Viaggio nella mente dei vegani
I vegani sono definiti, dalla professoressa Dwyer e dai colleghi del Frances Stern Nutrition Center di Boston, come una sottocategoria più estrema dei vegetariani, in quanto, a differenza di questi ultimi, mangiano solo prodotti di natura vegetale. La dieta vegana infatti, a differenza di quella vegetariana, esclude anche prodotti di sola derivazione animale, come latte e uova. La dr.ssa Larsson, della facoltà di alimenti e nutrizione dell’Università di Umea, definisce la ragione primaria della scelta vegana come derivante, in primis, da ragioni filosofiche, piuttosto che scientifiche, economiche o pratiche, in quando questo tipo di dieta era raccomandata, già in tempi antichi, da filosofi e gruppi religiosi.
Una prima critica che si può fare a questa introduzione è che, per quanto cerchi di essere oggettiva, in fondo in fondo, forse forse, proprio non lo è. In primo luogo, non c’è una vera e propria distinzione tra quella che è la dieta, intesa come scelta alimentare, e la credenza che sostiene tale scelta. In secondo luogo, nessuna di queste ricerche si focalizzerebbe sul perché le persone sono vegane: perché ne sentirebbero la necessità, perché si sentirebbero motivati a prendere questa scelta (che, ammettiamolo, è piuttosto difficile).
Purtroppo la ricerca si è focalizzata solo sulla dieta, sui suoi vantaggi e svantaggi, chiedendosi se essa facesse bene o male. Alcune ricerche, invece, si focalizzano sulle persone che si definiscono vegan, raffigurando semplicemente “il tipo di vegano”: c’è quello estremista e quello individualista. Il primo condanna stili alimentari diversi e sostiene che l’unico modo per salvare le sorti del mondo sia il proprio, il secondo invece lo fa per una questione personale. Ma questa distinzione non è in nessun modo distinguibile da un fattore chiave, tipico di ogni altro movimento o pensiero nella storia dell’uomo: il fondamentalismo.
Prima di entrare nel dettaglio, però, conviene esprimere un punto fermo: questo articolo non ha la presunzione o lo scopo di elogiare o schernire la dieta vegana. L’intenzione non è questa, quanto semmai quella di dare una possibile spiegazione scientifica del perché alcune persone ritengano adeguato e giusto abbracciare lo stile vegano. L’articolo si focalizzerà dunque sulla credenza vegan e sul darle una possibile definizione. Sarà un viaggio nella comprensione della credenza a livello cognitivo. Ma cosa significa questo?
Livelli di analisi
È più facile da spiegare facendo degli esempi. Immaginate quattro cerchi concentrici che definiscono i quattro diversi livelli di analisi del fenomeno. Abbiamo il cerchio più ampio che si riferisce al livello collettivo. Se studiassimo il veganismo a questo livello si studierebbe la sua portata culturale e sociale, quindi come si differenzia tra varie culture e così via. Al suo interno abbiamo il livello intergruppo: ovvero, come il veganismo si interfaccia tra gruppi sociali differenti. Per esempio i vari conflitti tra vegani e vegetariani o tra vegani e onnivori. Al suo interno abbiamo il livello intragruppo: come il veganismo influenza le dinamiche all’interno dello stesso gruppo dei vegani. Per esempio, si potrebbe studiare la motivazione dei vegani a definirsi come tali, come vengono giudicate i comportamenti devianti dal vegano modello e via dicendo. Al suo interno abbiamo il nostro livello di interesse, il livello intrapsichico. In questo cerchio possiamo studiare cosa può avvenire all’interno di ogni singolo individuo quando ha a che fare, nel nostro caso, con la credenza vegan.
