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Viaggio in Bosnia: testimonianze da un Paese ancora insanguinato

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Matteo Antiga

Vent’anni – poco più, poco meno. Secondo un frate francescano di Sarajevo, con cui abbiamo avuto la gioia di litigare animatamente, tra circa due decadi in Bosnia potrebbe ricominciare la guerra. Tra le molte persone con cui abbiamo avuto occasione di parlare un poco del passato di questo paese, molti la pensavano esattamente come lui. Sono passati vent’anni dalla fine del conflitto in Bosnia, il più sanguinoso tra le guerre jugoslave degli anni ‘90, ma qui a nessuno è bastato il tempo per dimenticare gli eventi della guerra, le deportazioni e il genocidio. La Bosnia ed Erzegovina è un paese la cui economia è ancora pesantemente provata dal conflitto, un paese dotato di una struttura istituzionale ancora oggi molto instabile, con una divisione federale basata sulla diversità etnica della popolazione e un’élite politica di cui i bosniaci non si fidano più da tempo.

Nel nostro viaggio in Bosnia abbiamo avuto occasione di parlare con molte persone. Dai nostri incontri compressi in sole cinque brevi giornate, che non sono sicuramente bastati a cogliere quanto questa terra oggi sia nel caos, abbiamo capito quanto poco basti per far crollare uno stato e congelarlo, impedirgli di riprendersi e superare il passato, come invece sembra sia accaduto negli altri paesi dell’ex Jugoslavia, che hanno vissuto una rinascita economica, grazie soprattutto al turismo e alla situazione politica ben più stabile.

«È più probabile che una scuola di qui abbia rapporti con una scuola cinese piuttosto che con una di Sarajevo» dice Drasko, mentre pranziamo in un locale di Prijedor, cittadina della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, la parte di territorio a maggioranza Serba-Ortodossa. I due Stati della costituzione federale della Bosnia sembrano essere due mondi totalmente distaccati. Le differenze religiose ed etniche, oggi, pesano molto sull’identità di un bosniaco; prima della guerra l’integrazione era un elemento fortemente incitato dall’ideologia socialista, e si guarda ancora con nostalgia allo Stato di Tito e a come questo riuscisse a unire le diverse popolazioni. Drasko vive in una delle pochissime città che dopo la guerra hanno cercato di ricostruire quella multiculturalità tipica dello stato jugoslavo. Il resto della Bosnia, Sarajevo compresa, ha subito esodi delle molte minoranze, il che ha portato a uniformare e dividere profondamente le diverse identità della popolazione. Tuttavia anche Drasko, che al tempo della guerra addirittura disertò in nome di quella Jugoslavia un tempo apparentemente unita, oggi avverte il disagio delle separazioni e, forse controvoglia, si sente legato a prescindere al proprio sangue serbo, come se gli anni successivi al conflitto non lo avessero aiutato a ricongiungersi alla diversità di Prijedor, ma lo avessero anzi allontanato.

Prijedor, città dei murales.

Molti ancora ricercano quella diversità dell’ex Jugoslavia. Molti, che al tempo della guerra erano solamente bambini, hanno fondato negli anni diverse associazioni culturali, che lavorano per la memoria ma anche per un nuovo incontro tra le diversità. Molti altri ritengono invece un ritorno al passato assolutamente irrealizzabile; tra questi anche lo stesso frate francescano già citato: «Nessuno vuole aiutare, nessuno vuole veramente quello che dice. Noi cristiani siamo ancora discriminati: i musulmani, essendo in maggioranza, ci ignorano. Notate bene, ci sono tre reti telefoniche in Bosnia: una per i Bosniaci musulmani, una per i Serbi ortodossi e una per i Croati cattolici. I politici sono corrotti e ci vogliono divisi. L’Europa stessa ci vuole divisi».

È molto difficile, a parer nostro, riconoscere una verità non proprio ideale. Le parole del frate, che così aliene sembrano rispetto al gran vortice nostalgico di chi richiama l’unità e il multiculturalismo antecedente la guerra, aprono una discussione che non ha mai cessato di tartassare le giornate del Parlamento bosniaco: quella che riguarda l’eventualità di un’ulteriore scissione, di un’altra separazione che divida definitivamente le due identità. Effettivamente, la Federazione Bosniaca rimane uno stato unito più per una questione di inerzia che per un fattore di comodità, dato che le stesse forze dell’ordine, gli impiegati statali e ogni servizio su cui lo stato ha più o meno influenza è segnato dalla linea di confine tra le due regioni.

L’estremo pessimismo di un frate ha il suo effetto su chi viaggia per la prima volta in questo paese, soprattutto per via del forte contrasto tra chi spera profondamente nel futuro e chi si è arreso, come le 60.000 persone circa che ogni anno emigrano principalmente verso Croazia, Francia e Scandinavia. Leonardo, nostra guida e interprete, ci spiega l’enorme problema dell’emigrazione giovanile: «Troppi giovani lasciano casa appena ne hanno la possibilità. Il lavoro manca ed è mal retribuito; non hanno motivo di rimanere. Pensate che Sarajevo perse quasi la metà dei propri abitanti dopo la guerra; ora che anche i giovani se ne vanno non rimarrà più niente qui. Solo ruderi».

Sarajevo, aprile 2017.

