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theWise racconta: Androgino

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Roberto Alvau

theWise racconta

Gli italiani sono da sempre un popolo di santi, poeti, navigatori e – aggiungiamo noi – scrittori di prosa. Nascosto in ognuno di noi c’è uno spirito narrativo che aspetta solo un’occasione per venire fuori. Noi di theWise abbiamo pensato di dare spazio e voce alle giovani penne che popolano il Paese. Questo è lo scopo della rubrica “theWise racconta”, sulla quale ogni mese ospiteremo un racconto breve inviatoci da un nostro lettore.

Per il mese di giugno – che vedrà la quarta puntata di questa rubrica – la scelta è ricaduta sul racconto di Roberto Alvau: Androgino. Una storia introspettiva di solitudine e rimpianto, un vagabondaggio interiore che condurrà infine ad una scelta.

Vorresti comparire nel prossimo appuntamento? Inviaci il tuo racconto breve (massimo due cartelle word, argomento libero) a info@thewisemagazine.it, o contattaci sulla nostra pagina Facebook. Inviandoci il tuo scritto, acconsentirai implicitamente alla pubblicazione.

Francesco Spagnol


Androgino

C’era una volta un uomo in un bar.

Anzi no, troppo classico. Chi ancora ascolterebbe un racconto che inizia in questo modo? Proviamo così, allora:

In un caldo pomeriggio di novembre una persona, forse sulla cinquantina, assaporava lentamente il suo cappuccino decaffeinato, con in mano un giornale e con una valigetta di pelle nera poggiata ai suoi piedi, i quali erano avvolti in lussuosi mocassini.

No, non ci siamo ancora. Troppi dettagli superflui – troppo articolato. Non mi sorprende che i miei racconti non siano mai apprezzati. Però, suvvia, devo iniziarlo in qualche modo, non crede? Cambiamo tutto:

Un essere umano – uomo o donna, anziano o bambino: non ci interessa – passeggiava per le vie di una città, forse europea o magari anche del Nuovo Mondo, vestito con eleganza, con in mano una ventiquattrore, fischiettando al ritmo di una famosa ballata popolare. Il caldo implacabile di quel giorno lo costringeva a sudare vistosamente, ma d’altronde – si sa – i capi eleganti hanno anche loro qualche difetto. Passo dopo passo, sentiva la mani sempre più bagnate e la presa che sfuggiva. Una presa insolitamente forte, invero, dal momento che serviva a reggere una semplice valigetta. Che nascondeva al suo interno? Oro? Un fucile da cecchino? Piani segreti riguardanti nuovi ordigni nucleari? Forse l’individuo era pronto per una strage…

Ma non è questo il punto, proseguiamo. Eravamo rimasti al sudore, sì.

Sudato e stremato si rifugia in un bar – o in una taverna inglese, chissà. Si siede con insolita disinvoltura, poggia con delicatezza il suo tesoro su una sedia e attende l’arrivo del cameriere.

Il sudore continua ad imperlare la sua fronte, ma l’individuo non ci fa caso; le gocce scivolano giù per la pelle delle guance, ritmicamente, sembrano quasi scandire i secondi. Urla di bambini gonfiano i timpani del nostro personaggio, che, istintivamente, si volta a guardarli con un sorriso. Uno di loro lo scorge e risponde con una linguaccia, ed egli (o ella, ricordiamo), vestito di tutto punto, gli rende pan per focaccia. Siamo tutti fanciulli, alla fine: chi lo negherebbe?

L’addetto alle bevande dissetanti – e anche a quelle meno dissetanti, ma ugualmente soddisfacenti – arriva con uno sguardo svogliato: «Salve, desidera?»

Sul suo taccuino c’è una macchia di caffè. Caffè, pensa il nostro misterioso eroe, e caffè ordina. Caffè corretto con un amaro – ma non così tanto amaro, vista la bustina di zucchero che chiederà in seguito al nostro cameriere scansafatiche.

