Il fenomeno del terrorismo islamico è diventato di forte attualità nel settembre del 2001, immediatamente dopo gli attentati delle Torri Gemelle e del Pentagono. Prima di poter analizzare debitamente il fenomeno è necessario scindere le due componenti che lo formano: da un lato il terrorismo, dall’altro il fondamentalismo islamico, ovvero il gruppo di ideologie a cui i gruppi coinvolti in questo fenomeno si rifanno per accogliere nuovi adepti e trovare uno scopo per combattere.
Il terrorismo è una tattica militare che contempla azioni singole le quali si pongono l’obiettivo di impressionare l’opinione pubblica instillandovi sentimenti quali paura e timore, minandone la capacità di discernimento della realtà e alterando quindi le scelte dei legislatori. L’obiettivo ultimo di un attacco terroristico, dunque, non è tanto la popolazione civile quanto la sua capacità di razionalizzare l’accaduto e di maturare una risposta seria (in questo caso) alle politiche integrative. Nel caso in esame, l’obiettivo è quello di favorire la chiusura e la separazione delle società europee, nella speranza che queste perdano completamente la capacità di assorbire e integrare gli immigrati, che trovandosi tagliati fuori dal resto della società si rivolgono a forme alternative di socialità e di ricerca del senso di appartenenza, ovvero all’estremismo religioso. In buona sostanza, in una società come (ad esempio) quella francese che si dovesse ritrovare con una capacità di integrazione totalmente azzerata, nel medio-lungo periodo le varie organizzazioni terroristiche si troverebbero con 5-7 milioni di soldati a propria disposizione, con le ovvie conseguenze sul piano della stabilità.
Tale tattica militare viene spesso confusa con la guerriglia, che però presenta caratteristiche e obiettivi diversi: mentre le azioni del terrorismo cercano di passare un messaggio (ovvero quello del timore nei confronti dell’Islam e degli immigrati in generale o la sensazione di non essere più al sicuro nemmeno svolgendo normali attività quotidiane), quelle della guerriglia cercano di erodere le risorse sia materiali che umane dell’avversario, in modo da costringerlo alla resa nonostante la sproporzione di uomini e risorse. Proprio a causa della confusione che si fa tra queste due tattiche, molto spesso l’una viene scambiata per l’altra, e tale incomprensione viene sfruttata per fini propagandistici dalle potenze che appoggiano di volta in volta varie organizzazioni secondo la propria convenienza: coloro che per alcuni sono terroristi, per altri sono guerriglieri in difesa della libertà.
Per quanto concerne il fondamentalismo islamico, è necessario partire dalle origini dell’Islam, collocate nel VII secolo dopo Cristo. Nel 622 il profeta Maometto è costretto a fuggire dalla Mecca a causa delle persecuzioni da parte dei mercanti della tribù dei coreisciti (alla quale egli stesso appartiene), in quanto sta spargendo un nuovo messaggio divino ottenuto negli anni precedenti durante le sue trance mistiche. In seguito alla fuga dalla Mecca, Maometto ripara presso Yathrib (Medina), una città con una prevalenza di popolazione ebraica dove il profeta ha occasione di sedare diversi attriti tra le tribù e raccogliere nuovi alleati. Sfruttandone l’appoggio, Maometto iniziò a turbare il commercio dei suoi avversari con tattiche di guerriglia e attacchi rapidi alle carovane. Forte delle risorse ottenute sconfisse i suoi avversari presso Badr nel 624, ma l’anno successivo fu costretto a difendere Medina dall’assedio dei coreisciti: persino molti degli alleati decisero di denunciare il trattato con i musulmani e di rinchiudersi nelle proprie fortezze, ma la vittoria nella battaglia del fossato diede a Maometto la possibilità di punire i suoi avversari infedeli e di lanciarsi alla conquista della sua città natale quasi senza colpo ferire, data l’erosione del potere coreiscita. Grazie al conflitto, Maometto era diventato il padrone dell’area higiazena, e poteva ora portare l’Islam nel resto d’Arabia. Il fondamentalismo islamico si rifà fortemente a questa guerra, specie agli episodi della battaglia di Badr e della battaglia del fossato per giustificare le violenze contro altre persone e persino contro altri credenti musulmani.
