Dialogo con il direttore del Roma Contemporary Music College, una scuola di musica dove saper suonare non basta.
I musicisti non possono limitarsi a saper suonare: non è mai bastato. Forse solo durante il Romanticismo, ma anche lì l’immagine del musicista romantico è stata (probabilmente) solo un enorme e ben riuscito fenomeno di “branding collettivo”. Oggi, tolte specializzazioni varie, un musicista ha l’obbligo di avere almeno le basi di discipline quali sociologia, diritto, economia, marketing, informatica e via dicendo. Proporre in Italia questa visione è un suicidio: dopo tre minuti netti si avrebbe la folla di studenti e professori di conservatori et similia a difendere il loro ancien regime fatto solo di armonia e scale enigmatiche, ma qualcuno che ci prova c’è.
Gianluca Perdicaro, ad esempio: cantante professionista dall’età di diciassette anni, imprenditore culturale, manager, insegnante di Music business, vocal coach e preparatore atletico per cantanti noti al grande pubblico, con laurea e master in musica moderna. Insomma, è il ritratto del musicista come dovrebbe essere oggi, con moltissime competenze che si integrano con eguale importanza al saper suonare e cantare.
Nel 2007 fonda la Roma Rock School, la prima scuola di musica rock in Italia; poi, nel 2013, fonda RCMC (Roma Contemporary Music College), una scuola di professionismo musicale che si occupa di alta formazione UK, erogando corsi per l’ottenimento del Bachelor of Arts e del Master of Arts in collaborazione con la University of the West of Scotland. Oggi abbiamo l’onore di incontrarlo per le pagine di theWise e di scoprire l’offerta formativa RCMC e il pensiero che vi è dietro.
L’intervista a Gianluca Perdicaro
Partiamo da lontano, prima di arrivare ai corsi in senso stretto: parlaci di come è nato tutto, nella tua vita come professionista. Quali sono i motivi e le situazioni (soprattutto italiane) che ti hanno toccato in prima persona e che ti hanno spinto ad esportare in Italia il modello didattico anglosassone?
«La mia formazione musicale è di stampo classico, dal momento che ho iniziato a studiare musica e pianoforte classico all’età di 7 anni. Nel corso degli anni mi sono sempre più avvicinato al canto, che è diventato poi il mio strumento principale, specie negli stili blues, soul e poi rock. Di fatto, quindi, la mia ricerca espressiva si è sempre sviluppata in ambienti non italiani, sia negli stili di riferimento, sia fisicamente nei luoghi in cui negli anni ho vissuto e lavorato, dall’Europa agli Stati Uniti. La spinta a creare prima Roma Rock School e poi RCMC è nata, dopo anni di insegnamento in Italia e viaggi ed esperienze professionali all’estero, dalla constatazione di una fondamentale differenza tra come alcuni musicisti italiani vedono loro stessi e come mediamente si vede invece un musicista anglo americano. Essere musicisti in Italia, spesso, vuol dire considerarsi “arrivati” troppo presto, semplicemente al raggiungimento di un’alta capacità tecnica sullo strumento. Questo porta a tralasciare per anni sia l’impegno verso una maggiore conoscenza del music business, quindi del mondo professionale dentro al quale si vorrebbe poi far vivere la propria musica, sia la propria crescita interpretativa, che è strettamente legata alle esperienze culturali e sociali, che in Italia troppo spesso vengono semplicisticamente limitate alle “prove in saletta” con la propria band. L’approccio didattico anglo-americano ti spinge al confronto, alla condivisione delle tue idee, all’accettazione del fallimento in quanto insegnamento impagabile e non elemento frustrante, alla consapevolezza che la tua musica non sarà mai grande se resterà confinata dentro le quattro mura della tua stanza. Questi stimoli mentali si traducono in stimoli professionali, e non è un caso se all’estero musicisti di quindici o sedici anni sono già punti di riferimento artistico nazionali o in alcuni casi mondiali. La University of the West of Scotland promuove diversi corsi in Italia, nei campus di Roma, Bologna e Bari, quali ad esempio il corso per l’ottenimento del Bachelor of Arts in Commercial Music, corso accademico triennale di primo ciclo».
Come è strutturato il corso? Quali sbocchi professionali e quali competenze offre?
