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Song to Song: l’intima ricerca di Terrence Malick

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Anastasia Piperno

Il cinema di Malick

Il percorso di Terrence Malick ha incontrato, nel corso degli anni, ripensamenti e ritrattazioni, come anche una costante divisione di pubblico. Singolare è come, all’età di settantatré anni, il regista non abbia ancora smesso di sperimentare, senza mai arrestarsi – in meglio o peggio che sia – a una tappa ultima e definitiva. Non rinuncia, nondimeno, ad alcuni punti cardine, che caratterizzano tutta la sua opera cinematografica e che si sono presentati sin dal lungometraggio di esordio, Badlands (1973), attraverso il quale Malick si impose subito sulla scena come un autore che sapeva il fatto suo. La formazione universitaria, segnata da una laurea in Filosofia ad Harvard, ritorna anche nella sua arte, e si trasferisce sempre nella grande potenza delle immagini, più che in raffinati dialoghi intellettuali alla maniera di Éric Rohmer. Nel cinema di Malick si parla poco, e si dice con naturalezza l’essenziale, comunicato sempre in tono sommesso e in un’intima disposizione da una voce narrante che di volta in volta è il punto di vista di un personaggio. Sin dai ragazzi ricercati e in fuga di Badlands, passando ad esempio per l’eterea madre in lutto di The Tree of Life (2011), i suoi personaggi devono fronteggiare i propri dubbi, il proprio estraniamento, il proprio dolore in una solitudine mai del tutto eliminabile – nonostante il grandissimo valore dato al contatto umano, sempre con vette liriche. Il sentimento umano si distende e si amplifica negli immancabili paesaggi, nel rapporto con la natura, spesso indifferente ai singoli drammi dell’individuo, in uno scontro, ad esempio, tra la quieta bellezza delle campagne di Days of Heaven (1978), secondo lungometraggio del regista, e i conflitti di una situazione umana singola, circostanziale. Nei paesaggi naturali echeggiano allora i problemi umani: si tratta talvolta di una domanda della voce narrante, di un’affermazione che abita nell’interiorità del personaggio coinvolto e – di riflesso – anche nelle immagini. Tutto ciò fa in modo che la potenza di queste ultime possa essere decantata secondo una direzione meditativa mai troppo specificata, generale e allo stesso tempo diretta, per far sì che lo spettatore possa sentire su di sé – secondo la sua sensibilità – le variazioni.

Le immagini malickiane non portano un contenuto da razionalizzare in toto, ma colpiscono in quanto si rivestono di un’evocazione di bellezza indefinita. Così anche i suoi personaggi, punto talvolta criticato dai detrattori del regista, più che essere personalità analizzate razionalmente al microscopio si adeguano al tessuto fluttuante del suo cinema. Il suo non raro impulso al trascendente, si dice, sembra sacrificare la complessità psicologica e il contesto particolareggiato di una persona immersa nel mondo. Con Malick, insomma, molto è da rivedere secondo la sua particolare cifra stilistica, che veicola in modo non convenzionale molto di più di quello che sembra. Se, in altri tipi di cinema, il personaggio è definito prima nel suo contesto particolare e solo in seguito consente che si penetri il suo nucleo intimo e privato, qui il procedimento è inverso. I personaggi di Malick vagano appunto per l’ambiente circostante – il che allude anche a un vagare della loro anima in un processo di ricerca di tipo intuitivo ed emotivo (esemplare in questo senso The Tree of Life) – e la loro percezione condiziona anche la maniera in cui gli altri sono figurati: ciò che Malick si cura di rappresentare è una loro essenza, una personale risonanza, quello che altri chiamerebbero un non so che, sublimandola anche in correlazione con la loro interazione con una natura verso cui ritornare, lasciando che essa doni i momenti più soavi e profondi della loro vita.

