Domenica 23 si è tenuto il primo turno delle elezioni presidenziali francesi, che ha visto partecipare il 77,8% dei votanti. La competizione elettorale, articolata su due turni, dovrà decidere il prossimo capo di stato francese: dopo la prima domenica elettorale la maggior parte dei commentatori dà come vincitore sicuro il favorito della vigilia Macron, il leader del partito centrista En Marche!, separatosi dai socialisti nello scorso aprile congiuntamente alla scomunica arrivata da parte del presidente Hollande. Dopo la fuoriuscita dal partito, il trentanovenne Macron ha fondato un nuovo movimento che egli stesso ha definito come «né di destra né di sinistra» e improntato su politiche economiche volte a ridare slancio all’economia ma controverse per i lavoratori.
Nei punti del suo programma si trovano la rinegoziazione da parte delle aziende delle 35 ore settimanali, il taglio di 120.000 posti di lavoro pubblici e la riduzione del deficit, un consistente taglio delle tasse per le imprese che porti l’aliquota dal 33% al 25% e un maxi investimento da 50 miliardi di Euro da destinare alle energie rinnovabili. In poche parole, il programma di Macron denuncia la volontà di riportare il lavoro in Francia, favorendo le condizioni per le aziende, sebbene queste si riflettano in una riduzione dell’intervento statale nell’economia e delle tutele ai lavoratori. Il candidato centrista ha avuto in casa sua il migliore esempio di come le grandi aziende stiano abbandonando la Francia: nella sua Amiens la Whirlpool ha chiuso uno stabilimento da 200 dipendenti trasferendolo a Lodz, in Polonia. Nel computo totale dei voti, Macron ha raccolto il 24% dei consensi, superando i timori della vigilia riguardanti la tenuta e la consistenza del proprio movimento, ancora relativamente molto giovane.
Seconda con un margine minimo (21,3%), e quindi destinata al ballottaggio, è Marine Le Pen, leader del Front National, partito di estrema destra fondato dal padre Jean-Marie nel 1972 e votato a un nazionalismo basato sull’elemento culturale ed economico. Le Pen ha preso il comando del partito del padre nel 2011, e ha ottenuto immediatamente diversi voti, tanto da portare il partito del padre alla terza piazza nelle elezioni politiche dell’anno successivo; nel 2015, poi, si è registrato un vero e proprio exploit in termini di voti alle elezioni regionali, con il Front National primo in alcune regioni ma incapace di guadagnarne alcuna in quanto trattato da pariah dagli altri partiti, coalizzatisi contro il partito di estrema destra che perse in tutti i ballottaggi.
Nel programma della Le Pen, il primo punto vedeva l’abbandono dell’Euro e il ritorno al Franco, l’espulsione automatica di tutti gli immigrati illegali e l’imposizione di una quota per l’immigrazione legale pari a 10.000 persone, la chiusura delle moschee estremiste, la preferenza ai francesi nell’assegnazione delle case popolari, il mantenimento della settimana lavorativa a 35 ore e l’abbassamento dell’età per il pensionamento a 60 anni, oltre all’imposizione di un dazio del 35% per le imprese che se ne vanno dalla Francia e il divieto di portare simboli religiosi (tra cui il velo) per le donne musulmane. I maggiori dubbi della vigilia riguardavano l’effettiva capacità di questo partito di poter effettuare un salto di qualità e diventare a tutti gli effetti un partito di massa, capace di assicurarsi un consenso trasversale e non limitato ai propri fortini sociali.
La terza piazza è andata a François Fillon, leader del partito repubblicano, che si è assicurato il 19,91% dei voti. La sua cavalcata verso le presidenziali era iniziata con la vittoria al secondo turno delle primarie contro l’avversario (schierato su posizioni più moderate) Alain Juppè. Il suo viaggio, tuttavia, è stato funestato da uno scandalo che l’ha portato alla gogna pubblica: l’esborso di 600.000€ pubblici destinati alla moglie di Fillon, unito a diversi favori e ulteriori esborsi nei confronti dei figli, ha causato un notevole spostamento di voti da Fillon a Macron e Le Pen, escludendolo, de facto, dalla competizione. Nonostante la batosta a livello di opinione pubblica, Fillon è comunque riuscito a intercettare il voto di gran parte dei repubblicani, dei cattolici e dei conservatori moderati. Il suo programma iniziale prevedeva lo shock all’economia: il taglio di 100 miliardi alla spesa pubblica in 8 anni, aumento dell’Iva a beneficio delle aziende, la riduzione di 50 miliardi di pressione fiscale e la cancellazione delle 35 ore settimanali, con le aziende libere di concordare l’orario di lavoro con i propri sindacati. Se nei primi tempi il programma era maggiormente simile a quello di Macron, dopo lo scandalo Fillon si è avvicinato maggiormente a quello della Le Pen, nella speranza di intercettare il voto cattolico e conservatore meno moderato. Al termine del voto ha espresso i propri dubbi sulla correttezza della gara, dicendo che la verità sarebbe venuta a galla e invitando i suoi a votare Macron.
Ai piedi del podio, dietro Fillon per una manciata di voti (19,64%), si è piazzato il candidato dell’estrema sinistra Melenchon. Il sessantacinquenne ex ministro ha riscosso consensi principalmente tra gli operai e le classi meno abbienti, oltre ad essere stato notevolmente favorito dal crollo verticale della sinistra socialista. Fortemente anticapitalista, ha proposto un’idea antieuropeista in quanto l’Unione Europea favorirebbe enormemente il capitalismo di mercato a cui egli si oppone. Il suo programma elettorale, in controtendenza rispetto al resto degli avversari, prevedeva un maggior intervento statale nell’economia con un investimento di 100 miliardi di Euro nell’economia, l’istituzione di un’aliquota del 90% per i redditi più alti, 200.000 posti di lavoro pubblici in più, una settimana lavorativa di 32 ore e l’uscita della Francia dall’Unione Europea, dalla Nato e dal Fondo Monetario Internazionale.
