Domenica 11 giugno, circa nove milioni di cittadini sono stati chiamati al voto nel contesto delle ultime elezioni amministrative, che hanno coinvolto oltre mille comuni italiani. Già due settimane prima dell’atto conclusivo del ballottaggio, dove applicabile, i risultati del primo turno si rivelano alquanto interessanti relativamente agli equilibri politici nazionali. Col senno di poi, alla luce del netto crollo del Movimento Cinque Stelle, l’immagine di un Beppe Grillo all’urna con il casco in testa appare metafora della necessità di proteggersi dalla brutta caduta, anziché la solita esternazione di fobia verso i giornalisti. Ma il comico non ci sta, rincara l’ormai consueta retorica dell’uno contro tutti e lancia profezie di sventura a chi si illude di potersi finalmente ritrovare la sua testa su un vassoio d’argento. Il Movimento, in questo senso, prosegue nel difendere la preventivata ipotesi di crescita continua e inarrestabile, proprio come promuoverebbe la sua immagine un’azienda – cosa che in effetti, sulla carta, il partito di Grillo si ritrova a essere.
Tuttavia, l’evidenza è innegabile: domenica scorsa, il M5s si è visto precludere la partecipazione ai principali ballottaggi in gioco, di fatto registrando un calo delle preferenze. Solo ad Asti, dopo tre giorni di continui riconteggi, il candidato grillino Cerruti si è imposto per appena sei voti sulla rivale Motta (Pd). Tolto questo risultato, parziale e strappato in extremis, la crescita del Movimento appare tutt’altro che «netta e costante» (come i suoi esponenti continuano a ripetere). Altrimenti sarebbe difficile spiegare l’esultanza di Vito Crimi per la grande vittoria pentastellata a Parzanica, in provincia di Bergamo, per la bellezza di centodiciassette voti su quattrocento abitanti.
Il primo dato da considerare, a ogni modo, è come sempre l’affluenza: a gettare la propria scheda nell’urna è stato il 60,07% degli aventi diritto, numero in calo del 6% circa rispetto alle precedenti consultazioni. Se l’entità dell’astensione è stata inizialmente sottovalutata, essa aiuta però a comprendere l’intrinseca instabilità di un voto populista fluttuante e volubile. Che però non si interpreti questa tornata elettorale come la Waterloo dei pentastellati: è certamente troppo presto per poter affermare che la politica grillina del “No a tutto” abbia stancato o esasperato i sostenitori più o meno incalliti del Movimento. L’ideologia, a suo modo totalizzante, del partito di Grillo si basa d’altra parte su una rappresentazione nella quale la casta non ammette dissenso, annichilisce l’outsider ed è superabile solo da un M5s primo partito, finalmente libero di attuare le proprie politiche. In quest’ottica, il “No a tutto” appare al pubblico grillino non come l’incapacità e la fanfaronaggine che in realtà manifesta, ma addirittura come un atto di coerenza, se non di eroismo. Ciononostante, si ricorda, l’elettorato dei Cinque Stelle è ampio ed estremamente variegato: sarebbe errato identificarlo interamente con la frangia oltranzista di attivisti più o meno sgrammaticati, attivi sul web e per questo più in mostra.
Ed è qui che l’astensione si rivela per quello che è: nel voto (non pervenuto) dei pentastellati moderati, stufi dei vecchi partiti ma non necessariamente fedeli a Grillo, si può legittimamente intravedere un sentimento delusorio, dovuto all’assenza di effettivi miglioramenti da quando il Movimento è entrato per la prima volta in Parlamento. Piuttosto, negli ultimi quattro anni, esso ha preferito unirsi al già infiammato caos della bagarre politica nazionale, invariabilmente come ulteriore polveriera e mai in veste di portatore d’ordine. Basti pensare all’ultimo, vano tentativo di costituire una legge elettorale, verso il quale la pugnalata mortale è arrivata proprio dagli scranni grillini, episodio che si è indubbiamente andato a configurare come elemento di sfiducia verso questi ultimi, per alcuni di certo decisivo in sede di voto.
Sembra più remoto di quanto non sia, sotto questa luce, quel passato glorioso in cui le armate grilline espugnavano le fortezze di Roma e Torino per riconsegnarle alla gente onesta. Sebbene le due città non siano state interessate dal voto di domenica, le scelte amministrative lì condotte hanno certamente influito sui ragionamenti della categoria di elettori sinora descritta. In particolare a Roma, dove il contesto comunale non è stato, fin qui, dominato né dalla gente, né dall’onestà, poiché la decantata devastazione popolare non ha saputo nemmeno scalfire quei residui di Mafia Capitale che aveva promesso di abbattere, tanto da non avere poi altra scelta che stendere loro un tappeto rosso di fronte al Campidoglio.
