Torna l’appuntamento settimanale à la carte sulle pagine del theWise nazionale, con lo special della santa Pasqua (leggermente in ritardo). L’exploit animalista berlusconiano di quest’anno dona ancora più gusto al sacrosanto diritto, sancito nelle sacre scritture, d’immolare un abbacchio da latte alla santissima trinità. O, almeno, così sembra aver lasciato intendere l’ex-premier Matteo Renzi, unico baluardo bieco e tradizionalista dell’eccidio che ogni anno si consuma negli allevamenti italiani per mantenere generazioni e generazioni di crudeli famiglie di allevatori. Ma la realtà è un’altra.
Già in tempi molto meno sospetti, il papato emanava decreti su decreti amministrativi per limitare la pratica dell’abbacchiatura, non per spirito animalista, ma per regolare il mercato selvaggio che essa alimentava. L’abbacchio romano, infatti, altro non è se non l’agnello da latte, ossia il figlio di una pecora macellato tra i 4 e i 6 chilogrammi, entro e non oltre il 40° giorno di vita. L’alimentazione esclusivamente a base di latte materno e la tenerissima età producono caratteristiche organolettiche uniche nella carne. Naturalmente questo ha un prezzo, e le società prettamente agrarie dell’epoca lo sapevano bene: “abbacchiando” indiscriminatamente durante tutto l’anno si andava ad intaccare la produttività di altri beni di consumo di base ricavati dalle greggi, come lana e latte. Greggi che, spesso, non erano di proprietà di chi li custodiva.
Larga parte degli animali allevati nel Lazio, infatti, anche fino a metà Ottocento, in un modo o nell’altro erano proprietà della Chiesa (e se non gli animali, lo erano i terreni su cui essi pascolavano). Chiesa che, in un’epoca pre-metodi di refrigerazione moderni, trovava molto più remunerativo ricavare merce atta anche allo scambio interregionale, come lana e formaggi stagionati, piuttosto che la carne fresca, pur sempre molto deperibile anche se di altissima qualità. Questo, nel tempo, portò a una lunga sequela di interventi statali nel tentativo di arginare il fenomeno, ma con successo altalenante. Insomma, il dinamico duo Berlusconi-Brambilla (anche questa volta) non è riuscito a inventarsi nulla, né tantomeno ad essere almeno un pelo più reazionario della chiesa Cattolica, che di secolarismo se ne intende. Ma, diciamocelo, prendere per i fondelli la nostra società post-ideologica contemporanea è un po’ un easy target, perciò concentriamoci su ciò che conta veramente: l’ abbacchio.
Oggi il prodotto di punta, insieme al cugino Sardo, è sicuramente l’ Abbacchio Romano IGP. Trattasi di animali di razza controllata, protetti e tutelati dal disciplinare lungo tutta la filiera d’allevamento e alimentati unicamente attraverso il latte materno di capi che si nutrono di foraggi secchi, se non direttamente al pascolo. Una garanzia di un certo rispetto per un prodotto agroalimentare tanto prelibato quando delicato. Animali così giovani, infatti, sono di solito l’anello più debole della moderna industria d’allevamento: essendo spesso separati dalla madre quasi immediatamente dopo la nascita hanno caratteristiche particolari, come ad esempio un sistema immunitario ancora solo parzialmente sviluppato (lo sviluppo avviene, naturalmente, solo con lo svezzamento) e sono spesso soggetti a integrazioni della dieta – con latte diverso da quello della madre – o a vere e proprie terapie antibiotiche pluripotenti (in molti paesi al di fuori del nostro).
Per fortuna, però, la produzione nazionale e le tendenze al consumo in calo rendono molto improbabile imbattersi in un prodotto del genere sui banconi di macellai e supermercati. In ogni caso, certe cose è sempre meglio saperle. Quindi occhio al cartellino, quando acquistate: anche se si tratta di un prodotto già macellato e sezionato, dovete sempre trovare esposto il marchio del consorzio Abbacchio Romano (d’obbligo su etichetta di carta aderente la pelle di ogni animale per le mezze carcasse) o l’auto-certificazione minima d’indicazione di provenienza. Bene ma non benissimo anche il prodotto locale “dell’amico Gino che lo pascula sullo colle dala mattina prestu”, perché – per quanto se ne possa dire o pensar male – l’allevamento a norma di legge sulla base di disciplinari concordati e prestabiliti comporta un livello di controlli veterinari e sicurezza igienica che il produttore locale semplicemente non si può permettere di raggiungere (oltre a pagare le tasse, per dire). Fidatevi della vostra razionalità: il prezzo al dettaglio non è mai proibitivo, e sotto le festività di Pasqua si possono portare via quarti, mezzene o animali interi per prezzi inferiori ai 10€ Kg. Che andranno naturalmente ad aumentare man mano che andremo a cercare il singolo taglio pre-porzionato (coscio, costine o spalla).