Song to Song

Song to Song è il suo ultimo film nelle sale, nonostante sia stato girato insieme a Knight of Cups nel 2012. Lasciando spesso traccia della sua fede cristiana, il titolo contiene già dei riferimenti alla Bibbia. Il collegamento con la cosiddetta Song of Songs (il Cantico dei Cantici) è facile ed evidente, in quanto è un testo che intende celebrare l’amore tra due innamorati, concentrandosi sull’aspetto sensuale ed erotico. Infatti si esaltano le singole parti del corpo perché sublimi, ma non si tratta di una semplice e mutua contemplazione, bensì di una bellezza esaltata dal desiderio sessuale. Entrambi gli amanti non esitano né a lodarsi reciprocamente né a unirsi, per poi perdersi e cercarsi. Lo smarrimento dell’amante, il bisogno di ritrovarlo si esplica nel ritornello: «Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato / l’amato del mio cuore; / l’ho cercato, ma non l’ho trovato» (Ct 3,1); e questo trovarsi, separarsi e poi cercarsi, che sia nella memoria o nella ricongiunzione fisica, è altrettanto costante in Song to Song. Proprio questo titolo, modificato rispetto alla fonte originale, suggerisce un processo di ricerca più difficoltoso e precario, che nell’età moderna si carica di un disorientamento più profondo, esitante. I personaggi del film, specialmente Faye (Rooney Mara), sono confusi da mille stimoli dei sensi, il cui inseguimento talvolta può portare a fatali errori, a calpestare un rapporto che poteva essere ciò di cui più si aveva bisogno per vivere una «vita vera», come viene affermato. Quest’ultimo concetto è inizialmente oscuro, traviato da cattivi maestri, ripetutamente confuso rispetto alle sue mille proposizioni che la scena sociale circostante offre in maniera ammaliante. Non a caso, il titolo pensato precedentemente per il film era Weightless, che riprende una citazione di Virginia Woolf: «How can I proceed now, I said, without a self, weightless and visionless, through a world weightless, without illusion?».

Un movimento incessante

L’assenza di un forte senso d’identità è evidente nell’oscillare di Faye di qua e di là, sia nell’ambito professionale che in quello personale. Facendo l’agente immobiliare si sposta di casa in casa, mostra future abitazioni, consiglia e direziona i propri clienti, ma allo stesso tempo è una donna sradicata. Ha lasciato il nido familiare, con una rottura non soltanto fattuale ma anche ideale, andando alla ricerca di uno stile di vita drasticamente diverso. Nella sua vita indipendente e adulta non sembra risiedere definitivamente in un luogo fisico, e rifugge in maniera masochistica dal calore di una situazione intima che possa dare origine a nuove fondamenta, cioè la sua storia d’amore decisiva con BV (Ryan Gosling), musicista che conosce durante una festa. Faye è unita a BV nelle proprie aspirazioni, infatti vorrebbe intraprendere una buona carriera musicale, e vaga per Austin – luogo importante, vivo e ricco per la musica americana indipendente – in cerca di un’occasione. Anche Malick vaga insieme ai suoi attori, fino al punto di offrire talvolta delle scene di taglio documentaristico, dove noti artisti – come Iggy Pop e Patti Smith – parlano ai protagonisti, dicendo qualcosa di sé e della loro esperienza professionale.

Faye sembra tastare il territorio in attesa che alcune orme la invitino da sé a seguire un determinato percorso. L’assenza di una precisa meta diventa una filosofia di vita, alla ricerca di una libertà il più possibile pura, associata a poche costruzioni, sensuale, senza regole (il primo titolo del film era Lawless), facendo delle pulsioni dei sensi la propria guida. Faye non conosce bene sé stessa, ma non può che avvertire i propri desideri alla superficie e farsi guidare da essi. Questi, però, a tratti sono deliberatamente autodistruttivi, un po’ come il procedere volutamente in tondo del film. I movimenti di macchina comunicano un incessante dinamismo, irrequieto come la sua protagonista, ondeggiante, talvolta invece volutamente stagnante, accompagnato da una nota più cupa. Il montaggio di lunga lavorazione operato da Malick – il film senza tagli è di ben otto ore – fa sì che il risultato finale sia il collage di una sinfonia corale, frammentato come la stessa dispersione sondata. Come i suoi personaggi si muovono «di canzone in canzone, di bacio in bacio», così il regista monta le proprie scene in una successione non legata a una prosecuzione narrativa lineare, ma preoccupata di trovare visualmente un raccordo armonico, un’analogia tematica e sensitiva, tant’è che in alcune sezioni del film sembra che si proceda secondo «le intermittenze del cuore», scombinando anche i piani temporali e mostrando il processo di ricerca non più soltanto nell’azione dei personaggi all’interno del loro presente (mai stabilito del tutto), ma anche nel loro scrutarsi dentro, scoperchiando memorie.

