Non sono stati in pochi a notare una certa familiarità in Theresa May, ad avere quell’impressione di averla già vista da qualche parte. E non bisogna sforzare troppo l’immaginazione, poiché di anni ne sono passati poco meno di trenta e la carica ricoperta è la stessa, quella di primo ministro inglese. Già, Theresa May ci ricorda la tanto amata – e odiata – Iron Lady, Margaret Thatcher. Il discorso parte, inevitabilmente, dal loro essere donne: un dettaglio che, per quanto poco gratificante da evidenziare, non è trascurabile. È un periodo di transizione per il genere femminile, emancipato abbastanza da ricoprire ruoli impensabili fino a qualche decennio fa, e tuttavia con ancora così poca frequenza da dare nell’occhio quando ciò accade. Le due donne si trovano quindi coinvolte in una serie di paragoni più o meno giustificati.
Il fatto che un’altra donna sia riuscita ad arrivare al numero 10 di Downing Street sarebbe forse stato un boccone difficile da digerire per la Thatcher. Era lei che nel 1973 affermava: «Non credo che ci sarà mai un primo ministro donna durante la mia vita», e – più che fare un’amara considerazione sul ruolo della donna nella società post contemporanea – sembra aver voluto dire che in Inghilterra, in quel momento, una abbastanza capace non c’era. Difatti, una volta salita al potere, invece che condividere questa sua fortuna con altre rappresentanti del suo genere ha creato un governo di uomini, soli uomini, e ha preso sempre le distanze da discorsi di tipo femminista, affermando come non c’entrassero nulla con il suo successo politico. Sembrava essere tornata ai suoi nove anni, quando ricevendo un premio scolastico aveva proclamato: «Non sono stata fortunata, me lo meritavo».
Leggermente diversa è la posizione della May, per ciò che riguarda donne e politica: nonostante l’attuale primo ministro non si possa proprio definire un’icona femminista, ha comunque fondato il movimento Women2win, che promuove le donne nelle carica di membri parlamentari. Inoltre, ha nominato una donna come Segretario di Stato per gli affari interni: roba seria, poiché tale carica è una delle più importanti nel governo britannico e chi la ricopre si deve occupare degli affari interni di Inghilterra e Galles, oltre che di tutto il sistema di immigrazione e cittadinanza del Regno Unito. Nonostante ciò, la May si è dichiarata irritata dalla vittoria della Thatcher di trent’anni fa, perché avrebbe voluto essere lei la prima Prime Minister donna ad essere eletta dai britannici. Davanti a tanta poca sorellanza, insomma, possiamo immaginare Emmeline Pankhurst rigirarsi nella tomba.
I vestiti neri di Melania Trump, i tailleurs color pastello della regina Elisabetta, il molto fotografato pantalone blu di Maria Elena Boschi del giuramento al Quirinale: quando si parla di donne in politica, sembra sempre che l’occhio voglia la sua parte. E anche la bocca, dato che nessuna riesce a scampare ai commenti, qualsiasi sia l’outfit scelto.
Questa sensazione di deja vù vedendo la May al potere parte da somiglianze nei lineamenti del volto che ricordano terribilmente la Lady di Ferro. Troviamo foto di entrambe le donne con collane di perle, due fili sobri che alla Thatcher non mancavano mai perché, come spiega Meryl Streep nel film a lei dedicato, le ricordavano i suoi due figli gemelli Mark e Carol. La May opta invece per perle più grandi e appariscenti. Un’altra analogia è il capello: in entrambe corto e scalato sul viso, per la Thatcher è un lascito culturale di una moda che precedeva la seconda guerra mondiale ed è rigorosamente tinto, mentre per la May è una scelta più moderna e forse pratica ed è lasciato sale e pepe.
Pur tenendo in considerazione il divario temporale tra le due, forse potremmo paragonare alcune loro scelte azzardate: da una parte i tacchi in animalier tanto cari alla May, dall’altra gli eccentrici cappelli di cui faceva uso la Thatcher prima di essere eletta. Inoltre, entrambe le prime ministre apprezzano un’icona stilistica alquanto imprevista per due leader Tory: Vivienne Westwood, anima punk e ribelle della scena stilistica britannica, da sempre fervida sostenitrice dei Greens. Ma la Westwood questa contraddizione l’ha capita bene da tempo, tanto da essere apparsa sulla copertina del Tatler nel 1989 indossando un abito confezionato per la Thatcher e non ancora spedito, con il titolo: «Questa donna è stata una punk».
Insomma, nemmeno nel duro mondo della politica le donne riescono a sfuggire ai commenti sul look. Commenti ben poco biasimabili del resto, data la monotonia dei guardaroba maschili. Ma trova poca giustificazione il giornale tedesco Bild, il quale si aggrega ai vari tabloid che trovano in May «l’Angela Merkel britannica» solo perché, ad esempio, entrambe fanno uso di completi color menta e turchese. Per citare la May: «enough is enough».