Disgustati? Questa è la mezzena cruda di una carcassa di agnello da latte, comprensiva della cosiddetta “coratella”, ovvero l’assieme di fegato, cuore e polmoni. L’animale, dal vivo, pesava poco meno di 8 chilogrammi (siamo al limite della categoria), per cui stiamo parlando approssimativamente di 3 o 4 chili di carne pulita. Con un quantitativo del genere si possono sfamare tranquillamente 5 o 6 persone di buona forchetta o in alternativa 7 o 8 commensali d’inferiore spessore. La carne dev’essere flessibile ed elastica, non immediatamente cedevole alla pressione, rigorosamente avvolta dalla sua stessa pelle all’esterno e da accumuli adiposi concentrati principalmente appena sotto la zona lombare, il colo e all’altezza del diaframma.
Se dovrete sfamare meno bocche di quanto pronosticato, procedete tranquillamente al taglio dell’ abbacchio nelle sue tre componenti principali: la spalla, le costine e il coscio. Non fate i salti mortali cercando di disarticolare la spalla dalla sua sede nella scapola, ma procedete semplicemente ad un taglio netto della spina dorsale nel punto lambito dall’estremità della spalla, portandovi via anche due o tre costine. Per quanto riguarda il coscio, invece, niente di più facile: separate l’anca dalla sezione lombare della spina dorsale. Nel mio caso, per sfamare tre persone dotate del mio stesso buon appetito, ho dovuto intercedere per un ibrido tra i miei due tagli preferiti dell’animale: l’intera cassa toracica dell’animale con la spalla anteriore.
Certo, il coscio è il taglio più iconico e ricercato, ma fermatevi un attimo per chiedervi: «Dov’è la carne più buona, di solito, in un’animale?» e rispondetevi: «Vicino all’osso». Le infiltrazioni di grasso e connettivo tra le costine, unitamente al generoso lembo di pelle sottostante l’ascella, sono un vero e proprio scrigno di sapori.
Nel caso del quarto superiore c’è ben poca pulizia da fare: limitatevi a qualche rifilatura minima di connettivo sui bordi tagliati del pezzo e all’eventuale presenza di trachea, esofago o altre “tubature” che possono essere rimaste incidentalmente aderenti al fondo della cavità toracica. Lo stesso dicasi per il coscio, ma in questo caso premuratevi anche di effettuare dei taglietti trasversali, non troppo in profondità, per dare modo alla pelle del pezzo di espandersi e contrarsi naturalmente in cottura senza spaccare la carne.
Ah, vi ho accennato al fatto che tutte queste operazioni le stavo svolgendo il giorno prima di Pasqua? No? Bene, quello che stiamo preparando è un abbacchio al forno, sì, ma marinato 20 ore con gli odori prima di vedere anche solo l’ombra di una teglia di patate. Si fa? Non si fa? È tradizione? Restiamo lucidi per un attimo, e osserviamo la realtà che ci si para di fronte. Anche se letteralmente “membra d’infante”, è pur sempre carne quella di cui stiamo parlando, carne che andremo a infilare in uno spazio ristretto a temperature superiori ai 150° per almeno un’ora e mezzo (limite minino di penetrazione della cottura). Ora, l’utilità di immergerla 12 ore in una soluzione acida naturalmente non ha nulla a che vedere con la consistenza della carne, già morbidissima, ma vogliamo che detta carne arrivi a contatto con il calore il più possibile idratata.
Perché? Presto detto: in un forno a convenzione tradizionale come il mio, la temperatura sale lentamente a partire dall’esterno dell’alimento, e – nel caso di lunghe cotture come la nostra – questo comporta un particolare stress sulla superficie. Nel frattempo, anche gli umori interni al pezzo andranno a concentrarsi verso il cuore, lasciando così ancora più disidratata la superficie. Una marinatura preventiva di mezza giornata permetterà alla carne di saturarsi di liquidi (ed eventuali aromi), di umidità interna, dando così il tempo all’intero taglio di ricevere il calore necessario a una completa cottura, preservando i tessuti esterni da uno shock termico eccessivo. E la pelle croccante? Vogliamo forse rinunciarci? Giammai! Anzi, dovendoci preoccupare meno dei tessuti sottostanti potremo osare ben più audacemente con il grill o il forno ventilato nelle fasi finali della cottura.