Proprio a Sarajevo incontriamo Dina, che nel ‘92 – quando iniziò l’assedio Serbo-Jugoslavo alla città – aveva quattordici anni. Visse per due anni nella capitale isolata, senza acqua corrente, senza elettricità. Prima dell’assedio, le colline intorno la città sono state occupate e gli eserciti assalitori hanno iniziato ad accumulare gli armamenti. Il fuoco di artiglieria e dei cecchini di Sarajevo, che sparavano in faccia ai bambini senza nemmeno preoccuparsi che fossero Bosniaci o Serbi, è durato incessantemente per quattro anni. L’attacco a Sarajevo del ’92 rimane tutt’oggi il più lungo assedio bellico della storia dopo la seconda guerra mondiale.

Dina racconta delle stragi, dei colpi di fucile, del caldo atroce di luglio, dello spettrale freddo invernale. Parla molto amaramente dell’incendio, scatenato dalle granate incendiarie serbe, che distrusse quasi totalmente la Vijećnica, il palazzo del municipio e della biblioteca di Sarajevo. Nell’incendio solo un decimo dei libri presenti, tra manoscritti e pezzi unici o rari, fu salvato.

Quando Dina parla della guerra lo fa con rabbia. Racconta di come tutti fossero convinti, all’inizio della guerra, che sarebbe stata solamente una questione di mesi, prima che la comunità internazionale intervenisse. Poi la delusione; infine, il disprezzo. Gli aiuti umanitari erano insufficienti, i farmaci scaduti. Dina ricorda i barattoli di latta inviati dagli Stati Uniti: cibo che era destinato ai soldati in Vietnam, vent’anni prima.

I crateri delle granate dipinti di rosso oggi sono “le rose di Sarajevo”.

La Bosnia fu il teatro del primo intervento militare dell’UNPROFOR, la Forza di Protezione delle Nazioni Unite, e anche la grande vergogna della storia dell’ONU. Durante il nostro viaggio, un nome leggiamo più di qualsiasi altro, scritto a lettere gigantesche sui muri, sui volantini nelle piazze e fuori i negozi: Srebrenica. Il memoriale di Srebrenica è immenso. In questi stessi hangar che oggi ospitano un museo, una mostra e un deposito dei corpi riconosciuti prima di essere seppelliti nel grande cimitero adiacente, l’UNPROFOR istituì la sua prima zona sicura nell’area balcanica. Decine di migliaia di persone cercarono qui rifugio, sicure che le Nazioni Unite potessero salvarle dalle truppe serbe, dalla loro avanzata e dalla pulizia etnica.

Srebrenica.

Tuttavia nessuno, qui, rende grazie alle Nazioni Unite, profondamente disprezzate dai parenti delle vittime del genocidio di mano serba. Srebrenica è il monumento al fallimento delle Nazioni Unite, è il richiamo alla figura ridicola dell’antica Società delle Nazioni, nata con gli stessi intenti e seppellita in un battito di ciglio col trascorrere degli anni ‘30, lo scorso secolo. Vicino al memoriale di Srebrenica vige ancora ciò che rimane della cittadina di Srebrenica. Il censimento del 1991 segnava più di 30.000 abitanti, oggi meno di un terzo. Ci sono più detriti che palazzi abitabili. Gironzolando per il paese ammiriamo gli scheletri esausti di prestigiosi hotel passati, dove – così ci spiega Muhammed, che abita qui – risiedevano i delegati e gli ambasciatori delle nazioni estere che qui passavano le vacanze.

No teeth…? A mustache…? Smell like shit…? Bosnian Girl!

Muhammed ha perso il padre a Srebrenica. Dopo due decenni passati in un paese vicino, ha deciso di tornare nel suo paese di origine. Qui ha fondato un’associazione che cerca di ricostruire la memoria dei familiari persi nel conflitto, creando una rete di contatti tra vecchie conoscenze delle vittime. Rivedere il volto di una persona cara, attraverso foto dimenticate da vecchi compagni di scuola o compagni di sport, ci spiega, è un’emozione che ha portato alle lacrime tanti suoi coetanei, che dei propri genitori, fratelli e amici non hanno niente, e di cui si stavano dimenticando il volto. Muhammed stesso, ci racconta, visse un momento fondamentale nel ritrovo di una vecchissima videocassetta con la voce del proprio padre, intervistato da un programma televisivo. All’inizio si rifiutava persino di credere che fosse suo padre, e così la madre di Muhammed non riusciva a crederci, finché la risata indimenticabile del genitore non ha dissimulato ogni dubbio.

Scambiamo due parole con Muhammed, mentre passeggiamo per i boschi che coronano la valle dove risiede Srebrenica. Lungo il sentiero ci fermiamo spesso ad assaggiare le diverse fonti di acque minerali che scendono lungo il pendio, dalle miracolose facoltà curative, a quanto dice. Prendo un sorso e il mio viso si contorce tra le sue risate e quelle di suo figlio, che ha appena quattro anni.

Mentre torniamo in paese il discorso, che prima si era soffermato sul calcio italiano (e su Dzeko in particolare) torna su suo padre e sulla guerra. Prima di salutarci ci dice, semplicemente: «Io non riuscirò mai a perdonare chi ha sparato durante la guerra. Mai, lo so già. Ciò che spero è che mio figlio cresca senza che provi lo stesso odio che ho provato io per tutti questi anni, per persone che non conosco nemmeno, uomini che hanno ammazzato mio padre e hanno nascosto il suo corpo chissà dove, senza che io potessi nemmeno seppellirlo e dirgli addio. Ecco, spero che mio figlio sia diverso da me, e se non lo sarà spero che mio nipote, suo figlio, sia privo d’odio per quella gente. Una speranza perpetua, finché finalmente questo paese torni come un tempo, e non rimanga un campo incolto, un cadavere».

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Matteo Antiga

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