«Il BA è un corso accademico che nello UK è l’equivalente della nostra laurea triennale. In Italia potrebbe dunque essere paragonato ai percorsi conservatoriali o al DAMS, in termini di livello, ma in termini di didattica il corso è estremamente diverso. Il BA è un corso che prepara il musicista al mondo del lavoro: non è dunque puramente teorico o solamente legato agli aspetti accademici di sociologia musicale, né puramente e solamente legato allo sviluppo della tecnica di strumento, bensì decisamente professionalizzante, esperienziale. Il corso spinge l’allievo a considerarsi già un professionista, portandolo a ragionare non solo come un musicista, ma anche come un produttore, un manager, un compositore, un agente, un imprenditore culturale. Nei nostri corsi non abbiamo la pretesa di trasformare un musicista in imprenditore, né un musicista in produttore, ma intendiamo far comprendere a tutti quali sono le regole che di fatto è necessario conoscere per poter affrontare il mondo del lavoro in campo musicale. Per altro, il corso sfata il mito, tutto italiano, per cui nel campo musicale esisterebbero solo alcuni ruoli professionali (il musicista, il fonico, il turnista), quando in realtà il music business d’oggi è fatto di miriadi di professioni, molte delle quali recentissime, che spesso, magari nell’ombra, realizzano guadagni paragonabili a quelli di “star” affermate. Nel corso BA si lavora da soli, in team, a contatto con professionisti affermati, nazionali e internazionali, si compone, si suona, si produce, si creano prodotti non solo musicali, si imparano le tecniche di project management, si impara a fare colloqui professionali, presentazioni, contrattazioni. In altre parole, si imparano le regole del gioco: quelle necessarie per giocare nel mondo reale».
Il corso comprende la possibilità di esperienze all’estero in compagnia di studenti stranieri?
«Sì: ogni corso svolto in Italia in collaborazione con la UWS è in contemporanea temporale con i campus scozzesi e londinesi. Pertanto ogni allievo può scegliere di studiare parte dell’anno all’estero senza perdere né lezioni, né ore di studio, né esami. Dal secondo anno, inoltre, è possibile svolgere almeno una materia all’anno direttamente in Scozia. L’esperienza di studio all’estero è uno dei momenti formativi di maggiore importanza nei nostri corsi, proprio perché spinge l’allievo fuori dalla propria comfort zone, facendogli scoprire nuovi approcci alla musica e alla professione, stimolando quindi nuove riflessioni, nuovi pensieri, nuova musica, nuove idee. Non da ultimo, nei momenti di studio all’estero si creano spesso amicizie che restano nel tempo, traducendosi a volte in collaborazioni professionali internazionali che sono oggi fondamentali nel nostro mestiere».
Il principale partner, UWS, è tra le più grandi università scozzesi, nonché una delle migliori a livello globale. Nell’ambito delle performing arts, qual è la situazione dell’università in termini di qualità, rilevanza internazionale e “spendibilità” dei titoli in ambito professionale e accademico?
«La University of the West of Scotland è un’università estremamente dinamica, moderna, fortemente impegnata nell’internazionalizzazione, ma soprattutto fondata sulla convinzione che l’allievo non sia un numero ma un complesso creatore di idee, di mondi musicali. Questo rende il programma didattico e il regolamento accademico un sostegno alle aspirazioni personali, un sostegno equo, deciso e chiaro che non lascia mai l’allievo privo di risposte né in balia degli eventi. Sono proprio queste qualità didattiche che rendono, da sempre, i percorsi UK tra i migliori al mondo, e il valore intrinseco dei titoli di studio relativi tra i più alti in assoluto a livello mondiale».
Se volessi dare un consiglio sull’atteggiamento o la filosofia da tenere per comprendere e approcciarsi al meglio al corso, quale sarebbe?
«L’allievo che decide di iscriversi al corso Bachelor o Master della nostra scuola è un musicista “speciale”, convinto di non aver ancora imparato nulla, convinto che non imparerà mai abbastanza, ma allo stesso tempo sicuro di poter intraprendere un viaggio meraviglioso nella conoscenza, nell’esperienza di sé in situazioni nuove che lo spingeranno a crescere, cambiare, migliorare. Noi non cerchiamo musicisti qualunque, non siamo interessati a chi crede di sapere già tutto, a chi crede che non ci siano molte vie in questa professione ma una sola, a chi crede che la musica si faccia nella propria testa e non nella vita, fuori dalle proprie solite esperienze. In qualche modo direi che il nostro allievo ideale è un esploratore musicale, un rivoluzionario, che non si pone limiti troppo stretti ma al tempo stesso è capace di impegnarsi con umiltà e passione».
Venendo all’attualità, da poco hai presentato i corsi MA in Song Writing, Music Industries e Sound Production. Oltre che per il grado di specializzazione maggiore, come si differenziano dal BA?