A questo punto, tuttavia, è opportuno fare un piccolo passo indietro e cercare di capire come funziona l’Islam: in questa religione, al contrario del cristianesimo, la teologia praticamente non esiste. Non vi è quindi un esercizio di ragionamento sul messaggio della rivelazione inviato da Allah attraverso la bocca di Maometto e sul suo rapporto con la fede, in quanto un pensiero di questo tipo può essere concepito solo grazie a Dio attraverso l’invio di un profeta (e Maometto è l’ultimo di questi): l’essere umano da solo non è in grado di concepire la realtà soprannaturale di Dio, e anche solo il tentativo configura blasfemia. Gli unici tentativi di ragionare sugli attributi divini sono stati apportati dagli ulama, che però partivano sempre da basi giurisprudenziali.
Pertanto, laddove per il cristianesimo vi è la teologia, per l’Islam vi è la giurisprudenza. Come ogni corpo di leggi, anche quello islamico necessita in primo luogo di fonti: per i musulmani queste vengono distinte in quattro livelli: Corano, Sunna, Ijma e Qiyas. La prima e più importante è naturalmente il Corano, messaggio inviato da Allah e destinato ad ogni uomo sulla terra a prescindere dalla sua affiliazione religiosa. È diviso in 114 sure (che si distinguono tra sure “meccane” e “medinesi” a seconda di quando avvenne la rivelazione, ovvero se prima o dopo l’Egira), a loro volta divise in versetti, solo un decimo dei quali contiene delle prescrizioni giuridiche. Gran parte degli ulama fa giurisprudenza attraverso l’esegesi del testo anche sulle restanti, sebbene la maggior parte della materia giurisprudenziale risieda nelle sure medinesi, risalenti al periodo in cui Maometto aveva formato la umma (la comunità dei credenti musulmani) ed era diventato un leader politico.
Secondo livello di fonti è costituito dalla Sunna, il corpus di aneddoti (ahadith) sulla vita del profeta, raccolti dai suoi compagni e trasmessi oralmente attraverso i secoli grazie a una catena di “trasmettitori” degni di fede. Sulla base della “qualità” di tale catena i vari ahadith vengono suddivisi in “perfetti”, “belli” e “deboli”. La maggior parte delle catene di trasmissione degli ahadith parte da Aisha, la terza moglie del profeta, la quale visse ancora per molto tempo dopo la morte di Maometto (tra i due vi era grande disparità d’età, dal momento che alla consumazione del matrimonio lui aveva cinquant’anni e lei nove).
La mancanza di linearità degli ahadith, tuttavia, richiede l’intervento di altre due fonti: la prima di queste è l’Ijma (consenso della comunità), la cui validità deriva da un hadith in cui il profeta avrebbe asserito: «la mia Comunità non si troverà mai in accordo su un errore». Data la sua attualità (si basa su opinioni conferite al tempo corrente, e non su detti tramandati di generazione in generazione) è per certi aspetti superiore al Corano e alla Sunna, ma la difficoltà nell’identificazione ne diminuisce notevolmente la posizione gerarchica. Se v’era bisogno del consenso di un’intera comunità di studiosi, ecco che tale circostanza era facile da ottenere nel contesto medinese, ma lo divenne molto meno nel momento in cui nell’Islam iniziarono ad aprirsi degli scismi (primo fra tutti lo scisma tra Sunniti e Sciiti, poi i vari dissidi tra le scuole giuridiche dell’Islam). L’ultima fonte universalmente riconosciuta è il Qiyas, ragionamento analogico o sillogistico, che incorpora la deduzione per analogia a partire dalle fonti già menzionate. I metodi di applicazione e di interpretazione variano secondo le quattro principali scuole giuridiche: hanbaliti, malikiti, shafiiti e hanafiti.