Le radici del veganismo: l’antropomorfismo
Per quanto il titolo possa sembrare un esilarante sfottò ai vegani, sottolinea quella che potrebbe essere la base su cui si poggia questa credenza: il processo di antropomorfizzazione. L’antropomorfismo è il processo per cui gli esseri umani attribuiscono caratteristiche tipicamente umane, come stati mentali, intenzionalità e coscienza, ad agenti non umani. Qui, in questo articolo, con “agenti non umani” intendiamo gli animali (infatti l’attribuzione può avvenire anche verso robot umanoidi o divinità). Ma come funziona? In realtà avviene in maniera piuttosto automatica.
Immaginate di vedere un bel cagnolino tenero che vi morde la mano, magari ficcandovi uno di quei teneri dentini affilati nella falange. Di reazione sgridate il cagnolino, che improvvisamente allargherà gli occhi e abbasserà le orecchie diventando ancora più tenero (evoluzione!). Quello che registrerà la vostra vista sarà l’immagine di un cagnolino che vi fa gli occhi dolci. Oltre la vostra consapevolezza, l’immagine andrà ad attivare (che lo vogliate o meno) tutta una serie di schemi umani presenti nella vostra memoria (come un tenero bimbo indifeso con gli stessi occhioni dolci). A questo punto, vi sentite molto dispiaciuti per aver sgridato quel tenero figlio di Satana, e gli farete una bella carezza, magari pensando che si sentisse in colpa per l’accaduto.
Quello che è avvenuto è un processo inferenziale induttivo. In parole povere, dalla visione della classica “faccia da cane bastonato”, il vostro processo cognitivo è andato a scavare nei vostri ricordi primordiali da essere umano, ha trovato una spiegazione “umana” al comportamento animale, e vi ha portato a presumere che il cane abbia avuto uno stato mentale in cui si sia dispiaciuto per l’accaduto: questo vi ha portato a sentirvi in dovere di rassicurarlo.
Come funziona
Secondo Epley, Waittz e Cacioppo, dell’Università di Chicago, vi sarebbero tre motivi:
• L’uomo, più di ogni altra specie, è un animale sociale. Come tale ha ben presente come gli umani si comportano. Questi “schemi” di comportamento, essendo sempre sotto il nostro naso, sono molto rapidi da ricordare. Se si aggiunge il fatto che non abbiamo schemi di comportamento animale, non abbiamo alternativa se non utilizzare questi schemi umani, come una sorta di ancora.
• L’essere umano è motivato a comprendere il mondo per pianificare adeguatamente il proprio comportamento. È una motivazione essenziale per la sopravvivenza, e necessaria a rendere il mondo prevedibile e controllabile. Questa motivazione è più forte quando compaiono agenti sconosciuti, o si assiste a comportamenti inaspettati o, come nel caso del cagnolino, non sono comprensibili i meccanismi sottostanti le azioni dell’agente.
• L’essere umano ha bisogno di avere e mantenere contatti umani con cui socializzare. Persone sole ed escluse sono più propense a vedere “umanità” dove umanità non c’è (si pensi alla puntata di Io e la mia ossessione in cui un tizio voleva sposarsi con un brontosauro gonfiabile).
Insieme a queste, gli autori aggiungono altre caratteristiche che aumentano o diminuiscono l’effetto dell’antropomorfismo. La più importante è la similarità: più l’agente si muove in maniera non prevedibile o spiegabile, e più ha un aspetto visivo simile all’umano, più gli si attribuirà intenzione. Provate a pensare a una formica che cammina zigzagando: molto probabilmente starà cercando la strada di casa. Oppure pensate alla differenza tra un normale aspirapolvere e quelli che si muovono da soli impostati da un timer. Sembrano quasi avere una motivazione nel muoversi (anche se si schiantano più volte nello stesso angolo del tavolo).
D’accordo, ma cosa c’entra l’aspirapolvere con i vegani? Fino a qui quasi nulla, o almeno così pare. L’antropomorfismo è un processo comune a tutta la razza umana. Il punto focale è sulle sue conseguenze a livello sociale.