Per di più, nell’unico caso in cui un’amministrazione pentastellata ha goduto di successo – seppure non unanime – a beneficiarne non è stato Grillo. La parziale riconferma di Federico Pizzarotti, fuoriuscito eccellente del Movimento e oggi nuovamente candidato a sindaco di Parma con una lista civica, lascia il suo ex sodale Daniele Ghirarduzzi fermo al 3,47% delle preferenze. Pizzarotti, pur protagonista di un’esperienza non brillante, ha ottenuto circa dieci volte tanto; il rinnovo della fiducia è andato così a ricompensare le azioni del giovane sindaco uscente, anziché le parole del partito che per quella lotta l’aveva inizialmente sostenuto, prima di divergere dalla sua rotta. In questo senso dimostra di aver ragione il politologo Ilvo Diamanti, che ha commentato il voto sottolineando come «i M5s siano poco radicati sul territorio».
L’affermazione di Diamanti pare trovare, oggi, conferma in tutta Italia e particolarmente in Liguria. La regione, ex roccaforte rossa e poi quartier generale grillino, almeno geograficamente, sembra essere la vittima più importante della presente ondata di sfiducia verso il Movimento: l’astensione tocca infatti il 52% a Genova e il 45% a La Spezia. I ponentini, sconfortati dall’assenza di qualsiasi proposta credibile più a sinistra di Renzi, scelgono di commettere il seppuku del proprio elettorato attivo, piuttosto che donare la preferenza al proprio compaesano Beppe. L’affair Cassimatis, tra le più recenti controversie del politburo grillino, deve aver lasciato dietro di sé un pronosticabile strascico. A beneficiarne, ovviamente, sono le coalizioni di centrodestra: Marco Bucci (Lega, Fi, FdI-An) si porta agevolmente in testa verso il ballottaggio con un 38,8% – che in realtà è un 18% degli aventi diritto. Allo stesso modo, in quel di La Spezia, a Pierluigi Peracchini (FdI-An, Fi, Lega) basta per imporsi un 32,6% di preferenze che, al netto dell’astensione, costituirebbe un 17,4% ideale. Pochi anni fa, in una regione come la Liguria e soprattutto nelle due città interessate, risultati simili sarebbero stati impensabili; eppure è uno stato di cose che risale a ben prima di domenica scorsa. L’exploit che vide, nel 2015, l’elezione di Giovanni Toti (Fi) a presidente regionale può essere oggi riconsiderato come un principio di evoluzione verso l’attuale situazione ligure.
D’altronde, in misura più o meno evidente, il responso di Genova e La Spezia sembra essersi riproposto in buona parte dei comuni partecipanti a questo round di consultazioni elettorali. La netta eccezione arriva da Palermo, dove Leoluca Orlando (M139) si impone già al primo turno con un 46,3% sufficiente, per la legge regionale siciliana, a evitargli il ballottaggio. Ma se Orlando, ricalcando il suo omonimo ariostesco, parla orgoglioso di «follia che diventa modello», è difficile comprendere il giubilo di Renzi – il cui Pd ha appoggiato il sindaco palermitano con la lista “Democratici e popolari”. La vittoria trionfale di Orlando nasce principalmente dalle caratteristiche del personaggio, amato dai cittadini e che attualmente celebra la sua quinta elezione per la stessa carica, se non anche dallo scandalo delle firme false che ha negato molti voti al M5s; ma certamente, in essa, non è da ricercare una preferenza accordata in senso stretto al Pd.
Infatti, seppur non ai livelli del M5s, anche il centrosinistra ha subito grandemente gli effetti dell’astensione, al punto da risultarne la seconda vittima in ordine di importanza. Prendendo in considerazione i venticinque capoluoghi di provincia interessati dal voto, il centrosinistra risulta essere in vantaggio solo in sei di essi, mentre il centrodestra ha ottenuto tredici pole position. A essi vanno poi ad aggiungersi la citata Palermo e Cuneo, dove il responso del primo turno è bastato all’elezione dei sindaci di centrosinistra, e Frosinone, protagonista di una speculare vittoria del centrodestra. A Verona, addirittura, saranno due candidati di centrodestra a confrontarsi al ballottaggio: la seconda classificata è infatti Patrizia Bisinella (Fare!), compagna del sindaco uscente Flavio Tosi. Che il generico vantaggio destrorso rimanga tale in sede di ballottaggio, ovviamente, non è affatto una certezza, ma l’entità delle preferenze sinora accordate rimane certamente indicativa.