Il cucchiaio gira in tondo nella tazza, e nella mente girano vorticosi i pensieri. Sono tanti, troppi per essere metabolizzati, perciò solo alcuni vengono afferrati e scomposti. Ora c’è l’amore a soffocarlo, poi la paura a renderlo vivo, infine la superbia ad appagarlo. Sembra intelligente, quest’ombra seduta al tavolino di questo sconosciuto locale, ma in realtà tutti noi proviamo queste emozioni. Dal colto filosofo che ne analizza le sfaccettature, al modesto contadino che ne coglie gli istinti. Tutti alla stessa maniera. Anche se coloro che si definiscono intelligenti si arrogano il diritto di conoscerle meglio, le emozioni, ignari di percorrere solo alcune strade in maniera completa tralasciandone molte altre: altre strade che, come il contadino sa, sono altrettanto valide.

A dirla tutta, coloro che si definiscono intelligenti lo sono appena al punto giusto per sopravvalutarsi. Le vere persone brillanti si siedono insieme al modesto e, tra l’ombra di un ciliegio e il soffio del mattino, ne scoprono le più grandi virtù per farle proprie.

Ma il nostro essere vivente non va annoverato fra i superbi: è intelligente per davvero. E lo vediamo ora sorseggiare il suo caffè, ancora intento a pensare, sempre fissando la ventiquattrore. Sembra quasi che nient’altro abbia fatto, da quando è in vita: ragionare e custodire quel segreto. E forse, in fondo, la verità è proprio questa.

Son troppo vago, dice? Le chiedo scusa. Non sono né un buon narratore né un abile oratore; solo un uomo abbastanza sveglio da sopravvalutarsi ma non intelligente a sufficienza per sapersi raccontare. Diamo una smossa a questo racconto, allora, se lo desidera.

Androgino – così chiameremo il protagonista, e mai nome potrebbe essere più azzeccato – si alza dal tavolino, e con il suo passo felpato si dirige verso una nuova direzione. Svolta l’angolo e si sorprende nel ritrovare il bambino a cui aveva fatto la linguaccia; la madre lo sta sgridando, e lui in lacrime sta chiedendo scusa. Gli sfugge un altro sorriso: il secondo, oggi. Pare quasi un’eresia da parte sua, ma di fronte all’amore delle madri può resistere assai poco. Anche per lui è esistito il tempo dell’infanzia e dell’amore materno, ora spazzato via. Quanti rattoppi servono per ricucire un amore strappato? Così pensa. Quanto perdono può donare una persona, di fronte ai continui dolori causati da un’altra? Pensa, ma non sa darsi una risposta.

Il sole inizia a tramontare – e non potrebbe essere altrimenti, considerato quanti pensieri abbiano attraversato la mente di Androgino e quante parole abbia già sprecato io. Il passo si velocizza e il sudore ritorna, ma stavolta non è causato dal caldo. La ventiquattrore, prima accudita con così tanta delicatezza, balla forsennata nella sua mano. Arriva anche il fiatone, e Androgino è costretto a sedersi. Che sia vecchio? Possibile, ma magari è solo grasso. O gli manca una gamba.

Apre la giacca e sfila una sigaretta dal pacchetto immacolato. Le porta sempre con sé, sebbene ormai fumi poco. Nonostante i suoi mali si è ripromesso di non lasciare mai quel vizio. Non è da tutti perseverare in tale maniera. Questa scelta può essere vista in due modi: o come una promessa ripetuta giornalmente quasi come un mantra – una promessa di quelle a cui neanche noi crediamo e che, di conseguenza, sappiamo già che non rispetteremo – o come una reale promessa, di quelle fatte con sincerità. Sapersi fidare di sé stesso è ciò che differenzia Androgino dagli altri, da coloro che possiedono il potenziale ma non sanno mutarlo in atto: coloro che sono eternamente ipotetici albatri pronti a spiccare il volo, coloro che potrebbero essere ma inesorabilmente non sono.

Androgino pensa anche a questo, naturalmente – cosa crede? Anche lui si annovera tra questi ultimi, e guarda con invidia la coppia di ragazzi apparsa al suo fianco. Sono giovani, nel fiore dell’età. Si baciano con la passione della gioventù, scoprendo per la prima volta l’altro – non solo nel corpo ma anche nell’anima. Sono pronti a concedersi totalmente, a rendere l’altra metà la colonna portante del loro stesso essere. Il nostro personaggio, pur nell’ammirazione, non può impedirsi di pensare alla condanna degli androgini di Platone: povere creature, tutta la vita a vagare cercando la loro metà da cui sono state separate.

