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Buste(d): come la spesa sta cambiando pelle

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Claudia Delicato

Buste biodegradabili e vermi ghiotti di plastica: ecco ciò che si devono aspettare i consumatori europei per gli shopper usa e getta.

Può capitare in certi paesi, specialmente del Centro America, che, quando chiedete una cola o un succo di frutta, i prodotti richiesti vi vengano proposti in una busta di plastica: un forellino dal quale succhiare – o una cannuccia incastrata nel nodo dei manici – et voilà, potete godervi la vostra bevanda sotto il sole. Nel caso questo vi sembri un inutile spreco di plastica, provate a dirlo a un abitante del luogo: vi guarderà con compassione facendovi notare come le bottigliette ne sprechino molta di più. Discorso complesso, in cui si deve tenere in considerazione anche il tipo di plastica usata per entrambi i prodotti. Comunque, anche le statistiche ci dicono che i sacchetti di plastica sono il “male minore”: infatti, le buste in plastica costituiscono solo il 18% del totale dei rifiuti della plastica, materiale che a sua volta costituisce il 18% dei rifiuti domestici totali. Facendo quindi un rapido calcolo, le buste in plastica rappresentano solamente il 3.2% dei rifiuti complessivi.

Foto: Icegreen.

«Life in plastic, it’s fantastic» (?)

Questo non per giustificare l’uso delle buste di plastica, anzi. Come esseri umani sappiamo bene di creare troppi rifiuti, e tagliarne alcuni – dove possiamo – è un bene per il pianeta e per tutti i suoi abitanti. Ogni anno si utilizzano oltre un miliardo di buste di plastica, e solo l’1% di queste viene riciclato. Oltretutto, quasi ogni pezzo di plastica creato fino ad oggi dall’uomo è tutt’ora in circolazione: occorre tenere conto che una sola busta di plastica può richiedere fino a mille anni per la sua totale decomposizione nel suolo; in mare, invece, il processo è più breve, ma è proprio lì che viene riversata la più grande quantità di scarti. Difatti, in ciascun miglio quadrato di mare, galleggiano circa 46.000 pezzi di plastica, e le sole buste di plastica sono la causa, ogni anno, della morte di oltre 100.000 specie marine, cifra che sale ad oltre un milione se ci spostiamo al soprassuolo, parlando di uccelli.

Ogni anno creiamo tanta plastica da poterci fare una pellicola che ricoprirerebbe lo stato del Texas: quantità che, per di più, aumenta del 9% ogni anno che passa. Con tutta la plastica buttata, sempre in tale lasso di tempo, potremmo percorrere la circonferenza della Terra non una, non due, ma ben quattro volte. Infine, teniamo a mente che l’8% della produzione petrolifera annuale viene utilizzata nella manifattura (includendo quindi produzione di buste di plastica): comprare più prodotti a base di petrolio significherebbe anche far contento Trump, il quale ha recentemente annunciato, attraverso una riunione Opec, l’intenzione di vendere 344 milioni di barili di petrolio delle scorte strategiche statunitensi – di fatto dimezzandole – e poter così giustificare i piani di espansione petrolifera attorno alle coste dell’Artico. Atteggiamento d’oltreoceano che sembra (o così si spera) andare controcorrente rispetto alle attuali politiche ambientali europee, dove, ad esempio, la lotta agli shopper che non siano in bioplastica prosegue con fervore.

Le normative europee

In Italia tutto iniziò con una legge pubblicata nel tardo 2006: una legge che prevedeva, a partire dal 1° gennaio 2010, l’abolizione dei sacchetti di plastica (se non biodegradabili) per l’asporto dagli esercizi commerciali. Questa nuova soluzione, che spesso impone il pagamento di tali nuove buste al consumatore, non piacque a molti. Problemi di adattamento possono riguardare, oltre al costo, anche lo strano odore che queste buste emanano (il quale ricorda quello del gas) o la loro scarsa resistenza: si pensi a quanto spesso, essendosi perforato il fondo del sacchetto, si debba notare con frustrazione le orecchiette Barilla che spuntano, o le due bottiglie di Estathé che non incontrano alcuna difficoltà a squarciare il sacchetto e a rotolare giù per le scale. Oltretutto, la gamma di borse riutilizzabili è così ampia e accattivante che utilizzarle non è più solo una questione di praticità o un obbligo sociale (per evitare le occhiatacce della vecchietta col carrello, strumento che mai come ora invidiate): anzi, sono ormai state in grado di diventare oggetto di tendenza.

