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Radicalizzazione e ideologia del terrorismo islamico

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Carlo Paganessi

Tra gli elementi di maggior sorpresa per le opinioni pubbliche europee nell’analisi dei vari fatti di sangue avvenuti attraverso il continente nell’ultimo lustro [per maggiori informazioni si legga l’articolo precedente, N.d.R.], vi è il fatto che diversi attentatori erano nati in Europa ed erano stati reclutati o indottrinati nel cuore del vecchio continente. L’Europa è venuta a conoscenza dell’esistenza di un problema nella via più cruda: un tremendo malfunzionamento nel modo in cui gli immigrati di prima e seconda generazione venivano accolti e di come si integravano nella società. Alcuni paesi, come la Francia, hanno scoperto improvvisamente l’esistenza di alcune zone d’ombra all’interno delle periferie delle proprie grandi città, dove l’estremismo islamico si è nascosto e ha iniziato a proliferare, aiutato dall’incapacità delle agenzie di controspionaggio di attuare una raccolta d’informazioni efficace. Con radicalizzazione s’intende il processo che porta una persona o un gruppo di persone ad agire in forma violenta ricollegandosi a una determinata ideologia. Nel caso in esame, i radicalizzati si avvicinano a una determinata corrente dell’Islam (quella maggiormente estremista) per motivazioni legate innanzitutto all’inclusione sociale e al sentirsi maggiormente accettati e “parte di qualcosa”, prima ancora che alla condivisione dei precetti religiosi. Tali dinamiche, dove i tentativi di inclusione sociale falliscono, vanno poi a incidere nelle storie personali di ognuno dei radicalizzati, i quali hanno come costante la necessità di doversi relazionare a un gruppo e al suo leader, che li istruisce solitamente sui valori e sui precetti religiosi e sul modo di porli in atto nella vita reale (ovvero attraverso la Jihad).

Grazie anche all’immagine di “nemico della società” proposta dalla dottrina e ripetuta dai media occidentali, il radicalizzato vede la possibilità di uscire dalla condizione di emarginazione e di diventare una sorta di antieroe, sentendosi finalmente parte di qualcosa. Gli approcci a livello sociologico sono vari: se da un lato la visione statunitense si concentra sull’organizzazione, con una radicalizzazione che si comporta in modo diverso a seconda dei livelli esaminati (le élite lo fanno per un motivo, la base per altri), l’approccio europeo si pone sulla scia della “scelta razionale”, ovvero la consapevolezza da parte dei gruppi estremisti che battere gli stati membri in un conflitto simmetrico è impossibile. Il loro intento diventa pertanto quello di romperli dall’interno, sfruttando la comunità immigrata da “attivare” attraverso la tattica militare del terrorismo.

Le banlieue sono diventate un serbatoio per la radicalizzazione a causa delle politiche d’integrazione.

Un terzo approccio, maggiormente mediorientale, triplica l’orientamento del potenziale jihadista. Nel primo orientamento, egli si considera persona umiliata dalla società occidentale di riferimento che non lo include; ha spesso una formazione scientifica ed è di ceto medio-basso. Il secondo orientamento vede protagonista l’esclusione economica ancor prima che sociale, che genera un sentimento – in parte reale, in parte immaginario – di ghettizzazione e di sfiducia nei confronti del futuro. Questa combinazione non lascia altra valvola di sfogo se non la radicalizzazione in quanto azione avversa al sistema che l’ha causata. Nell’ultimo orientamento, il soggetto da radicalizzare si percepisce come membro di una comunità (umma) di credenti che è stata sottoposta a vessazioni da parte dell’occidente, che con due secoli di colonialismo ha depredato il Medio Oriente di parte delle sue risorse.

