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“Sublime Porta is great again”: il referendum turco

Published by
Carlo Paganessi

Il referendum

Domenica 16 aprile i turchi (anche quelli della diaspora) sono stati chiamati a esprimersi sulla riforma costituzionale proposta dal partito del presidente Erdogan. Il Sì ha vinto con un margine piuttosto risicato (51,4% di voti favorevoli), specie se si considerano le dichiarazioni alla chiusura dei seggi (che indicavano una vittoria ben più larga, sull’ordine dei 40 punti percentuali) e le condizioni in cui si è svolta la competizione elettorale tra i due comitati. Il referendum propone una modifica alla costituzione che accentrerebbe maggiormente il potere nelle mani del presidente e che ne allungherebbe la possibilità di rimanere al potere.

La riforma

La riforma costituzionale prevede alcuni cambi alla forma di governo in vigore ad Ankara. Il governo e la carica di primo ministro vengono abolite, mentre prima questi venivano espressi dal parlamento e il loro operato regolato dallo stesso parlamento attraverso il voto di fiducia. Il Presidente della Repubblica turca ora verrà eletto ogni cinque anni, in concomitanza con le elezioni politiche, e potrà nominare e revocare i ministri. La Turchia passa quindi da un sistema parlamentare a un sistema presidenziale, con il potere esecutivo accentrato nelle mani del presidente.

Il presidente assorbirà inoltre tutti i poteri del primo ministro, e gli verrà anche attribuito il potere di firmare i decreti esecutivi – decreti che, in caso di conflitto con i provvedimenti votati dal parlamento (che passa da 550 a 600 elementi), non hanno la precedenza. Questo rappresenta un cambio consistente rispetto al sistema precedente, in cui il parlamento aveva l’esclusiva sulla funzione legislativa, mentre al governo spettava l’onere di emanare i decreti attuativi sui provvedimenti parlamentari che venivano poi esaminati dal Consiglio di Stato. Altra modifica importante risiede nella decaduta imparzialità del presidente: mentre prima egli, al momento della sua salita al potere, doveva dimettersi da qualsiasi partito, ora può ricoprirne qualsiasi ruolo, perfino quello di leader.

Altra novità riguarda la procedura di impeachment: ora la procedura per il rinvio alla corte costituzionale richiede solo una votazione con la maggioranza assoluta dei parlamentari. La votazione è seguita da una discussione tra 15 parlamentari scelti tra tutte le forze politiche, e solo in un terzo momento la votazione in parlamento con i due terzi della totalità dei parlamentari consegna la procedura alla corte costituzionale. Prima del referendum, per l’avvio della procedura era necessario un terzo dei parlamentari, mentre il passaggio alla corte costituzionale si ha con una votazione favorevole con una maggioranza del 75%. Cambia anche la composizione del consiglio dei giudici, dove – se prima il presidente esprimeva solo 4 giudici su 22 – ora ne esprime 6 su 13. La nuova costituzione conferisce al presidente maggiori poteri in ambito giudiziario, laddove Erdogan aveva individuato i maggiori collaboratori del (presunto) leader del golpe di luglio Fethullah Gulen.

Il percorso dal 2015 ad oggi

La riforma inizia il proprio percorso con la rielezione di Erdogan nel novembre 2015. Già dal giorno dopo, diversi esponenti dell’AKP iniziarono a parlare di revisione della costituzione in senso più «civile e democratico». A luglio 2016, però, ecco che il tentato golpe cambia le carte in tavola, e fornisce a Erdogan un pretesto autentico per mettere in moto il processo di revisione costituzionale. La prima bozza viene presentata da un gruppo congiunto di parlamentari dell’MHP (il partito nazionalista turco) e dell’AKP il 10 dicembre 2016: larga parte delle modifiche proposte (18 su 21) passano l’esame parlamentare in attesa della conferma popolare, avvenuta la scorsa settimana.

La giornata non è stata esente da tensioni: a Diyarbakir (capitale del Kurdistan turco) due uomini sono stati assassinati durante un alterco scoppiato sulle motivazioni per il voto, mentre da diverso tempo le opposizioni lamentano l’incapacità di riuscire a portare avanti una campagna per il No, dato che la maggior parte degli eventi del comitato sfavorevole alla modifica è stata bloccata o censurata dal governo con l’ausilio del proprio apparato di coercizione. Inoltre il CHP (Partito Repubblicano) parla di notevoli brogli elettorali, e annuncia che chiederà il riconteggio di circa il 60% delle schede, circostanza che potrebbe ribaltare l’esito del voto. Altri brogli di cui è stata fatta menzione riguardano da un lato i due milioni di votanti non registrati dall’ufficio elettorale turco ma ammessi comunque al voto, dall’altro alcune irregolarità nello spoglio dei voti all’estero. La commissione elettorale ha confermato il risultato, sebbene diverse perplessità siano state sollevate anche dall’ordine nazionale degli avvocati. Una parte della stessa commissione elettorale ha inoltre perso la vita martedì in un incidente d’elicottero avvenuto nell’Anatolia orientale. L’opinione dei commentatori internazionali in merito alla correttezza del voto è generalmente negativa.