Giunti a tal punto, appare drammaticamente ovvio come un sistema giuridico di questo tipo si imperni necessariamente sull’analogia con quanto avveniva nel passato. Tale circostanza si è notevolmente accentuata nel momento in cui, nel X secolo, il consenso comune tra i maggiori giuristi dell’epoca ha convenuto di chiudere la porta dell’interpretazione, reputando come non più valide le ulteriori interpretazioni del Corano e della Sunna che si sarebbero avute dopo quel momento. Nell’Islam vi è pertanto un meccanismo intrinseco di ritorno al passato, al riferimento alla Comunità originaria dei credenti presenta a Medina, che viene identificata come un’età dell’oro cui aspirare come modello perfetto; tale pensiero è notevolmente accentuato nelle ideologie cui si appoggiano i gruppi fondamentalisti (wahhabismo e tutte quelle originate dal salafismo) per legittimare la propria ideologia e le proprie azioni, in particolar modo la Jihad.
Jihad significa ‘sforzo teso verso uno scopo’, e si divide in piccola Jihad e grande Jihad: nel primo caso è lo sforzo nel mantenimento di uno stile di vita degno di un musulmano che si sviluppi nel rispetto dei precetti della fede islamica. La grande Jihad è invece il conflitto con i non musulmani da esercitarsi in caso di attacco personale (attacco di un’oasi o di una via carovaniera). Nella giurisprudenza islamica assume diverse valenze a seconda della scuola di cui si esamina il pensiero: se per alcuni è uno dei pilastri dell’Islam (insieme alla preghiera, l’elemosina, la professione di fede, il digiuno rituale e il pellegrinaggio), altri considerano come valida solo la piccola Jihad, in ossequio ai principi di non violenza verso le creature di Allah. I più ortodossi, tuttavia, considerano anche la grande Jihad in funzione offensiva come uno dei pilastri dell’Islam, e tra questi troviamo appunto le scuole ideologiche da cui provengono buona parte dei fondamentalisti.
Tali movimenti estremisti nacquero come risposta alla crisi valoriale e religiosa interna all’Islam e come reazione alla progressiva secolarizzazione dei paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. Tale secolarizzazione è dovuta solo in minima parte al contatto con l’occidente: il crollo dell’Impero Ottomano, favorito appunto dall’incapacità dello stesso di rinnovarsi e, come gli altri imperi europei, di sopravvivere alle istanze nazionaliste, ha creato un vuoto di potere che è stato riempito solo in determinati contesti dall’Islam (Arabia Saudita e Giordania), mentre Iran, Egitto, Turchia e altri hanno dato vita a regimi che tendevano alla secolarizzazione e prevedevano una forma di stato più moderna e più forte che imitasse gli stati nazionali westfaliani europei. La reazione a tale processo è stata la creazione dei movimenti fondamentalisti islamici, che si ponevano come obiettivo il ritorno alle origini, alla versione più pura della comunità islamica.
Se si esclude il ruolo giocato dai wahhabiti (la setta che faceva capo a quella che diventerà più tardi la famiglia reale saudita), che sfruttarono l’elemento religioso come grimaldello per far saltare la presenza ottomana nell’area della penisola araba, il primo gruppo fondamentalista è quello dei Fratelli Musulmani (Ikwan), fondato nel 1928 dal medico egiziano Hasan al Banna presso Ismailiyya. L’intento era quello di tutelare i lavoratori egiziani che lavoravano nei pressi del canale di Suez usando come linee guide quelle proposte dall’Islam ortodosso di solidarietà verso il prossimo e dell’altruismo. Già durante gli anni ’30 il movimenti iniziò ad allargarsi, acquisendo un peso rilevante all’interno della società egiziana del tempo. Il leader iniziò così a tracciare un ruolo politico più ampio rispetto a quello designato nei primi momenti di vita, che prevedeva di islamizzare la società egiziana dall’alto, con la semplice presenza all’interno del potere politico, e dal basso, attraverso l’attività di sostegno alle classi meno abbienti della società. L’espansione del movimento e la sua infiltrazione prosegue negli anni ’40 con l’affiliazione al partito Wafd.