Parlando di cose serie, non sfugge a nessuno il fatto che entrambe fanno parte del partito Conservatore del Regno Unito. Tuttavia, complice la tendenza politica generale degli ultimi anni, Theresa May avanza proposte rigide e poco popolari con voce incerta, tanto da doverle spesso ritirare. Come la “dementia tax”, mirata a quelle persone anziane che potrebbero permettersi di coprire i costi associati alla loro condizione di senilità (Alzheimer e via dicendo), le cui stime si aggirano sulle 32.250 sterline annuali, circa 37.000 euro. Nel Regno Unito queste cure sono pagate parzialmente dal governo, se l’anziano in questione riceve una pensione annuale troppo bassa. Dato che tagliare le spese pubbliche è un must tra i Tories, May ha quindi avuto l’idea di rendere obbligatorio, per i possidenti di proprietà pari o superiori alle 100.000 sterline, provvedere a tali cure interamente da soli. Ciò obbligherebbe alcune fasce di popolazione a vendere la propria casa per assicurarsi le abituali coperture mediche. Mossa ardita, per non dire sciocca, poiché avanzata a metà maggio, poco prima delle elezioni: dal momento della proposta della riforma il partito ha infatti immediatamente perso il 3% dei voti, e la May ha dovuto far retromarcia con la coda tra le gambe.
Di altro stampo era invece la convinzione della Lady di Ferro nel suo perseverare con riforme impopolari, prima fra tutte quella del 1971 – come Ministro dell’Istruzione sotto il governo Heath – di rimuovere il latte gratuito alle mense scolastiche, per la quale si guadagnò il nomignolo di Thatcher, the milk snatcher. Ma poco sembrava importarle, e la decisione non tornò mai indietro. Chissà se occuparsi di bambini piuttosto che di anziani sarà più facile anche per l’attuale Prime Minister britannico, vista la recente proposta (anch’essa vicina alle elezioni) di voler rimuovere la mensa gratuita dalle scuole pubbliche.
E probabilmente rimuovere la mensa gratuita sarà un’altra decisione per la May di cui pentirsi, come avrà sicuramente fatto riguardo il taglio progressivo delle forze di polizia di ventimila unità dal 2007 all’anno passato, periodo in cui era segretario di Stato del Regno Unito. Decisione che è stata messa sotto accusa varie volte recentemente, specialmente dopo gli attacchi terroristici di Manchester e Londra.
La May sembra infatti piena di incertezze e debolezze che l’hanno vista, se non ritrattare, perlomeno tentennare su argomenti che dovrebbero essere i pilastri della sua agenda politica, vedi la Brexit. Difatti, in un’intervista avvenuta a fine maggio in un programma su Sky condotto da Jeremy Paxman, la May ha affermato che continuare con la Brexit vuol dire rispettare la decisione dei britannici espressa il 23 giugno dell’anno scorso, come a delegare la responsabilità della decisione. Alle incalzanti domande del presentatore riguardo il suo aver cambiato idea sulla Brexit, la May non risponde né sì né no, proclamando invece: «Sono dell’opinione che possiamo fare della Brexit un successo». Discorso affrontato per di più con voce tremante, incerta, che poco ci si aspetterebbe da chi ha in mano le redini di una delle situazioni più complicate del Regno Unito da molti decenni a questa parte.
Forse la May deve semplicemente lavorare sulla voce, come fece la Thatcher negli anni Settanta, frequentando corsi per impostarla e renderla più ferma e assertiva, al contrario del timbro da “casalinga stridula” che le impediva anche di partecipare alle trasmissioni del Partito. Ma un tremolio siamo sicuri che ci sarà comunque stato nelle parole della Thatcher che diedero il via al bombardamento delle isole Falkland contro le truppe argentine nell’82, decisione che in un primo momento fu aspramente contestata, ma che vide larga approvazione al trionfante rientro in patria dei soldati britannici.
Altro che Lady di Ferro, quindi, Theresa May è stata invece appellata “lady di alluminio”, dato il suo animo nettamente più docile e flessibile se paragonato a quello della Thatcher. La quale con poche probabilità avrebbe cercato una coalizione con un partito tanto controverso come il DUP, con i quale i Tories daranno il via al nuovo governo britannico. Coalizione che segna l’inevitabile frana del governo sotto gli occhi di May, la quale pare non accorgersene. Il mancato appoggio popolare è un’umiliazione analoga, per certi versi, alla fine della carriera della Thatcher, ma quest’ultima – dato il suo orgoglio – non avrebbe mai potuto subirla. Per questo, la Lady di Ferro abbandonò il partito e la possibilità di essere eletta nel 1990, nonostante avesse vinto il primo ballottaggio contro Heseltine. Abbandonò tra lo sgomento di molti anche al livello internazionale, come Kissinger e lo stimato Gorbachev.
Solo nel 2000 si venne a conoscenza della malattia di Alzheimer di cui la Thatcher soffriva già da tempo, che in parte potrebbe quindi spiegare la sua frettolosa fuga da Downing Street. E Theresa May e Margaret Thatcher, in questo, si trovano perfettamente d’accordo: nessuna delle due vuole che sia il governo britannico a dover pagare per le malattie degli anziani.
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