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alt-J, il fascino dell’ostinatezza

Published by
Luigi Buono

Autori di una deriva pop e a tratti mainstream (ormai più uno stato d’animo che un vero e proprio metro di misura musicale) delle sonorità math ed art rock che hanno popolato l’underground inglese nei primi anni Duemila, gli alt-J (sigla che sta ad indicare la combinazione dei tasti da premere – possedendo una tastiera britannica – su di un Mac per ottenere il carattere Delta) rappresentano pienamente l’animo geek e a tratti weird della musica indipendente degli ultimi anni, poi spinto, anche suo malgrado, verso i più vasti palchi generalisti.

Se dovessimo riassumere la carriera della band con una sola parola, dovremmo usare “ostinatezza”. Distintiva è infatti la cura quasi maniacale, scolastica, nella costruzione dei pezzi, ottenuta seguendo solo un certo gusto proprio, senza scendere a compromessi: un’ idea di suono che, paradossalmente, traspare chiaramente dalle sonorità a primo ascolto caotiche e barocche della band britannica (prima quartetto e poi trio) uscita lo scorso 2 giugno con il terzo e già discusso album, Relaxer.

Gli inizi: An Awesome Wave

Gli alt-J nascono a Leeds nel 2007, dall’incontro di Gwil Sainsbury (chitarra e basso), Joe Newman (chitarra e voce), Gus Unger-Hamilton (tastiere e voce) e Thom Sonny Green (batteria). I quattro passano gli anni universitari a suonare in casa – cosa che, a detta del cantante Newman, contribuirà molto allo sviluppo del sound tipico della band, fatto di batterie mai troppo spinte, cori a cappella, sussurri e una certa predilezione per sonorità pulite e cristalline. Dopo la laurea firmano un contratto con Infectious Music e pubblicano l’EP (2011), preludio al primo LP, An Awesome Wave (2012).

An Awesome Wave risulta subito un album furbo, catchy al punto giusto e col proprio punto di forza nei testi, facilmente memorizzabili ma complessi il giusto per attrarre schiere di ascoltatori indie con manie d’intellettualismo. La ricetta degli alt-J è semplice ed efficace: partire da ballate pastorali e aggiungere il giusto groove, quindi contaminarle con sonorità elettroniche, ritmi cadenzati, tastiere (volutamente) cheap, a tratti stridenti o persino gommose, e una voce, quella del nostro Joe Newman, in bilico tra hip hop, gospel e folk, asettica eppure affascinante, sempre presente, mai fastidiosa.

L’articolo completo è disponibile sul nostro magazine alle pagine 26-29.

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Luigi Buono

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