La prima, severa battuta d’arresto del movimento arriva a cavallo tra anni ’50 e ’60. Il generale Gamal Abd al-Nasser non prende bene l’opposizione di Ikwan al suo programma di ammodernamento del paese. I Fratelli Musulmani vengono dichiarati fuorilegge, e gran parte della loro leadership viene condannata a morte. A fornire l’opportunità di rinascere sarà uno dei nemici storici del movimento, ovvero Israele. Dopo la vittoria di quest’ultimo nella Guerra dei Sei Giorni, infatti, la presa di Nasser sul paese cominciò pian piano a scivolare, dando occasione ai movimenti islamisti in Egitto di risorgere. A questo punto la lotta armata (a cui il movimento aveva rinunciato nel 1949, dopo l’assassinio del primo ministro al Nuqrashi) riprende con forza, e il movimento si spacca in due: da un lato i Fratelli Musulmani, che perseguono una via pacifica all’islamizzazione della società, e dall’altro coloro che inseguono gli ideali di Qutb (uno dei leader impiccati da Nasser), i quali daranno vita al Takfir-wa-al-Hijra. Questi ultimi uccideranno il presidente egiziano Anwar al Sadat, senza però che il regime crolli: il suo posto verrà preso da Hosni Mubarak, il quale avvierà una nuova stagione di repressione per i Fratelli Musulmani, i quali, in seguito alla fuga nei paesi limitrofi, fonderanno altre filiali di Ikwan, costruendo un network secondo una struttura che vedremo molte altre volte quando ci occuperemo di terrorismo islamico, specie se di impronta sunnita.
Nel frattempo, in un’altra parte del mondo, l’Unione Sovietica spese un decennio nel tentativo di occupare militarmente l’Afghanistan, ma fu contrastata da gruppi di guerriglieri di etnia Pashtun che lentamente dissanguarono l’esercito sovietico, costringendolo a battere in ritirata dopo dieci anni. Tra questi gruppi di guerriglieri (che si autodefinirono Mujaheddin, uomini impegnati nella Jihad) v’è anche Al Qaeda (il database, dal nome dei campi di addestramento che erano stati messi in piedi per addestrare i guerriglieri), che aveva proprie fonti di finanziamento nel Golfo Persico e riceveva aiuti solo marginali dagli Stati Uniti. Al termine del conflitto, i tentativi di creare un governo unito falliscono e la guerra civile si ripresenta, con i talebani (“gli studenti”, altra organizzazione di stampo fondamentalista che intendeva applicare la propria visione della shaaria su tutto il paese) e Al Qaeda da un lato, mentre dall’altro vi era un’alleanza composita di gruppi di etnia diversa comandati dal collonnello Massud. Dopo pochi mesi di conflitto appare già chiaro come gran parte del paese sia in mano ai qaedisti, mentre il nord del paese rimane in mano all’alleanza di Massud.
Al Qaeda inizia a questo punto a ramificarsi, e per tutti gli anni ’90 ottiene l’affiliazione di altri gruppi sparsi per l’area del Medio Oriente e del Nord Africa. Quando un gruppo coerente con la propria ideologia non esisteva in quel determinato contesto, allora Al Qaeda ne creava uno da zero (come accaduto con la resistenza irachena o nello Yemen con AQAP-Al Qaeda Arabian Peninsula). Oltre ad emergere dalle valli afghane, Al Qaeda colpisce per la prima volta l’occidente nel 1993, con un autobus-bomba al World Trade Center di New York che provoca sei morti e migliaia di feriti. A Riad, nel 1995, esplode un’autobomba di fronte a un edificio della Guardia reale saudita dove lavoravano anche diversi consiglieri militari americani. Nel 1998 due autobombe esplodono simultaneamente a Nairobi e Dar es Salaam, di fronte all’ambasciata americana.