Il voto

Al netto di eventuali brogli, la vittoria di Erdogan è stata piuttosto risicata (poco più di un milione di voti), specie considerando il favore offerto dall’apparato di repressione di cui si è servito lo stesso presidente per bloccare i vari eventi organizzati dal comitato del No. L’affluenza è stata molto alta (85%), e i dati locali offrono una serie di spunti molto interessanti, a partire dal contrasto centro-periferia: nelle tre più grandi città (Istanbul, Ankara e Izmir) e sulla costa, dove la scolarizzazione e l’alfabetizzazione sono più alti, i voti sono stati contrari al cambiamento costituzionale. Oltre un milione di voti sono quelli ammessi la mattina stessa, pur non avendo timbro.

Il voto estero ha offerto notevoli sorprese. L’affluenza si è aggirata intorno al 50%, e i paesi dove i turchi della diaspora sono più numerosi hanno tutti votato per il Sì (favorevoli Germania al 63%, Olanda al 71%, Austria al 74%, Belgio al 75%), mentre nei paesi meno popolati si sono avuti più voti contrari (Italia al 65%, Svizzera al 63% e via dicendo). Impressionante il dato britannico, dove oltre l’80% dei votanti al referendum ha espresso un voto contrario alla riforma, ma ciò è dovuto parzialmente all’alta concentrazione di curdi con cittadinanza turca emigrati nel Regno Unito durante gli anni ’80, nel periodo di maggior repressione della minoranza curda. Anche nei paesi del golfo il voto sulla riforma è stato essenzialmente negativo, confermando il trend legato alla scolarizzazione dei votanti (buona parte degli espatriati turchi nei paesi del Golfo sono professionisti con competenze specializzate: medici, ingegneri e via dicendo). Il presidente della comunità turca in Germania parla di preoccupazione nel «constatare che molti turchi che vivono in una libera democrazia in Germania desiderano un’autocrazia in Turchia».

L’esito del referendum, se confermato, offrirebbe a Erdogan poteri che vanno oltre quelli di una semplice repubblica presidenziale, solitamente bilanciata da un solido sistema di checks&balances costituito dai reciproci controlli sussistenti tra esecutivo e parlamento, nonché dalla tradizionale indipendenza del sistema giudiziario. Dopo la riforma turca, il rapporto tra parlamento e governo sembra pesantemente sbilanciato a favore del presidente, specie considerando che quest’ultimo rimane a tutti gli effetti membro del proprio partito, ma soprattutto che le elezioni di entrambi avvengono nello stesso momento, facendo sempre coincidere la maggioranza parlamentare con il “colore” del governo. La procedura d’impeachment passa da due fasi a tre, sebbene le percentuali da ottenere siano leggermente più basse. Le nuove modifiche danno al presidente l’opportunità di poter emettere dei decreti esecutivi aventi piena forza di legge (e non con mediazioni di sorta, come possono essere i nostri decreti legge o decreti legislativi), ma che perdono di efficacia di fronte a provvedimenti sullo stesso argomento votati dal parlamento.

Dotato di nuova forza costituzionale in seguito al referendum, Erdogan ha già cominciato a parlare di reintrodurre la pena di morte. Le modalità con cui sia la campagna che il voto si sono svolti sollevano parecchi dubbi, primo tra tutti il fatto che l’ufficio elettorale, con la decisione di ammettere quel milione di schede non timbrate, de facto faceva le regole durante la consultazione. L’Anatolia orientale ha mostrato un supporto meno coeso a Erdogan rispetto a quello fornito nel 2015 durante la sua rielezione. Ora Erdogan (salute permettendo) può rimanere in carica fino al 2029 e, date le lievi sfumature di autocrazia che il paese sta prendendo, è legittimo aspettarsi un progressivo spostamento del paese lontano dall’Unione Europea e, con molte probabilità, anche lontano dalla Nato, date le accuse di fascismo e nazismo rivolte a Germania e Olanda nei mesi scorsi, proprio a causa del divieto posto da questi paesi in merito a una manifestazione del comitato per il Sì. La Turchia post referendum si volge soprattutto verso l’area mediorientale per prenderne il controllo, lottando contro gli altri due egemoni dell’area, ovvero Arabia Saudita e Iran. Una partita che oggi si gioca in Siria, in Yemen, in Libia, che si combatte con oleodotti, gasdotti e accordi commerciali con i paesi dell’area. Il ritorno della Sublime Porta procurerà nuovo scompiglio in Medio Oriente? Non è possibile esserne certi, ma Ankara vuole (e lo sta già facendo) giocarvi un ruolo da protagonista.

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Carlo Paganessi

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