«Fermiamoci!» tuonò La Gazzetta dello Sport all’indomani della morte di Gaetano Spagnolo, il tifoso genoano accoltellato durante un Genoa-Milan da un tifoso rossonero. Eppure l’ennesima morte negli stadi, avvenuta stavolta in Argentina, ci rimanda di nuovo a quell’esclamazione scritta sulla rosea nel 1995. Morire di calcio sembra assurdo, ma, durante la partita tra Belgrano e Talleres della Primera División argentina, Emanuel Ezequiel Balbo ha riconosciuto tra gli spalti l’assassino di suo fratello, tale Oscar Gomez, un ultras del Belgrano, che ha pensato bene di aizzare i propri amici presenti in quell’angolo di stadio contro il malcapitato Balbo, additandolo di essere un tifoso della squadra rivale, incitando alla violenza contro questo ragazzo fino a buttarlo di sotto dagli spalti dello stadio. Balbo è stato quindi portato d’urgenza in ospedale, ma già all’arrivo i medici non hanno fatto altro che constatarne la morte cerebrale.
Un fatto che si aggiunge alla lunga schiera di morti allo stadio, morti avvenute per motivi a dir poco beceri, spaziando da vere e proprie stragi durante o prima di una partita a razzi lanciati da una curva verso l’altra, in cui i fattori ricorrenti restano sempre gli stessi: la noncuranza e la fatalità.
Negli stadi sembra quasi improbabile che il fuoco possa far danni rilevanti, eppure anche a Shanghai lo Shenhua, la squadra di Tevez e Guarin, ha avuto i suoi problemi, fortunatamente senza vittime. Sorte che non capitò in Europa, nel 1985, a Bradford, né, quattro anni prima, a San Benedetto del Tronto.
Il 7 giugno del 1981 lo Stadio Ballarin ospitò l’ultima partita della stagione della Sambenedettese, partita che sarebbe dovuta essere una grande festa per il ritorno della squadra marchigiana in Serie B. Festa che si tramutò nella peggiore delle tragedie in seguito al rogo dei coriandoli che dovevano far parte della coreografia per i festeggiamenti. Rogo scaturito dai fumogeni e che, nel panico generale, non lasciò scampo a Maria Teresa Napoleoni e Carla Bisirri, che morirono nei giorni seguenti per le gravissime ustioni riportate. Nonostante la tragedia in corso, di comune accordo tra le squadre e la terna arbitrale, la partita fu giocata lo stesso, per evitare di intralciare i soccorsi durante l’eventuale uscita dallo stadio del pubblico non coinvolto nel rogo.
Quattro anni dopo a Bradford, nel West Yorkshire, durante la partita tra Bradford City e Lincoln City (valida per la fu Third Division) parte della gradinata andò a fuoco per colpa di una sigaretta spenta male, che finì in un buco sotto la tribuna scatenando le fiamme che causarono la morte di 56 persone. A peggiorare la situazione fu l’assenza di estintori all’interno dello stadio, motivata dal voler evitare atti vandalici ad opera degli hooligan. Hooligan che, 18 giorni dopo, in terra belga, avrebbero scritto una delle pagine più tristi del calcio italiano ed europeo.
Il 29 maggio del 1985 lo stadio Heysel di Bruxelles ospitò l’ultimo atto della Coppa dei Campioni del 1985, la finale tra Juventus e Liverpool. Ma a rendere tragica quella notte, e a mettere in secondo piano il risultato del campo, fu la furia degli hooligan. Le curve dell’Heysel erano suddivise in tre settori per parte: tre settori (M-N-O) andarono in blocco ai gruppi della tifoseria organizzata della Juventus, mentre nell’altra curva solo i settori X-Y andarono agli hooligan e tifosi del Liverpool; il settore rimasto in questa curva, lo Z, andò invece a semplici tifosi e spettatori non organizzati sotto gruppi di tifoserie.
Prima della partita, gli hooligan iniziarono a cercare lo scontro contro questi già citati spettatori del settore Z, che non risposero alla provocazione e che iniziarono a fuggire dalla furia degli inglesi. La mancata reazione e l’impreparazione della polizia belga presente allo stadio, che non permise ai tifosi del settore Z di fuggire sul campo, aumentò ulteriormente il panico e scatenò una ressa che causò il crollo di un muro per l’eccessivo peso che si era creato: il muro schiacciò anche diverse persone, che erano in cerca di una via d’uscita dalla situazione di follia che si era creata. Il bilancio finale fu di 39 vittime, colpevoli soltanto di essere presenti allo stadio per guardare una finale di Coppa dei Campioni. Questa tragedia portò a una decisione drastica da parte dell’UEFA: la squalifica delle squadre inglesi dalle competizioni europee per cinque anni, unita alla decisione di migliorare nel mentre la sicurezza negli stadi e porre un freno al fenomeno degli hooligan, tant’è che l’Inghilterra riuscì a organizzare gli Europei del 1996, a undici anni dalla strage.
Nonostante la strage dell’Heysel e la ricerca di maggior sicurezza negli stadi, tuttavia, nel 1989 avvenne la strage di Hillsborough, durante una partita di FA Cup tra Liverpool e Nottingham Forest. I responsabili però non furono i famigerati hooligan, bensì la disorganizzazione e la leggerezza della polizia, che diede ordine di aprire un cancello dello stadio che portava a un settore della curva già pieno di gente, causando un afflusso di tifosi inverosimile: 96 di loro morirono soffocati e schiacciati nel tunnel di accesso.
Noncuranza. Inesperienza. Fatalità. Basta poco per scatenare una tragedia. Che sia uno solo a morire o più d’uno, basta una concatenazione di fattori a trasformare un pomeriggio o una serata di sport in un fatto di cronaca nera al quale sarebbe meglio non assistere, e che purtroppo può ancora succedere, come è capitato in Angola un paio di mesi fa, in un modo che ricorda terribilmente da vicino le stragi avvenute in Belgio e Inghilterra.
E dove non si muore schiacciati dalla folla può succedere di essere colpiti da un razzo lanciato dalla curva sud verso la curva nord, come accadde nel 1979 a Vincenzo Paparelli, tifoso della Lazio. O di morire per un pregiudizio e una mancata tempestività nella somministrazione delle cure, come capitò a Maurizio Alberti nel 1999, tifoso del Pisa. Si può addirittura morire mentre si adempie al proprio dovere, cercando di riportare ordine nella città devastata dagli scontri in seguito a un derby molto sentito come quello tra Catania e Palermo nel 2007, come successe all’Ispettore Capo Filippo Raciti. Noncuranza. Inesperienza. Fatalità. Quello che importa, quello che sarebbe auspicabile, è che non si deve più morire di calcio.
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