A questo punto arriva l’attentato che ha portato il gioco a un altro livello: l’11 settembre 2001 due aerei di linea vengono dirottati e fatti schiantare sulle Torri Gemelle di New York, mentre un terzo si schianta sul pentagono e un quarto cade in Pennsylvania, probabilmente dopo una colluttazione tra l’equipaggio e i dirottatori. Il bilancio finale supera i tremila morti, e questo stimola l’amministrazione Bush a intervenire in Afghanistan spazzando via il regime talebano in pochi mesi, ma senza riuscire ad assicurarsi il completo controllo del paese, anche a causa degli interventi sconsiderati e della natura montuosa del territorio. L’11 settembre 2001 colpisce l’occidente in faccia come un diretto destro al mento sferrato durante un incontro di pugilato: la fine della storia proposta dai repubblicani americani non è mai stata tanto lontana, e con il sorgere di nuove potenze (Cina, Brasile, India, Russia) il mondo unipolare all’improvviso sembra non essere più una strategia. Gli Stati Uniti attaccano il Medio Oriente una seconda volta, in Iraq, alla ricerca delle armi chimiche di Saddam, che non verranno mai trovate.
Al Qaeda, nel frattempo, persegue la propria politica di attentati in occidente: l’11 marzo 2004, in Spagna, una serie di attentati a treni suburbani di Madrid provoca quasi 200 morti; il 7 luglio 2005 quattro kamikaze si fanno esplodere nella metro a Londra lasciando sul terreno oltre 50 morti. Le agenzie europee e di oltreoceano iniziano a coordinarsi, smantellando progressivamente la rete dei qaedisti in Europa: si inizia a comprendere molto meglio il fenomeno islamista, e ad infiltrare le comunità musulmane in Europa in modo da poter individuare in anticipo eventuali attentatori. In Medio Oriente, nel frattempo, sia in Iraq che in Afghanistan la resistenza prosegue, ma la guerriglia richiede grandi tributi da ambo le parti e progressivamente Al Qaeda inizia ad indebolirsi, perdendo il controllo, al termine degli anni Duemila, di gran parte della propria rete irachena, che più tardi andrà a costituire lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS). La caccia al leader della rete Osama bin Laden si conclude il 2 maggio del 2011, con l’uccisione dell’emiro presso Abbottabad, in Pakistan, ad opera di un reparto delle forze speciali. Per evitare idolatrie, il cadavere sarà gettato nel mezzo dell’oceano Indiano.
Con la morte di bin Laden, lo scettro del comando passò ad Al Zawahiri, medico egiziano proveniente da una famiglia di giureconsulti islamici. In Medio Oriente, nel frattempo, iniziano le prime avvisaglie delle primavere arabe, in cui sia i liberali che gli islamisti si rivoltano contro il potere costituito dai dittatori dei paesi arabi, che iniziano a cadere uno dopo l’altro come tessere del domino: gran parte delle rivolte sono coordinate tramite i social network, dove i rivoltosi ottengono le informazioni sul dove convergere per scontri, manifestazioni in corso e via dicendo. La situazione d’instabilità, tuttavia, finisce per creare ambienti fertili per il fondamentalismo islamico: nel 2011 l’ISIS riesce a porre sotto controllo una parte del territorio iracheno al confine con la Siria, dopo essersi impadronito di diversi mezzi corazzati dell’esercito di Baghdad. Da qui lancia un’offensiva dapprima su Mosul, poi una seconda volta a prendere il controllo di altri territori nella Siria ormai stravolta dalla guerra civile. Il 29 giugno 2014 Abu Al Baghdadi si proclama califfo e dichiara sorto un nuovo califfato islamico (la massima autorità politica islamica nella concezione sunnita del potere secolare).
Oggi lo Stato Islamico è in forte ritirata praticamente su tutti i fronti, con la capitale (Raqqa) e l’altra principale città (Mosul) ormai completamente assediate. Il terrorismo islamico, tuttavia, continua a mietere vittime anche in Europa, come avvenuto per l’attentato di Manchester del mese scorso, con attacchi messi in pratica da immigrati di prima, seconda o anche terza generazione: tutto ciò ad evidenziare la scarsa capacità di integrare al meglio le altre culture all’interno di quella autoctona. Gli individui, plagiati da un’ideologia perversa, si rivolgono a questa in quanto non riescono a trovare un posto nelle società europee, né tanto meno a sentirsi accettati da queste.
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