Un esempio lampante di tale comportamento risiede nella figura di Mohammed Merah, il quale compì attentati nel 2012 presso Montauban e in una scuola ebraica di Tolosa con un bilancio totale di 3 militari e 4 civili morti. Anch’egli, similmente a quanto fatto dal norvegese Anders Breivik, riprese i propri attacchi con una telecamera in modo che questi si potessero poi rivedere e potessero essere messi in circolazione per creare una retorica dell’antieroe. Nonostante i media occidentali forniscano casse di risonanza diverse, la maggior parte degli attentati suicidi avviene in paesi dove è presente una forza d’occupazione straniera. Sulla base di tale elemento è possibile individuare due tipologie diverse di motivazione che spingono qualcuno a compiere gesti simili: in primo luogo l’islamonazionalismo, volto a creare uno stato dove far prosperare il proprio modello di comunità dei credenti. Nel caso questa prima tattica fallisca per qualsivoglia motivo, ecco che la lotta degenera nell’antiglobalismo, cioè nel conflitto all’occidente e nella volontà di creare una società globale senza classi sul modello del califfato successivo a quello dei rashidun (i primi quattro califfi successivi a Maometto, suoi compagni e pertanto definiti “ben guidati”): in questo contesto il califfo era considerato un primus inter pares, pur mantenendo prerogative di comando politico, religioso (sebbene opportunamente condiviso con gli ulema) e militare.

La Francia è stato uno degli obiettivi principali del terrorismo islamico degli ultimi anni.

All’interno del contesto dell’estremismo islamico in Europa, la maggiore occasione di reclutamento avviene all’interno dei luoghi di culto. Nella stragrande maggioranza di questi casi il luogo di culto è irregolare, ovvero non registrato all’interno dei rispettivi registri nazionali e perlopiù frequentato da credenti che intendono mantenerlo segreto alle autorità. Tali moschee improvvisate sono spesso situate in garage, rimesse, scantinati di vario genere e via dicendo. Qui un Imam o uno facente funzioni, solitamente proveniente dai paesi medio orientali, guida la preghiera dei fedeli e fa leva sui sentimenti di esclusione per creare un forte senso di comunità intorno a sé.

La nascita epidemica di luoghi di culto “irregolari” è dovuta alla complessa burocrazia necessaria in diversi paesi europei (l’Italia in testa) per poter aprire una moschea legale. In Italia le pratiche sono talmente proibitive che le moschee vere e proprie sono decisamente poche rispetto al totale dei luoghi di culto: per istituire un centro culturale lo sforzo amministrativo richiesto è decisamente minore per cui quest’ultima soluzione è decisamente preferibile. In altri casi a scoraggiare la via della legalità sono episodi di intolleranza che intimoriscono i fedeli e li dissuadono dalla possibilità di palesarsi alla luce del sole.

Una foto di Amedy Coulibaly, che assaltò l’Hyper Cacher di Parigi nel 2015.

Un altro importante luogo di reclutamento è il carcere, dove la marginalizzazione degli individui tocca probabilmente il suo apice. Uno degli esempi più forti in tal senso è quello di Amedy Coulibaly, che nel 2015 assaltò l’Hyper Cacher di Porte de Vincennes, presso Parigi, provocando la morte di tre persone, salvo venire eliminato il giorno successivo nella tipografia in cui si era barricato. Nel periodo di detenzione per rapina a mano armata e spaccio di stupefacenti, aveva conosciuto Djamel Beghal, esponente del GIA (Gruppo Islamico Algerino) che avrebbe contribuito alla sua radicalizzazione.

Episodi di radicalizzazione in carcere sono avvenuti anche in Italia: alcuni agenti della polizia penitenziaria hanno evidenziato come, alla notizia degli attentati del gennaio 2015, diversi detenuti di fede islamica rinchiusi presso il carcere speciale di Rossano Calabro abbiano esultato con: «Viva la Francia Libera» (intendendo libera dagli infedeli). La cosa non deve stupire considerando che praticamente tutti gli accusati di terrorismo internazionale in Italia sono rinchiusi nella sezione AS2 (Alta Sicurezza di secondo livello) del carcere calabrese. Una settimana dopo un altro detenuto è stato trasferito da Bologna alla Calabria per aver inneggiato agli attentati. Su 202 carceri in cui sono presenti detenuti di fede islamica, solo una cinquantina hanno locali adibiti a moschea a fronte di una popolazione carceraria praticante pari a 8.700 fedeli (dati del ministero della Giustizia del 2013).

