolta i suoi musicisti e inizia la parte elettrica del suo concerto. Non va come dovrebbe: la band che lo accompagna è un gruppo improvvisato di musicisti che lui conosce appena, e l’alcol e la paura del palcoscenico, due fra i mostri che lo accompagneranno fino alla fine della sua carriera, giocano un brutto scherzo e compromettono la riuscita di quello che sarebbe potuto essere un trampolino di lancio per la sua carriera. Una delle tante occasioni mancate. Eppure di talento Tim ne ha molto, e nonostante sia quasi uno sconosciuto non è un novellino: nel 1969, anno del famoso Festival, Tim ha già dato alle stampe due album di inediti, una raccolta di demo e un album live. Tra i suoi pezzi originali ha scritto una manciata di capolavori, brani che nel tempo sono stati reinterpretati da altri artisti, che anche grazie ad alcune di queste cover hanno fatto la loro fortuna. Fortuna che, con amara ironia, non è toccata all’autore di quelle canzoni.

Tim Hardin sul palco del Festival di Woodstock.

James Timothy “Tim” Hardin nasce a Eugene, nell’Oregon, da una famiglia di musicisti. Il cognome non è uno che passa inosservato: Tim è un discendente di John Wesley Hardin, leggendario fuorilegge vissuto nella seconda metà del 1800. Hardin non è mai diventato un criminale, ma in un certo senso ha ereditato un tormento interiore, un’introspezione e una tendenza a pulsioni improvvise e autodistruttive. L’ambiente familiare contribuisce a forgiare in lui l’amore per la musica, che però si fa strada lentamente accanto ad altre passioni, come lo sport, le donne e gli stupefacenti: l’avvicinamento a ciò che sarà per tutta la sua vita la principale causa di autodistruzione arriva già in giovane età, quando Tim inizia a rubare dalle farmacie alcuni medicinali e ad apprezzare l’effetto di calma e tranquillità che provocano in lui, il senso di evasione da quel tumulto intimo che non lo abbandona mai.

Nel 1961 Tim Hardin si trasferisce a New York, precisamente nel Greenwich Village, a quel tempo un cuore pulsante patria di numerosi artisti e musicisti. Assieme ad altri esponenti del folk revival, tra i quali il ben più noto Bob Dylan, inizia a suonare in alcuni locali storici. Tuttavia Hardin non entra mai a far parte di una vera e propria scena folk: il suo carattere introverso e il suo stile di vita lo portano a vagare solitario per la New York notturna, drogato o ubriaco, incapace di creare legami strategici con altri musicisti o produttori. È quasi per caso che viene avvicinato al mondo delle case discografiche: al termine di una sua esibizione un suonatore di banjo, rimasto impressionato dal suo talento e dalla voce, intensa e baritonale, lo convince a seguirlo e a registrare alcuni brani per la Columbia Records. Sembra l’occasione giusta per svoltare, ma la Columbia decide di non pubblicare le registrazioni e chiude il contratto. Deluso ma non ancora sconfitto, Tim si trasferisce prima a Los Angeles, città in cui conosce quella che diventerà la sua compagna, Susan Yardley, poi torna con lei a New York per una seconda occasione con l’etichetta Verve. Hardin inizia a scrivere per lei tutte le canzoni, e sotto la nuova label escono i suoi due dischi di inediti, Tim Hardin 1 e Tim Hardin 2, che contengono perle come Reasons To Believe, How Can We Hang On To a Dream?, If I Were a Carpenter, The Lady Came From Baltimore e l’iconica e amaramente azzeccata Black Sheep Boy, che verrà reinterpretata in seguito anche da Scott Walker, cantautore che sotto certi aspetti condividerà il destino beffardo di Hardin.

I brani rivelano una capacità compositiva cristallina e una voce bellissima, calda, carica di un’interpretazione struggente come poche. Ancora una volta, però, la sorte gioca brutti scherzi: nonostante la buona accoglienza al Festival di Newport, i dischi sono un fallimento commerciale. La sua storica fobia da palcoscenico, amplificata dall’uso di droghe, gli impedisce di promuovere gli album tramite dei tour. Dopo una raccolta live e un Best Of, infatti, la Verve decide di scaricarlo. Anche il Festival di Woodstock, che per molti è motivo di grande successo, si rivela solamente un’altra, ennesima occasione sprecata. Anche la vita privata sta diventando un incubo: di giorno Tim scrive versi toccanti per la sua compagna, di notte la picchia quando torna a casa nelle usuali condizioni. La violenza e la dipendenza dall’eroina incrinano i rapporti domestici fino all’abbandono da parte di Susan e del figlio Damien; qualche anno più tardi lei tenterà una riconciliazione, forse mossa dalla pena verso l’artista rimasto ormai solo, che però non avrà esito positivo.

È l’inizio del crepuscolo di un sole in realtà mai levatosi: Hardin si trasferisce a Londra e pubblica un paio di album contenenti soprattutto cover, segno che anche la vena creativa si è ormai inaridita. Quando torna negli Stati Uniti alcuni amici organizzano per lui un Homecoming Concert, un documentario contenente un disco live: le ormai precarie condizioni di salute di Tim compromettono fortemente la riuscita di questo lavoro, che viene pubblicato solamente come bootleg postumo. Dopo l’ultima delusione, infine, il cantautore decide di chiudere per sempre e vendere i diritti d’autore, incalzato dal suo manager (che forse terrà per sé, di nascosto, parte dei ricavi, ma questa è un’altra storia). Verrà trovato morto di overdose nel suo appartamento il 29 Dicembre 1980.

Tim Hardin sarà riscoperto solo diversi anni dopo la sua morte, e i suoi dischi, diventati quasi del tutto irreperibili appena pochi anni dopo la pubblicazione, saranno ristampati postumi dalle stesse case discografiche che in vita non hanno riservato il giusto trattamento a questo cantautore dal carattere schivo e difficile ma dal talento unico e terribilmente sottovalutato. Un artista che ha visto Bob Dylan prendere a piene mani dalla sua storia, pubblicando con successo un disco intitolato John Wesley Harding e ispirato proprio alla vita dello storico antenato di Tim. Una pecora nera nella musica folk che ha vissuto nell’ombra, mentre altri artisti incoronavano il loro successo già cesellato negli anni anche grazie alle riuscitissime cover di alcuni suoi brani, tra i quali Reason To Believe e If I Were a Carpenter, apprezzate da un pubblico totalmente ignaro della reale paternità di quei capolavori. Capolavori a cui solo il tempo ha saputo dare il giusto valore, e di cui solo il tempo ha saputo riconoscere l’importanza e l’influenza nella musica folk statunitense.

«I was there to steal her money

Take her rings and run

Then I fell in love with the lady

Got away with none»

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Simone Barondi

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