Detto questo, cosa ci mettiamo? La safe option è un’iterazione classica tra vino o birra a coprire con sedano, carota e cipolla, ma leggendomi ormai avrete imparato che mi piace spaziare con le spezie. E così entriamo nel reame dei gusti personali: per me gli aromi della carne sono il ginepro, i chiodi di garofano, il finocchietto e una nota di peperoncino piccante, tostati preventivamente in un padellino a fiamma vivace e passati al mortaio. Impregnate a secco la carne massaggiandola delicatamente e lasciate in immersione con tutte le interiora in contenitore coperto (qui mi avvalgo di una pentola dotata di coperchio). Poi in frigorifero fino al giorno dopo, magari rigirando il tutto un paio di volte tra la notte e la mattina.
Ci siamo, finalmente: stendete un tappeto di almeno un chilo di patate tagliate in ottavi sui tre assi, accuratamente lavate e spazzolate in superficie così da permetterci di usarle con tutta la buccia. Oltre ad ospitare importanti principi nutritivi, la buccia della patata contribuisce anche al gusto complessivo del piatto, e il taglio grossolano ci permetterà di indugiare nei tempi necessari alla cottura dell’ abbacchio senza doverci preoccupare di procedere a una cottura separata. Ungetele semplicemente con una tazzina d’olio per permettere al calore di distribuirsi uniformemente sulla loro superficie e unite un trito non troppo sottile di aglio e rosmarino per dare una spinta in più.
Ora disponiamo la carne sul nostro vassoio di tuberi. Prima, però, dobbiamo decidere quanto del lavoro svolto in fase di marinatura vogliamo portarci dietro durante la cottura. Tre opzioni:
- Estrarre il pezzo così com’è e procedere senza ulteriori indugi. Questo è l’approccio più estremo, che ci permetterà di ritrovare aromi e odori del nostro intruglio nel piatto finito. Molti puristi, però, potrebbero storcere il naso davanti al sapore di un taglio di carne pregiata coperto in malo modo dalle spezie.
- Estrarre il pezzo e procedere delicatamente alla rimozione di tutta l’umidità e i residui in eccesso con l’aiuto di un panno o della carta da cucina. Questa è la mia scelta, sia per ottenere una pelle più croccante a fine cottura che per rimuovere l’eccesso di “aiuti” che abbiamo dato alla carne durante la notte. Il tutto per rispettare il gusto caratteristico dell’agnello ed ottenere il meglio dai due mondi.
- Estrarre il pezzo e procedere a risciacquarlo sotto abbondante acqua corrente. Questo è invece il trattamento che riserverò a cuore, fegato e polmoni dell’animale prima di affidarli al caldo abbraccio con i carciofi. Nella coratella, infatti, risiedono sapori e aromi talmente distintivi da non richiedere nessun intervento esterno, e la marinatura sarà servita, in questo caso sì, unicamente a rendere più tenere le parti e scomporre il tessuto connettivo più tenace (che andremo comunque a rifilare).
Ora un vero tocco da maestri. Acquistando un’animale intero o in mezzana acquisteremo pressoché tutte le parti del corpo, compreso il sottile straterello di grasso appena sottostante la parete addominale interna. Questo velo impalpabile è la copertina ideale da poggiare sulla pelle del nostro bell’ abbacchio per bruscarla alla perfezione, proteggendola dal calore intenso del grill. In più è grasso di pecora da latte, quindi – che ve lo dico a fare – quant’è buono!
Per i più laidi, corrotti e imperdonabili, naturalmente, c’è anche modo di andare quel solito passettino oltre. Con due o tre ostie di burro ci assicureremo un viaggio di sola andata per il paradiso della pelle croccante e della patata unta. Questo è l’ultimo atto: infornate la teglia con il pezzo rivolto a pelle in su, in forno statico preriscaldato a 200° che andremo quasi subito ad abbassare a 180°, per fare le cose senza fretta e come si deve. Mezz’ora di timer, non perché possa mai bastare così poco a regolare cotanta magnificenza, ma per ricordarci di passare a inumidire la superficie superiore della pelle con il suo stesso sughetto, ogni mezz’ora appunto, almeno fino al traguardo fatidico di un’ora e mezza. Alzate il forno al massimo ogni volta che vi presterete a questa operazione, per non rischiare di far scendere troppo bruscamente la temperatura ogni volta che lo aprite, e poi dritti fino al mattino.