Recentemente, tuttavia, sia a livello nazionale che locale in Italia si sono attivate diverse iniziative per prevenire la radicalizzazione dei detenuti: il Viminale ha attivato dei corsi di cultura islamica per gli agenti della polizia giudiziaria, affinché riescano a riconoscere determinati segnali e prevenire la radicalizzazione. In altri contesti, come quello della casa circondariale Lorusso e Cotugno di Torino, le associazioni islamiche affiliate all’UCOII (Unione delle Comunità Islamiche Italiane) collaborano con la autorità penitenziarie per portare assistenza spirituale ai detenuti.

Il carcere delle Vallette a Torino, dove diverse associazioni stanno intraprendendo iniziative di contrasto alla radicalizzazione.

Il passo successivo alla radicalizzazione vede l’impegno sul campo della vittima. In alcuni casi esso significa un attacco terroristico oppure l’impegno al fronte in uno degli scenari in cui lo Stato Islamico è impegnato attualmente in tattiche di guerriglia: Libia, Siria, Iraq e Yemen sono le mete più gettonate per gli europei radicalizzati. Solitamente le leadership militari tendono a relegare i soldati provenienti dall’ambito europeo nelle città, che sono lievemente più sicure delle campagne e meno dure da vivere. Ora che lo Stato Islamico ha perso buona parte dei territori sia in Libia che in Siria ed Iraq, ecco che buona parte degli europei (ammesso e non concesso che questi siano sopravvissuti) torna in patria e viene “categorizzato” come foreign fighter. Da qui diventa una minaccia, seppur controllata, dato che quasi nessuna persona che parta per un paese in guerra lo fa in modo completamente inosservato, quantomeno da una tra le agenzie d’intelligence europee.

Al ritorno in patria i foreign fighter iniziano ad allacciare rapporti, tessere relazioni con radicalizzati e ambienti vicini a correnti estremiste dell’Islam, finendo per commettere atti di terrorismo solitari o in gruppo come sparatorie e accoltellamenti, volti a causare sorpresa, intenso brusìo popolare e politico contenente analisi destabilizzanti, che si rivelano poi scorrette in quanto basate su dati parziali. Sebbene i foreign fighter siano conosciuti da almeno un servizio d’intelligence non del paese in cui compiono gli attentati, le attività di condivisione delle informazioni non sono sempre efficaci per timore di fughe di notizie e per scarsa fiducia nei confronti della controparte. Per questi motivi i sospettati rimangono tali fino a quando non è irrimediabilmente troppo tardi. Altra causa è la volontà di prendere la rete tutta intera in un colpo solo, quindi i sospettati non sono arrestati sino a quando non è chiaro l’intero organigramma e la localizzazione dei componenti della rete.

Come fermare la radicalizzazione? Una maggior integrazione degli individui di fede islamica è spesso fondamentale: attraverso una più forte inclusione nella società si va a togliere materiale alle organizzazioni terroristiche. Uno dei mezzi di cui si sente con maggior disperazione il bisogno è indubbiamente la creazione di un Islam europeo: un quadro giuridico (sia nel senso europeo che in quello islamico) in cui inserire le credenze islamiche, che magari prenda spunto da altre situazioni in cui i musulmani non erano la maggioranza (l’India è solo uno degli esempi, sebbene parecchio antiquato). Dalla revisione del multiculturalismo (che ha creato una serie di ghetti nelle periferie delle principali città d’Europa) e dall’implementazione delle politiche d’integrazione, passa la salvezza delle vite di molte persone, oltre che l’esito del conflitto asimmetrico tra islamismo estremista e occidente.

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