«La differenza fondamentale è nell’approccio e nei prodotti da realizzare ad ogni esame. Se nel corso BA l’allievo esplora le numerose opportunità di lavoro che esistono nel mondo del business musicale e culturale in genere, nel Master l’allievo sceglie la sua strada, andando quindi a specializzarsi là dove desidera farlo. Ogni materia quindi è svolta con un livello di indipendenza maggiore, e la qualità di ogni prodotto d’esame è di livello professionale, senza compromessi».
I corsi Master of Arts avranno un organico misto tra insegnanti scozzesi e italiani: è il segno che UWS vuole un maggiore controllo sui partner stranieri? Oppure della volontà di avvicinare di più due realtà finora molto distanti?
«È segno di collaborazione, di forte impegno e di passione, ed è comunque una scelta nata dalla mia espressa richiesta di creare un organico misto. Acquisire una mentalità internazionale e vincente nel music business non è possibile senza una reale full immersion in ambienti che hanno fatto la storia del music business, di fatto definendolo».
I corsi formano chiaramente il musicista sul profilo professionale, con tutta una serie di competenze. Tenendo presente anche la situazione italiana da te descritta, quali valori credi che forniscano questi corsi agli allievi, in termini di etica professionale e non?
«Direi, su tutti: l’umiltà, la dedizione al lavoro, la capacità di lavorare in team condividendo le proprie idee e soprattutto la capacità di riconoscere e valorizzare il merito altrui».
Per concludere: se guardi al futuro, da qui a dieci anni, come vedi il professionismo musicale in Italia e quale ruolo pensi avranno avuto i tuoi sforzi in questo senso?
«Ho iniziato questa “missione”, se così possiamo chiamarla, nel 2007; da allora sono già stati molti gli effetti provocati nell’ambiente didattico italiano dai miei corsi, dalle mie dichiarazioni, dalle mie idee. Nel 2007 era quasi impossibile scovare una scuola di musica che parlasse di esprimere la propria artisticità, di essere imprenditori di sé stessi, di conoscere il music business. Oggi questi sono gli argomenti primari. Similmente, dalla riforma dell’ordinamento scolastico nazionale del 2005, l’applicazione dei trattati europei in materia di riconoscibilità dei titoli comunitari ed extra comunitari ha subito un grande impulso, anche grazie alle nostre attività. Pochi mesi fa ho partecipato a una fiera di orientamento universitario, incontrando centinaia di liceali. Mi ha sorpreso, e piacevolmente, vedere che la quasi totalità non mi ha mai chiesto: «Cosa è un Bachelor of Arts?». Sebbene questo ancora spaventi alcuni, siamo ormai cittadini europei: finalmente anche noi Italiani lo siamo in maniera più convinta, più partecipe, e questo ci consente di esportare il meglio della nostra cultura, in questo caso la nostra grande tradizione didattica nello studio dello strumento, ma al tempo stesso ci consente di godere, con slancio, del meglio di altre culture, quali quella britannica, da sempre al top nella formazione, da sempre di esempio nell’ambito della musica moderna e del music business. Credo che da qui a dieci anni la musica in Italia, di riflesso al resto del mondo, cambierà ancora totalmente, e probabilmente lo farà ogni tre o quattro anni, seguendo anche il passo delle nuove tecnologie. Non è più possibile pensare alla musica come ad un mondo stabile, di facile lettura, privo di sorprese, quale è stato, dal punto di vista del music business, dal 1960 agli anni ’90. Per questo credo ancora di più che il musicista debba essere eclettico, preparato a cambiar pelle velocemente, capace di interpretare le nuove tendenze in anticipo. Per questo credo fortemente che il musicista oggi non possa leggere solo di musica in senso stretto, non possa vivere soltanto dentro Spotify, ma debba necessariamente relazionarsi alle nuove tecnologie, al business, all’economia, alla cultura in senso più ampio, ai nuovi media, alle nuove arti visive. Tutto oggi è musica, e tutta la musica oggi può far parte di ogni altro business. Se il musicista italiano sarà capace di alzare lo sguardo dalla tastiera del proprio strumento, sarà allora capace di vivere i nostri tempi da protagonista, per altro con la potenzialità di superare, e di molto, il livello di tanti altri colleghi nel mondo, perché la creatività, lo spirito musicale e la cultura artistica italiani sono francamente sconfinati».
Gianluca, ti ringrazio a nome di theWise per averci concesso il tuo tempo, e buon proseguimento con i tuoi progetti!
«Grazie a voi!»