Le conseguenze
Cosa collega il percepire gli animali come coscienti e con capacità decisionali con l’essere vegan? È molto semplice: la moralità. Ecco il perché. Come abbiamo visto prima, l’antropomorfismo porta con sé la percezione di capacità mentali negli animali. Gray e colleghi, sulla rivista Science, affermano che si percepisce una mente pensante in base a due caratteristiche: l’agency e l’experience. La prima è il grado con cui un agente (animali nel nostro caso) è percepito come capace di modificare l’ambiente con il suo comportamento, di creare o distruggere, di fare del bene o del male. La seconda è il grado con cui l’agente è in grado di sentire e percepire ciò che accade nell’ambiente.
In parole povere: chi ha alta agency è percepito come “capace di fare cose”, mentre chi ha alta experience è percepito come “molto sensibile a cose”. Per esempio, nell’esperimento degli autori, si trova che i cani hanno alta experience e bassa agency (insieme ai neonati e agli anziani), mentre, all’estremo opposto, la divinità è percepita come avente molta agency ma experience nulla. Non a caso gli umani vengono percepiti come aventi entrambe le caratteristiche alte.
Questo cosa comporta? Comporta una diversa concezione morale dell’agente non umano. Sempre secondo gli autori, chi ha alta experience viene inserito nel circolo morale del diritto (moral patiency), mentre chi ha alta agency entra nel circolo della responsabilità (moral agency). Abbiamo quindi una coppia che si completa: un agente morale e un ricevente morale; chi le cose le fa, e chi le subisce. La particolarità di questa diade agente-paziente (come la definiva già Aristotele) è che si completa a vicenda. Se abbiamo qualcuno che si comporta male, avremmo anche chi quel comportamento lo subisce. E se uno dei due soggetti non c’è, ce lo creiamo da noi.
Anche questo aspetto è comune a tutti, ma è amplificato nei vegani. Nella relazione tra animali e umani, gli animali, estremamente antropomorfizzati e ritenuti aventi capacità mentali, vengono considerati “moralmente pazienti” e gli umani responsabili delle loro sofferenze. Dal momento in cui un animale viene antropomorfizzato, acquisisce automaticamente capacità mentali in diverso grado. Riteniamo infatti che soltanto alcuni animali – come il gatto, il cane, il cavallo e simili – abbiano capacità mentali. Altri, come per esempio la cozza, no. Ma perché? Perché la povera e sfigata cozza non rientra nel circolo morale degli animali pensanti. E solo chi entra in questo circolo è salvo dall’essere mangiato. Questo spiega il motivo per cui, in Italia, è culturalmente accettabile mangiare una mucca, mentre è condannabile in India.
E i vegani? Semplicemente aumentano la cerchia degli animali che non vengono mangiati, ritenendo moralmente sbagliato anche solo uccidere un animale considerato pensante e dotato di intenzionalità, capace di percepire sofferenza e ingiustizia come gli umani. La questione è proprio questa: tutti gli animali che culturalmente vengono usati per alimentarsi, vengono cognitivamente percepiti da alcuni come in grado di soffrire, immaginare, ricordare e “sentire” al pari degli umani. Quindi ora possiamo definire il gruppo dei vegani al di là della loro dieta. I vegani sarebbero semplicemente persone che a livello cognitivo considerano la categoria degli animali come molto vicina agli umani, tanto da considerarli nello stesso circolo morale. È facile, alla luce di tutto ciò, capire il motivo per cui i vegani concepiscono l’uccisione di una mucca come un assassinio.
Conclusioni
Forse questo articolo può non essere così a portata di mano da utilizzare nelle discussioni a favore o contro lo stile vegano, ma può almeno essere utile a comprendere il fenomeno. Come per questo argomento, lo studio di determinate credenze e comportamenti non hanno l’obiettivo finale di giustificarli, ma solo ed esclusivamente per comprenderli. Comprendere non significa in alcun modo giustificare, né valutare, nessun tipo di comportamento.