Alitalia, la principale compagnia aerea italiana, sta per atterrare, forse definitivamente. In un periodo storico dove, grazie al prezzo del petrolio ai minimi storici, le altre compagnie fanno il pieno di passeggeri e guadagni, Alitalia riesce a perdere oltre un milione di euro al giorno. Il 24 Aprile oltre il 60% dei dipendenti ha votato No ad un referendum interno, dove si chiedeva l’approvazione del nuovo piano industriale che avrebbe portato a 1.600 esuberi e ad un taglio degli stipendi dell’8%. Come si è arrivati a questa situazione? Dobbiamo fare un rapidissimo ripasso delle vicende degli ultimi anni.
Fino a vent’anni fa esisteva il concetto di Compagnia di bandiera, di proprietà statale, che serviva a valorizzare l’immagine della propria nazione nel mondo. Con la liberalizzazione del mercato e l’avvento di competitor aggressivi come le nuove compagnie Low Cost, tutte le compagnie hanno dovuto iniziare a seguire la logica del profitto. C’è chi ci è riuscito, c’è chi è fallito (Sabena, Swissair), e poi c’è Alitalia. Da 20 anni, la compagnia è passata attraverso tre proprietari, una privatizzazione, tante ricapitalizzazioni. Nel 2007 fu acquistata dalla cosiddetta cordata dei “capitani coraggiosi”, per poi passare nel 2014 all’Emirato di Abu Dhabi, con risultati disastrosi, in linea con la precedente amministrazione.
Cosa non ha funzionato?
Sicuramente, non ha fatto bene il legame a doppio filo con la politica. Alitalia muove(va) 20.000 voti e relative famiglie, e questo ha portato a un eccessivo clientelismo (i famosi “privilegi” dei dipendenti Alitalia), che negli anni è andato scemando. Rimane obbligatorio citare i cosiddetti voli ad personam, fatti apposta per far fare il week-end a casa a qualche politico, come il volo Roma-Albenga usato settimanalmente dall’ex ministro Claudio Scajola. Non possono però essere solo queste le cause del disastro: il vero problema è stata la cronica mancanza di pianificazione seria, a tutti livelli e prolungata nel tempo.
Prendiamo ad esempio la composizione della flotta: Alitalia ha circa 100 aerei, il 20% dei quali è a lungo raggio; Lufthansa ha 279 aerei, di cui il 40% a lungo raggio; Air France ne ha 223, di cui quasi il 50% a lungo raggio. A causa delle compagnie come EasyJet e Ryanair, i guadagni sulle rotte a corto raggio si sono azzerati per tutte le grandi compagnie nazionali, mentre sulle tratte intercontinentali è più semplice riuscire a guadagnare. Peccato che Alitalia abbia puntato sulle tratte nazionali, finendo per essere massacrata in casa. Un tempo esisteva la Linate-Fiumicino, tratta ad altissima affluenza e venduta a prezzi stellari. Oggi il treno impiega tre ore, e tra un anno ne impiegherà due e venti, a prezzi inferiori, collegando i due centri cittadini. Nessun CdA ha mai aperto gli occhi sulla questione, nonostante fossero vent’anni che si sapeva dell’arrivo dell’alta velocità. Addirittura i manager di Etihad, nel 2014, in piena era AV, hanno puntato tutto su Linate, abbandonando progressivamente quasi tutti i voli intercontinentali da Malpensa!
Parliamo ora di HUB: una costante del trasporto aereo è il concetto di Hub & spoke. Quando per andare in una certa destinazione siete obbligati a fare scalo, è perché una certa compagnia aerea, concentrando i voli in un singolo aeroporto, riesce a darvi una coincidenza per la vostra destinazione. Tutte le grandi compagnie hanno un hub: Londra, Francoforte, Parigi, Madrid, Amsterdam. L’hub serve principalmente alle persone che viaggiano per affari, infatti sono tutti posti in piazze finanziarie di un certo livello. E poi c’è l’Alitalia a Roma. La vocazione principale di Roma è il turismo culturale in ingresso, fortemente stagionalizzato. Questo impedisce a una compagnia di avere una base di clientela forte e danarosa, che potrebbe invece avere Milano. Milano però ha un problema: non è grande come Londra e New York, però ha due aeroporti principali, su cui le compagnie spezzettano gli operativi: Iberia, Lufthansa, British Airways e, fino a qualche anno fa, Alitalia.
Nel 1998 Alitalia si alleò con la KLM, spostando molti voli a Malpensa per fare il famoso hub. Il problema è che molti voli a corto raggio, necessari per riempire gli aerei intercontinentali, rimasero a Linate. Quale persona sana di mentre avrebbe voluto transitare da Milano, sapendo di dover cambiare aeroporto? Questa volta la colpa non fu del governo, ma della cecità dei cittadini milanesi, che non capirono l’opportunità che avrebbero avuto se solo non si fossero impuntati nel tenere aperto il “comodo aeroporto sotto casa”. KLM preferì pagare 200 milioni di penale e andarsene, alleandosi con la più seria Air France. E Alitalia riuscì a perdere soldi pure in una situazione ideale.
2014, arrivano gli arabi del ricchissimo emirato di Abu Dhabi. Hanno una compagnia, la Etihad, e hanno la voglia acquisire un grosso network europeo per convogliare passeggeri nel loro hub. Per farlo, decidono di acquisire diverse compagnie presenti in Europa: Air Berlin, Air Serbia, Darwin, Niki ed Alitalia. Tutte hanno come minimo comune denominatore quello di essere prossime alla bancarotta. Confidenti nel potere dei petro-dollari, viene ceduto il 49% del pacchetto azionario della nostra compagnia. Il primo piano industriale confidava di tornare all’utile nel 2017, di aprire una decina di rotte di Lungo Raggio, di puntare su Linate.
A che punto siamo oggi?
400 milioni annuali di perdite, Linate perde qualche passeggero, sono state aperte Santiago, Città del Messico, L’Avana e forse le Maldive. Mete, come possiamo intuire, non così ad alto rendimento per i passeggeri business. Cosa possiamo dire alla fine? Probabilmente l’esito positivo del referendum non avrebbe cambiato nulla, forse avrebbe solo prolungato l’agonia. Dobbiamo in fondo riconoscere il coraggio dei dipendenti, che preferiscono affondare in blocco con tutta la barca. A meno che, come al solito, non arrivi Mamma-Stato a porgere il seno tramite qualche strano rifinanziamento pubblico, per far sì che il meme Alitalia continui imperterrito fin quando le nostre tasche lo permetteranno.