Piste giuste e piste devianti

La ricerca della libertà è fomentata da individui che attraverso il proprio comportamento e stile di vita sembrano incarnarla in maniera misteriosa, irraggiungibile e allo stesso tempo controversa. Faye, ad esempio, trova una possibile rampa di lancio nella figura del produttore discografico Cook (Michael Fassbender). L’unica indicazione specifica data da Malick per il personaggio di Fassbender è stata che l’attore riproponesse Satana di Paradise Lost di John Milton. I parallelismi nella storia sono altrettanto evidenti.

Cook, infatti, appare sempre con un modo di fare carismatico, sguaiato, spesso impegnato a «fare del teatro» (come dirà poi BV in modo dispregiativo), correndo ovunque, facendo del proprio volto e del proprio corpo qualcosa di estremamente malleabile. Si vede, questo, per come intrattiene in maniera fanciullesca – attraverso mille smorfie e un approccio fisico con gli altri molto disinvolto – ma anche per il modo in cui pratica un’attività sessuale promiscua, perlopiù dedita al placare scriteriatamente un vuoto interiore, incurante di ripercussioni sentimentali. Si sottolinea sempre il punto d’arrivo cui sembra essere giunto il personaggio rispetto ai desideri degli altri due, ossia la volontà di compiacerlo, perché la chiave del successo che sembra possedere possa riflettersi o trasferirsi anche negli altri. Come il Satana di Milton, Cook è pieno di sé, spadroneggia, rifiuta la realtà così com’è; lo fa per istituire un proprio mondo, che dietro i lustri rivela grande solitudine e decadenza morale. Vuole che chi ricade sotto la sua ala d’influenza si mantenga in una posizione sottilmente subordinata e di debito, vuole che la loro identità sia disvelata a lui perché lui possa insinuarsi meglio in loro. E – come Satana, di nuovo – Cook è oggetto di ammirazione: si segue la sua pista, si cerca di essere parte del suo show. Da qui la vita libera, vagabonda di Faye, BV e Cook, con un fare un po’ sbarazzino e giocoso. Il cinema di Malick molto spesso mostra la spensieratezza dei propri personaggi, l’idillio di un rapporto attraverso scene di gioco in un contesto libero, che sia quello della natura incontaminata o, come in questo caso, quello di un equilibrio a tre non ancora rotto e vagante di paesaggio in paesaggio, non di rado isolato.

Si sogna di poter vivere come Cook, ma la sua influenza è corruttrice: ben presto, ciò che sembrava un’offerta dorata diventa un cumulo putrescente. Il senso di disagio e di corrosione interiore – senso che si prova in seguito al contatto prolungato con Cook – si diffonde in tutti i personaggi che lo toccano, come se fosse una malattia, e fa deteriorare i loro rapporti, ciò che c’era di buono, di sacro nella visione malickiana. Il volto di Rooney Mara, il suo vagare nel lussuoso appartamento di Cook – minimalista, inospitale quanto lui e futile quanto la scena sociale di cui egli si circonda (in riferimento alla piscina, punto attrattivo di vari party, è lo stesso Cook a dire: «tutto questo non è niente») – si caricano sempre più di ombre, di espressioni opposte al senso di comfort. Sembra riproporsi il triangolo di Days of Heaven: due innamorati di un livello sociale simile, Abby e Bill, interagiscono con un uomo facoltoso e imperioso, da cui possono trarre vantaggi economici, ma, dopo un equilibrio mantenuto stentatamente grazie all’ignoranza dei veri legami intercorrenti da parte di uno dei personaggi, l’idillio amoroso è turbato. Come Abby, Faye si trova presto a dividere il proprio corpo tra Cook e BV, tra il desiderio di ascesa professionale – attraverso la concessione di sé a una persona potenzialmente influente per il proprio percorso – e un legame sentimentale sincero, ma che va protetto dallo squallore degli atti di lei. Faye sa dov’è riposto veramente il suo cuore, e così anche la sua anima, la sua essenza più profonda, dove le corde toccate da BV trovano una risonanza inedita e unica. Tuttavia – come accade spesso – la conoscenza di una verità riguardo a sé stessi, pur in tutta la sua importanza e profondità, arriva soltanto per gradi, in seguito a un percorso di disparate avventure in cui i sentimenti provati non possono che essere paragonati a quelli del passato. In questo modo si può fare chiarezza attraverso l’esperienza diretta, e così si comprende cosa si vuole davvero e soprattutto cosa non si vuole più.