La Francia esce da una presidenza disastrosa sotto il piano del consenso, il che ha seriamente azzoppato la candidatura dei socialisti a questa competizione: dalle primarie della sinistra moderata, tra l’ex primo ministro Valls e il meno moderato Hamon l’ha spuntata quest’ultimo, considerato ribelle dal suo stesso partito, il quale si è presentato alle elezioni con un programma che l’ha fatto ribattezzare «il Bernie Sanders Francese» dai commentatori internazionali: nell’elenco di azioni promesse troviamo la liberalizzazione della cannabis, la tassazione del lavoro prodotto da macchinari automatici, un assegno mensile di 600€ ai disoccupati e la conversione della produzione energetica nazionale all’energia rinnovabile entro il 2050. Hamon vuole inoltre abolire la loi travail del 2016, in cui ha messo una consistente mano Macron, che ha facilitato l’assunzione e il licenziamento dei lavoratori. I consensi raccolti dal candidato socialista sono talmente bassi (6,5%) che si può parlare di vera e propria catastrofe per la sinistra, il che ha indotto Hamon a rassegnare le proprie dimissioni la sera stessa. Seguono a ruota altri sei candidati, cosiddetti minoritari, con percentuali inferiori al 5%: la trotskysta Nathalie Arthaud, il nazionalista François Asselineau, il cospirazionista Jacques Cheminade, il sovranista Nicolas Dupont-Aignan, il centrista Jean Lassalle e l’anticapitalista Philippe Poutou.
Macron si avvia con discrete probabilità a vincere la competizione elettorale, forte dell’appoggio di Fillon e Hamon, che hanno già dato indicazioni ai propri elettori di supportare il candidato centrista. La Le Pen, al contrario, difficilmente sarà in grado di incrementare i propri consensi: per farlo ha scelto di autosospendersi dalla guida del Front National, probabilmente cercando così di crearsi una nuova verginità politica e intercettare i voti dei conservatori meno moderati e dei cattolici orfani di Fillon. Altro bacino importante dal quale la Le Pen intende attingere è quello dei votanti rimasti orfani di Melenchon, ai quali però bisognerà far scorgere la somiglianza dei programmi ancor prima della notevole diversità ideologica: è probabile che il 7 maggio molti di questi ultimi si dedichino a una scampagnata al mare invece di recarsi al seggio.
Altro dato rilevante è che, per la prima volta nella storia della quinta repubblica francese, nessuna forza gollista si è qualificata per il ballottaggio. Le ragioni di tale tracollo dei repubblicani stanno negli scandali che hanno colpito il prescelto dalla base per la corsa alle presidenziali e nella crisi di lungo corso della politica tradizionale, stretta da un lato dai nazionalismi e dall’altro da una concezione nuova della gestione della cosa pubblica in grado di crearsi uno spazio rilevante al centro degli schieramenti politici. Sia i repubblicani (sfavoriti dagli scandali di Fillon, il quale è stato comunque in grado di recuperare qualche punto) che i socialisti (sfavoriti dal cataclisma che è stata la presidenza Hollande in termini di consenso, oltre che dalla defezione di Valls) sono stati letteralmente schiacciati da nuove forze della politica, che hanno sfruttato l’una la rabbia della popolazione per l’attuale situazione economica, l’altra la volontà di rinnovamento e la capacità di comunicazione superiore rispetto al resto del panorama politico.
Il Front National è riuscito a prendere 7,6 milioni di voti, miglior risultato di sempre ma ancora molto lontano da ciò che serve per qualificarsi non solo come una voce di protesta ma come un’alternativa credibile di governo. L’atto di Marine Le Pen di smarcarsi dal proprio partito lasciandone la guida è l’ennesimo tentativo di depurare la sua immagine e quella del Front National. L’analisi della distribuzione geografica del voto è abbastanza impietosa: le città con Macron, le periferie delle stesse con Melenchon e le campagne con la Le Pen. Significa che quest’ultima non è riuscita ad imporsi presso la borghesia, i professionisti e la popolazione maggiormente scolarizzata. Si è venuto inoltre a creare un paradosso per il quale le politiche proposte dalla Le Pen, imperniate su una concezione di presunta sicurezza, non hanno fatto presa sui diretti destinatari (gli abitanti delle città maggiori, gli unici ad aver subito attacchi negli ultimi anni poi rivendicati dallo Stato Islamico o da Al Qaeda in Arabian Peninsula) ma solo sull’elettorato rurale che rischia di morire per attentato meno di altre categorie.
Se esistono ragionevoli probabilità che Macron si avvii a diventare presidente, più incerte saranno le elezioni dell’11 giugno che dovranno rinnovare il parlamento: il movimento dell’ex ministro è molto giovane, essendo nato esattamente un anno fa, e i commentatori internazionali sono incerti sul fatto che En Marche! sia in grado di presentare un candidato credibile in tutti i collegi. Lo stesso discorso vale per la Le Pen, che al momento esprime solo due parlamentari. Con ogni probabilità Macron, per governare, sarà costretto a cercare una coalizione, ma sarà indubbiamente favorito dalla posizione centrista e dal grado di apertura che ha verso gli altri partiti, cosa che Front National non possiede.