Cose che si possono fare in un’ora e mezza? Pulire i carciofi naturalmente, con i quali andremo a creare il contorno più buono e meno salutare noto all’uomo: la Coratella con i carciofi. Impostate un’ampia bacinella con qualche dito d’acqua acidulata in cui andremo a buttare i nostri cuori di carciofi. Tagliateli in quattro dopo aver eliminato un generoso strato di foglie esterne (fino a raggiungere le bratte di colore tendente al giallo paglierino), poi cimate la punta per eliminare la parte spinosa viola delle foglie e la peluria interna, una volta fatti a metà e poi in quarti. Spellate i gambi dai fili e fateli in tre o quattro pezzi. Lasciateli assorbire un po’ di acidità dal limone e intanto scattivate le interiora dell’agnello eliminando tutti i fili esterni del fegato, il connettivo e i grassetti, dopodiché cubettate grossolanamente a circa un centimetro di spessore.
Tuffate i carciofi scolati in un filo d’olio extra vergine ben caldo e fate saltare per un paio di minuti.
Dopodiché aggiungete un mestolo d’acqua acidulata o di brodo e mezza cipolla tritata. Niente soffritto, avete capito bene: la verità è che ci troviamo di fronte a un dilemma. Il carciofo vorrebbe l’aglio mentre la coratella non ha occhi che per la cipolla. La soluzione? Mezza cipolla non soffritta, bensì ammalvita in cottura umida con i carciofi, così che i suoi zuccheri non caramellizzino invadendo la fascia aromatica del carciofo, ma al contempo la sua dolcezza contrasti il sapore forte delle interiora d’agnello.
Fate prendere bene temperatura e unite la dadolata di coratella. Insaporite bene una decina di minuti a fuoco sostenuto, poi allungate con un poco di liquido di governo o mezzo bicchiere di vino bianco (a piacere), coprite con un coperchio e lasciate sobbollire per almeno una quarantina di minuti, che a occhio e croce dovrebbe essere anche quanto è rimasto all’abbacchio nel forno.
E infatti eccolo. Il re della collina del Golgota! Dopo un’ora e mezza di inesorabile esposizione ai 180° del forno, la superficie della pelle ha formato una perfetta crosta caramellata, mentre la sottile velina di grasso addominale con cui l’avevamo vestita si è fusa a creare uno strato protettivo impenetrabile al calore eccessivo per la carne, che risulta perfettamente cotta fino all’osso e meravigliosamente umida e succosa. Gli aromi di marinatura in superficie, con il calore intenso del forno, hanno lasciato spazio all’inebriante profumo naturale della carne di agnello. Le patate hanno tenuto fin troppo bene, anche grazie all’aiuto dei grassi rilasciati dalla carne.
Per carità di Dio, non abbiate fretta, anche se sono già le 13:30 dedicate 20 minuti di amore disinteressato facendo riposare l’ abbacchio in modo che si redistribuiscano i succhi al suo interno, poi procedete alla separazione delle costine e al partizionamento della spalla nei suoi tre elementi principali (scapola, braccio e avambraccio). Quattro porzioni abbondanti di assoluto godimento, gentilmente offerto dalla povera bestiolina che ha ispirato, tra gli altri, una delle più grandi pellicole della nostra generazione. Sto naturalmente parlando de Il silenzio degli innocenti, abusato termine di paragone per dimostrare la crudeltà di un gesto tra i più antichi è spontanei della tradizione spirituale, prima che alimentare, comune a tutti i paesi del bacino del Mediterraneo. Proprio in questi giorni – va ricordato – ci ha lasciato il suo regista, il premio Oscar Jonathan Demme.
Che dire del nostro “contorno di verdure”? La coratella d’ abbacchio coi carciofi è il tipico accompagnamento della cucina romana al pranzo pasquale. Non fosse per l’abbondanza di colesterolo e acidi grassi saturi nella sua componente animale, i carciofi sarebbero pure un ottimo ingrediente digestivo e depurativo di fegato e intestino. Un attentato alla salute che ci si può decisamente permettere almeno una volta l’anno. A vostra discrezione, spiumate pure un rametto di mentuccia a fine cottura.
Buona Pasqua a voi e famiglia! Anche se in ritardo, ci tenevo a condividere il menù tradizionale di una delle feste “alimentari” più celebrate nella tradizione culinaria italiana. Con buona grazia di vegetariani, vegani, animalari o semplicemente gente troppo sensibile per rivolgere gli occhi alla propria storia.
Alla prossima ricetta, con la puntata finale di questa wannabe Trilogia Sui Carciofi, che con il nuovo numero approderà su un pianeta da molti considerato alieno e dagli orizzonti sconosciuti, la nuova frontiera della tecnologia: il microonde.