Ma l’Europa sembra voler fare di più. Una nuova normativa europea prevede infatti un limite di utilizzo procapite per le buste di plastica leggere (ossia il cui peso sia inferiore ai 50 micron): un limite che ammonterà a 90 dal 2019 e a 40 dal 2025 in poi. Inoltre, per i pochi esercizi che ancora lo facessero, il dispensamento gratuito di tali buste sarà bandito totalmente dal 2019. L’obiettivo è quello di ridurre l’utilizzo delle buste di plastica del 50% entro il 2017 e dell’80% per il 2019. Sogno ultimo dell’Unione Europea è quello di eliminare ogni tipo di shopper che non sia biodegradabile o di carta riciclata. Sforzi che sembrano dare già frutti nel vecchio continente. Un articolo del Guardian del novembre 2016 riporta come il numero delle buste di plastica trovate sulle coste inglesi dalla Marine Conservation Society si sia ridotto del 40% rispetto all’anno precedente. I membri dell’associazione hanno raccolto in tale mese una media di 7 buste di plastica ogni 100 metri, a differenza delle 11 dell’anno prima: la cifra più bassa da 10 anni a questa parte.

Prevenire o curare?

Decretare da cosa sia scaturito cosa non è sempre così immediato. Specialmente nei temi di salvaguardia dell’ambiente ci sono due tendenze presenti, binarie o sovrapposte: preventiva da un lato e correttiva dall’altro. Facciamo un esempio semplice, e dato che siamo vicini all’estate parliamo della tanto temuta prova costume. Diciamo che vogliamo perdere quei famosi tre chiletti, ma che, allo stesso tempo, ci è davvero difficile dire di no alle tavolette di cioccolato Milka. Decidiamo di metterci d’impegno e fare una spesa salutare, ma al supermercato abbiamo l’incredibile tentazione di comprare comunque la cioccolata, per quando la dieta sarà finita, in caso. Ci ripromettiamo che resisteremo, ma che fare nel caso in cui di notte ci recassimo di soppiatto alla dispensa e finissimo la cioccolata in due morsi? Secondo queste teorie possiamo comportarci in due modi: secondo la teoria preventiva, scordatevi la cioccolata. Come si dice, lontano dagli occhi, lontano dal cuore, così da essere sicuri che non la mangeremo. La teoria correttiva, invece, ce la farebbe comprare comunque, poiché nel caso cedessimo alla tentazione potremmo rimediare con più attività fisica o con il saltare un pasto.

I governi europei prevengono e curano

Nel caso delle normative europee, l’atteggiamento è un po’ misto: da una parte, l’eliminazione delle buste in plastica è un comportamento preventivo, volto a sradicare il problema alla radice; dall’altro, l’introduzione di un’alternativa, quella delle buste biodegradabili, è un’azione di correzione, perché, nonostante le piccole molestie sopracitate, ci garantisce di poter continuare la nostra spesa con metodi molto analoghi a quelli antecedenti la riforma. Tra le metodologie correttive c’è anche, ovviamente, l’utilizzo del denaro, come possiamo notare in una vicenda datata quindici anni fa in Irlanda. Nel 2002, infatti, il governo irlandese impose una tassa sui sacchetti di plastica di 15 centesimi. L’effetto fu immediato e sorprendente: sin dalle prime settimane, l’utilizzo delle buste crollò del 94%, portando il consumo di shopper usa e getta nel paese da 1,2 miliardi a 200 milioni. L’uso delle buste non fu vietato: fu solo penalizzato.