Androgino rimpiange i tempi dell’amore perduto, così come prima – vedendo sgridato il bambino ridente – rimpiangeva l’antico affetto della madre. Ma non vuole pensare ancora: lo fa da troppo tempo, ormai, e il cuore, così come la mente, dopo un po’ perde il ritmo e si spegne, nonostante l’esercizio. Non possiamo pretendere troppo da questi due organi: muoiono, se bruciano troppo in fretta le tappe. Lentamente, ma muoiono.

Riprende il cammino, il valoroso pensatore, e stavolta per così tanto tempo che il sole – nascondendosi oltre le nubi – saluta il cielo e lascia spazio alle stelle, giocose luci, ancora fresche per il riposo appena consumato oltre l’orizzonte. Brillano nel firmamento queste sorelle, vegliate dalla grande madre Luna, che ne osserva il ballo felice e premurosa. Androgino lo sa, e durante il cammino alza lo sguardo per fissarle. L’odore della steppa e il canto dei grilli ora lo rinvigoriscono; si è diretto oltre la città e adesso gode del fascino della natura, la più intima delle amanti.

Cammina e cammina, pensa e pensa, finché non trova di fronte a sé una piccola casetta. C’è un qualcosa di talmente antico, in queste vecchie dimore dove regna la felicità, da riempire il cuore di chiunque. Le ombre degli abitanti giocano fra la luce, e una lacrima, per la prima volta, bagna le gote del nostro amico. Ora si siede, e accompagnato dal fruscio dei ciliegi dietro di lui intona un basso canto indirizzato a qualcuno. Chiede tanto, ma stavolta le domande sono giuste e le risposte sembrano quasi arrivare. Manca un metro – manca un pelo, un sussurro ancora – e riuscirà a scegliere fra le tante risposte che combattono nel pensiero. Ma un uomo è pur sempre uomo: non può ambire ad essere un dio, non può sapere tutto. Neanche ciò che chiede, per quanto distrutto e spassionato sia. E a dirla tutta anche gli dei, a volte, devono arrendersi. Al fato, sì! Ha detto bene. Al fato, la più forte delle forze.

Anche Androgino ne è cosciente, ne prende atto. Apre la valigetta lentamente, ne assapora i meccanismi e gli scatti. Il contenuto è oscurato – colpa della notte. A sinistra però brilla, colpita appena dai raggi lunari, una piccola pistola. A destra, grazie alla luce che passa fra le braccia di Androgino, appare una lettera. Una lettera indirizzata a qualcuno. Che sia per un figlio? Per una madre? Una dolce metà perduta? Non lo sappiamo. Non ci è dato saperlo, grazie a Dio! Anzi, grazie al fato, piuttosto. Dobbiamo apprendere altro, da questa storiella.

Un’altra lacrima scorre – ecco la seconda – e Androgino, sempre senza risposte, non riesce a decidersi. Apre uno scompartimento nascosto e raccoglie dal suo interno una moneta consunta. Parrebbe vecchia, forse russa. Forse gliel’aveva regalata il padre quand’era piccolo: ecco un altro amore che si aggiunge alla lunga sfilza.

La stringe al petto, ed ecco la terza lacrima, e la quarta. Ciò che vuole farne, ormai, l’avrà capito anche lei. Quando un uomo non trova risposte, può solo lasciar decidere il destino, la sorte, il fato. E anche lui, così brillante e sensibile, ha deciso di farlo. Non può fare altrimenti – o, almeno, è così che continua a ripetersi.

Sapesse ascoltarsi meglio, forse…

Forse.

Da una parte, c’è la possibilità di ricongiungersi all’affetto perduto; dall’altra, la rinuncia. La fine delle sofferenze, del pensiero, di questo eterno camminare, vagare, guardare e pensare che ormai lo accompagna da troppo tempo.

Sospira ancora una volta, quindi lancia la moneta in aria. Brilla, accompagnata dalle stelle: anche lei danza con loro. Sembra un anno, un secolo, ma alla fine la moneta cade. Cade di fronte a lui, nel buio del prato.

Ma la notte era troppo oscura, nemmeno io riuscii a vedere cosa capitò – se la salvezza o l’oblio.

Non importa: l’importante è che una decisione sia stata presa. Che Androgino, nostro amico e guida, fu troppo debole per vivere solo con sé stesso.

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Roberto Alvau

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