Gli amanti di Song to Song, quindi, procedono per tentativi ed errori, e tra questi gli interventi sporadici di Patti Smith si inseriscono come testimonianza di una vita ben più lunga di quella dei protagonisti, temprata dagli scogli incontrati, salda e certa nell’amore per il marito defunto, di cui la donna porta ancora la fede, perché lui non ha mai smesso di essere il suo compagno. Tutto in lei, dalle mani inquadrate alla faccia – che, per contrasto rispetto alla pelle giovane di Rooney Mara, porta i segni dell’età – parla di un sapere da trasmettere, proprio nel luogo, Austin, che Faye ha deciso di ascoltare, alla ricerca della giusta pista. Ben presto anche il nido familiare in parte rinnegato diverrà, col tempo, non più qualcosa da cui affrancarsi in un gesto di liberazione, ma un insieme di figure a cui chiedere perdono dopo aver aperto gli occhi su ciò che conta davvero. Il motivo del ritorno dai genitori ricorre non solo in Faye, ma anche in BV e nel personaggio di Rhonda (Natalie Portman), che sarà la moglie di Cook. Quest’ultimo caso è particolarmente importante: il ritorno di Rhonda dai genitori, infatti, si carica di una richiesta disperata che il sacro ritorni nella propria vita, portando valori come la dignità morale, l’affetto sincero e il rispetto reciproco, e che restituisca la luce dopo una discesa negli inferi, ossia nel regno di Cook-Satana. Ed ecco che, per la casa di Cook, rimbomba – quasi didascalico – un canto corale grave. Questo brano, tratto dall’Atto III di Theodora di Handel, sottolinea l’aver toccato il fondo, così come le ripercussioni dei propri atti che sempre, prima o poi, richiamano una vita che si pretende libera da ogni costrizione a fare i conti con il peso delle vite altrui, e – volenti o nolenti – a prendersi le proprie responsabilità. L’atto del calpestare, dell’infangare, del rovinare è la tonalità più angosciosa di questo percorso errabondo a più voci. Il senso di colpa che sempre turba la purezza di un gesto affettivo, sensuale, la contemplazione di un volto che si carica di una storia sentimentale: queste sono le note ricorrenti che permeano il lato inquieto del film.

Di corpo in corpo

Malick, nonostante i riferimenti e sottotesti cristiani presenti, qui si ancora alla concretezza delle qualità e delle vite umane, come anticipato dai riferimenti del titolo. Cerca la bellezza dei corpi, e attraverso di essi la bellezza dell’amore. Non a caso il suo stile registico, unito alla cinematografia immancabile e sempre sopraffina di Lubezki (che curò anche la fotografia di Gravity) si concentra su continui close-up dei corpi dei propri attori, sul loro volto, sulle loro mani, e come questi si toccano, si esplorano vicendevolmente. L’atto cinematografico di contemplare corpi che si toccano attraverso un gesto affettivo, come in uno stato di grazia, è una costante dell’autore. La ricerca del bello è talmente marcata che persino la vita piena di vuoto e stridore di Cook ne viene toccata. Un punto fondamentale nel modo di operare tipico del regista è che, durante le riprese, la sceneggiatura da seguire non solo è estremamente vaga, sommaria, ma non è nemmeno vincolante: gli attori sono chiamati a girare per ore e ore secondo la ricerca perfezionista – e sfiancante – di Malick, con l’indicazione di improvvisare secondo ciò che sentono come più adeguato, e soprattutto spontaneo. Da sempre, infatti, la preoccupazione principale del regista è che sia bandito il posing – Fassbender sul set fu anche rimproverato per questo – e che sia semmai incoraggiato un donarsi genuino da parte dei performer. Considerando inoltre il montaggio, che trasferisce il processo di ricerca dell’attore e poi del personaggio, si comprende come lo stesso film faccia del vagare tra corpi umani alla ricerca della giusta via non soltanto il suo oggetto, ma anche il suo modo stilistico. Com’è naturale per uno stile che abbraccia il divenire del suo oggetto, il flusso di immagini porta con sé congiunzioni più suggestive di altre, momenti di indiscussa armonia e bellezza e momenti apparentemente minori o non necessari, ma inclusi poiché sembravano un naturale passaggio, di accordo in accordo. Lo stile sperimentale di Malick potrà anche collezionare vari dissensi, ma procede nel proprio percorso a dispetto di essi e ne è poco interessato. Sarà indubbiamente interessante, conclusa ora la trilogia ideale costituita da To The Wonder, Knight of Cups e Song to Song, sapere come sarà il prossimo e incombente Radegund (2017), per il quale Malick abbandonerà la tecnica d’improvvisazione cui aveva ormai abituato il suo pubblico.

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