Non così indicativa, tuttavia, da suggerire un pieno ritorno al bipolarismo e alla situazione antecedente al 2013. Se al momento Grillo e Renzi piangono – pur dissimulandolo – Berlusconi non ride: il colpo di reni del centrodestra è in primo luogo imputabile alla presenza in coalizione della Lega Nord, vero cavallo vincente della circostanza e mai alleato veramente tranquillo e stabile per Forza Italia. Salvini e soci sono storicamente più incisivi nel profondo nord, dove in molte consultazioni sono risultati essere – senza sorprese – il primo partito. Ma la Lega inizia a giocare un ruolo da protagonista anche a sud del Po, e raggranella nel Centro Italia un buon numero di voti, talvolta sotto la meno discriminante egida “Noi con Salvini”. Queste preferenze, senza dubbio, si trasformeranno presto in un’arma di ricatto verso gli azzurri dell’ex Cavaliere, la cui leadership non è mai stata realmente messa in discussione, ma che presumibilmente sarà presto costretto a chinare il capo di fronte all’avanzata del populismo leghista, ormai forza alquanto rilevante nel panorama nazionale e passibile di spostare gli equilibri in maniera decisiva.
Forse è proprio per questo che Grillo, ben conscio di condividere parte notevole del suo elettorato con Salvini, ha deciso di fondare il suo primo atto di campagna “post elettorale” su quel tema così ossessivamente caro alla Lega: l’immigrazione. A seguire, quindi, le dichiarazioni quasi congiunte di Virginia Raggi, che chiede alla prefettura romana una moratoria sui nuovi arrivi di migranti in città, e dello stesso patron dei Cinque Stelle, che incita alla chiusura dei campi rom e allo stop dell’elemosina in metropolitana. Il fatto che i nomadi non siano migranti, indubbiamente, rileva pochissimo per l’elettorato populista. Alla discussione si unisce, involontariamente, anche lo stesso Partito Democratico: l’elezione comunale a Lampedusa – peraltro interrotta da un black out – ha infatti testimoniato lo svolgimento di una strana battaglia interna. L’isola sicula è sede di ben due gruppi Pd, da sempre contrapposti fra loro: l’uno guidato dalla sindaca uscente, Giusy Nicolini, negli ultimi anni sotto i riflettori mondiali per il lavoro svolto in tema di accoglienza; l’altro riunito attorno al suo rivale, il neo eletto sindaco Salvatore “Totò” Martello. Le cose cambieranno, promette quest’ultimo, stanco di «veder sciamare i migranti ovunque» e propenso alla limitazione, secondo regole certe, dei meccanismi di accoglienza finora sfruttati.
La linea dura sui migranti non sarà certamente un tema del quale il Pd nazionale potrà, né vorrà, farsi forte, ma questa prima querelle lascia presagire in modo chiaro l’inizio di una fase contestata, in cui nessuno dei maggiori protagonisti vorrà essere lasciato indietro. Le singole voci, nel tentativo di far capire chi comanda, si faranno sempre più grosse. A prescindere dall’approccio dei partiti ai prossimi ballottaggi, ogni parte politica si troverà di fronte a un periodo di riequilibrio interno e di aspirazioni esterne: il Pd, come spesso avviene, dovrà concentrarsi per non esplodere in mille pezzi; Fi e Lega dovranno mettere in chiaro il prima possibile gli equilibri di coalizione, perché Berlusconi non può permettersi che il vassallo Salvini lo sfidi in singolar tenzone per ottenere i dovuti diritti. Tutto questo mentre Grillo, il maggiore sconfitto di questa tornata elettorale, riceve da Ivan Scalfarotto un consiglio che non pare affatto intenzionato a seguire: il ricorso al Maalox, con il quale il comico si consolò in un video dopo la batosta delle europee nel 2014. Il sottosegretario Pd gli suggerisce da Twitter: «non dev’essere ancora scaduto», ma Grillo, stavolta, sarà certamente più propenso a dar fuoco al palcoscenico che non a fermare il bruciore.
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