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Salone Internazionale del Libro di Torino: storia di un successo disarmante

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Michele Da Re

La notizia è che la 30° edizione del Salone del Libro di Torino è stata un successo. Con oltre 160.000 biglietti venduti, infatti, si può parlare di una decisa crescita rispetto all’anno scorso. Davanti all’ingresso del Lingotto, del resto, si sono viste lunghe code, mentre all’interno gruppi entusiasti di tutte le età hanno affollato gli stand e presenziato ai vari incontri.

Questo successo scrive un altro capitolo della contesa che ha animato, nell’ultimo anno, il mondo editoriale italiano. Un anno fa, infatti, la Fondazione che organizza il Salone veniva colpita da una grave accusa di turbativa d’asta. Quasi contemporaneamente Mondadori e Rizzoli, i due più grandi gruppi editoriali italiani, hanno cercato di cancellare l’evento e di crearne uno analogo a Milano: il tutto immerso nell’ambiguo comportamento della neonata giunta Appendino. La vicenda risveglia subito un certo campanilismo tra le due città, in cui si possono scorgere anche metafore per l’evoluzione recente dell’industria del libro: Milano, la grande città moderna ed efficiente, e Torino, tranquilla, culturale e a misura d’uomo. Finisce che gli eventi si fanno entrambi: Tempo di Libri si è tenuta a fine aprile a Rho, registrando un mite successo, mentre il Salone, arrivato un mese dopo, a quanto pare ha sbancato.

Chiedersi a cosa serva un Salone del Libro, certo, è bell’esercizio intellettuale. La locandina, disegnata da Gipi, è un trionfo del luogo comune: un libro gigante sormonta un filo spinato, e sopra di esso una ragazza guarda l’orizzonte. Discorsi appassionati sul potere della lettura, insomma, e via dicendo. Titolo: “Oltre il confine”. Così, con una fava, prendiamo due piccioni: l’elezione di Trump e il tema dei migranti. All’interno del Salone campeggiano arroganti gli enormi stand Newton Compton, Feltrinelli e Giunti, una copia delle loro librerie. Sono invece una gioia per gli occhi quelli dei piccoli e medi editori: Iperborea, Minimum Fax, Marcos y Marcos, Sellerio, Marsilio tra gli altri. Vari stand, naturalmente, per le case editrici di fumetti e graphic novel, ma alcuni anche per certe oscure case editrici di romanzi fantasy, che lasciano intravedere un mondo underground di appassionati. Appena ci si fa caso, certo, l’assenza di Mondadori, Einaudi e Adelphi si sente, ed è pesante: eppure, probabilmente, essa ha finito per cedere visibilità alle piccole case editrici. Un consorzio di librerie indipendenti torinesi, invece, gestisce un grande spazio centrale, dove campeggia l’unica grande trovata scenografica del Salone: una torre di libri con pavimento a specchio, molto bella a vedersi e perfetta per le foto da mettere su Instagram.

Qua e là, di tanto in tanto, agli occhi dei visitatori si presentano cose e avvenimenti curiosi:

  • La casa editrice vaticana, che tra le altre cose pubblica I messaggi del Papa su Twitter (opera in sei volumi);
  • Un grande stand per i massoni, bianco-trasparente con vetrate allegoriche. Un loro opuscolo recita: «Un incontro [tra il Salone e la Gran Loggia, N.d.R.] ormai tradizionale. A conferma di una visibilità e trasparenza, […] al precipuo fine di fare cessare […] quell’aura di mistero e di segretezza che, incredibilmente, continua tuttora ad avvolgere la sua esistenza»;
  • Commenti Memorabili, in prima fila allo stand Panini, che presenta la sua agenda e invita a partecipare ad una gara “al miglior commento”;
  • Vari stand che non si capisce bene cosa ci facciano lì: Salmoiraghi & Viganò, Polizia di Stato, persino uno stand che vende attestati di azioni bancarie d’epoca. Tutto fa brodo.

Naturalmente, però, il vero fulcro del Salone sono gli incontri. Non solo scrittori, anzi: giornalisti, critici d’arte, politici, cantanti… Tutti passano per il Salone e tutti hanno qualcosa da dire. Roberto Saviano, dopo il suo incontro, si fa un giro per gli stand, portando ovunque con sé caos e ingorghi. Lo stesso fa Luis Sepùlveda, ma al suo passaggio molti – che fino a quel momento lo credevano morto – controllano Wikipedia per sicurezza. Il ministro Minniti arriva il elicottero (o, almeno, così sussurra lo staff) e viene poi contestato dai centri sociali. Philippe Daverio arriva, tronfio alla sua lectio magistralis, con uno spritz in mano: «Questa questione la lascio a Vittorio Sgarbi che viene dopo, che è molto più bravo di me» annuncia (seguito da un «Nooooo!» in coro proveniente dal pubblico). Jacopo Fo e Chiara Appendino, sindaco di Torino, tengono un incontro per ricordare il compianto Dario: «Nei suoi ultimi giorni, papà chiedeva sempre: ‘Che cosa ha fatto la Appendino oggi?’ e si divertiva. L’avete veramente aiutato, voi» dice Jacopo. La Appendino ride.

Insomma, il Salone è un allegro carosello di intellettuali che si compiacciono del loro seguito, per una volta. In più, quest’anno, il seguito e le folle sono tornate a crescere. Ma allora, in definitiva, a cosa si deve il riscatto del Salone di quest’anno? Non certo a un cambio di formula, che è rimasta pressoché immutata da trent’anni. Parte del successo viene, paradossalmente, dalla nascita del rivale milanese, che ha attizzato non solo rivalità campanilistiche ma anche rivalità tra piccoli editori e grandi colossi. Certamente questo Salone segna un punto per la giunta grillina, che può vantarlo come un suo successo. È un vanto anche per una parte del mondo culturale italiano, ossia per quella parte che da sempre vive male l’egemonia di Mondadori e dei grandi gruppi.

In tutte queste rivalità e lotte, però, dove finisce la letteratura? Qual è lo stato di vita di quella che – più di tutte le arti – oggi è oggetto delle logiche del mercato? Saremmo tentati di trarre un bilancio cinico: il Salone è, del resto, solo la grande vetrina dove la cultura italiana mainstream ama specchiarsi. Eppure la letteratura c’è: ci sono tanti libri. Tra questi, poi, c’è sicuramente tantissima carta straccia, ma al contempo anche tante perle, che resteranno sempre nascoste ma che al Salone sono più facili da trovare che altrove.

Si ringraziano per le foto e per gli aneddoti sul Salone Martina Raule, Antonio Appierto, Alessandro Maurizio e Marco Zordan.

L’articolo completo è disponibile sul nostro magazine alle pagine 28-29.

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Michele Da Re

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