Una ghiotta scoperta

Un’altra insolita tecnica di correzione è nostrana e recente, perché proprio quest’anno la biologa italiana Federica Bertocchini ha scoperto un tipo di bruco capace di mangiare il polietilene (PE), ovvero la plastica più utilizzata  (quella delle comuni buste di plastica, tra le altre cose). Il verme in questione è la larva della Galleria mellonella, detta anche ‘tarma maggiore della cera’ perché ghiotta di favi. La scoperta avvenne per caso mentre la Bertocchini si stava sbarazzando di tali larve, le quali stavano danneggiando il suo alveare in casa: in poche ore, le tarme raccolte nei sacchetti di plastica avevano già trovato una via di fuga attraverso buchi creati da loro stesse.

Credits: CSIC Communications Department/PA

La grande innovazione della scoperta sarebbe nel capire quale sia l’enzima che rende capace alla larva di metabolizzare il PE e poterlo eventualmente ricreare in laboratorio. Per di più, le performance di questi mini centri di smaltimento viventi sono altamente competitive: una larva è infatti capace di distruggere attorno ai 0,25 milligrammi di PE per centimetro quadro al giorno. Prospettiva molto allettante, che ci permetterebbe di continuare a produrre e utilizzare il PE. Tuttavia c’è anche una preoccupazione che ne deriva: più larve ci sono, più favi (e quindi più api) sono in pericolo: per capire quanto sia fondamentale tale questione è sufficiente citare questo studio, condotto da Greenpeace, sull’importanza delle api.

I privati prevengono

Se volessimo, invece, considerare azioni di prevenzione, potremmo spostarci nuovamente oltremanica, dove troviamo un’iniziativa proposta da Tesco UK, il quale afferma di voler eliminare totalmente l’offerta di buste di plastica usa e getta da 5 pence. Decisione alquanto innovativa, che sarà effettuata difatti soltanto in certi negozi selezionati di Aberdeen, Dundee e Norwich. Non si parla di centri iper-urbani come Londra, e oltretutto mancano di un turismo intenso, ma Aberdeen è comunque la terza città per numero della Scozia, e Dundee e Norwich non sono tanto più piccole. Non possiamo dire con certezza se a Tesco stia davvero così a cuore la questione ambientale, o se invece l’azienda sia stata più colpita dal netto calo di utilizzo delle buste di plastica, sceso dell’85% nei soli primi sei mesi dall’introduzione del costo di 5 pence sui sacchetti nel 2015. Bandire i sacchetti, quindi, contribuirebbe a eliminare una spesa quasi inutile, oltre a garantire una ripulita d’immagine all’azienda: two birds, one stone.

Credits: Martin Godwin per il Guardian

Tesco non è il primo a pensare soluzioni del genere, poiché nel Regno Unito, come in Italia, Francia o Belgio, stanno recentemente spopolando i cosiddetti “negozi alla spina”, dove barattoli, buste e bottiglie – tutto portato da casa – sono imperativi per l’acquisto, e molti prodotti, dai ceci secchi al detersivo, vengono pagati al peso. Così facendo si migliora anche sul versante packaging, tema non meno complesso. Anche grandi catene di distribuzione organizzata stanno adottando tali soluzioni per certi articoli, come saponi per il bucato, cereali o mangimi per animali. Resta da capire il successo di tali iniziative.

Credits: Display Italia

Il problema è solo qui?

Correzione o prevenzione, questo è il dilemma: ma che sia correttiva o preventiva, la normativa Europea si sta facendo sempre più severa riguardo il tema delle buste di plastica, investendoci considerevoli energie e attenzioni. E perché tanto accanimento? Forse perché, come scrive Monbiot nel suo blog, è una maniera semplice – sia per i produttori che per i consumatori – per sentirsi a posto con la coscienza, invece di focalizzarsi su temi ambientali più importanti? Potrebbe essere, ma non per questo i provvedimenti sulle buste di plastica sono meno meritevoli. Ci piace pensare che l’Europa, soltanto per un po’ di cioccolata, non voglia correre il rischio di correre un’ora in più.

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Claudia Delicato

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