Dall’11 settembre 2001 ad oggi, molte parole si sono spese sul come sconfiggere il terrorismo islamico: la primissima via tentata fu una soluzione esclusivamente militare, con una reazione simmetrica a un attacco e un avversario asimmetrici. Il risultato dell’azione Statunitense in Afghanistan fu la morte di oltre duemila soldati, mentre il dato dell’intera coalizione (3.069 ad oggi) supera la soglia psicologica del numero di civili morti (2.974) nell’attacco al Pentagono e al World Trade Center perpetratro dai qaedisti nel 2001. L’offensiva è riuscita a cambiare il regime, detronizzando i talebani a Kabul e costringendo Al Qaeda a nascondersi nuovamente in clandestinità nell’area a cavallo tra Pakistan e Afghanistan, ma ha causato ulteriore instabilità nella regione. Tale instabilità ha posto le fondamenta per la guerra in Iraq avvenuta due anni più tardi, e per la nascita dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS) che ha avuto un successo ancora maggiore di Al Qaeda.
Successivamente, la risposta al terrorismo si è spostata maggiormente sull’attività d’intelligence e sul coordinamento tra agenzie, che però non è stato adeguatamente supportato da un’unità di intenti a livello politico. La crisi dei mutui subprime del 2008 negli Stati Uniti ha toccato un nervo scoperto nel sistema finanziario globale, che si è necessariamente ripercosso sull’economia reale, rendendo più difficoltoso il processo dell’integrazione europea, e aprendo per l’Unione un’ulteriore decada perdida, come quella che si verificò negli anni ’70 con la crisi petrolifera e la seguente contrazione economica. Questo stato di cose ha impedito ai membri dell’Unione anche di preservare duraturi rapporti di fiducia, diminuendo anche la profondità del livello di informazioni che le varie agenzie erano in grado di scambiarsi. La stessa Europol non ha visto un ulteriore allargamento delle proprie competenze. Tale istituzione non ha mostrato grandi successi, principalmente perché non è mai stata sfruttata al pieno delle sue potenzialità, ma anche a causa dell’implemento di una nuova tattica da parte del fondamentalismo, quella dei “lupi solitari”.
Questi agenti individuali sono spesso figli o nipoti di immigrati in Europa dall’area MENA (Middle East and North Africa), che reagiscono all’emarginazione sociale in questo modo per diverse ragioni: porsi come antieroi e vendicatori dei danni prodotti dalla colonizzazione occidentale in Medio Oriente, e ricercare il senso di accettazione da parte di una comunità (sensazione sconosciuta a causa della poca integrazione nel contesto delle comunità autoctone). Il metodo d’azione è estremamente basilare: negli attacchi questi individui usano auto, furgoni, armi da taglio e altri strumenti atti ad offendere per attaccare la popolazione in contesti di vita quotidiana (alla stazione nell’ora di punta, di fronte al parlamento Inglese e via dicendo). In tal modo si distorce la percezione dell’opinione pubblica dell’avversario, inducendola a credere di non trovarsi al sicuro in nessun luogo, provocando il terrore negli individui, e inducendo la società alla chiusura verso gli stimoli esterni.
La proliferazione di questo tipo di minaccia ha trovato le varie agenzie impreparate: un attentato organizzato completamente in solitaria è molto più difficile da sventare, considerando che le comunicazioni in merito sono prossime allo zero (al massimo potrebbe esservi stata una confessione presso la propria figura spirituale di riferimento), e anche la preparazione non richiede materiali particolari che potrebbero destare sospetti (come potrebbe accadere in caso di acquisto di larghi acquisti di acetone, concimi o acqua ossigenata). In tal caso le agenzie determinano se una persona può costituire un pericolo di questo tipo, ma spesso i sospetti non sono sostenuti da un supporto legislativo adatto, pertanto non è possibile trarre in arresto questi individui. In altri casi le prove ci sono, ma si decide di aspettare che si rivelino ulteriori elementi all’interno della rete.
Dato che il terrorismo islamico è un problema che abbraccia diversi campi, il metodo di contrasto è un approccio olistico al tema: è necessaria un’azione corale dal punto di vista legislativo, sociale, informativo, militare, politico, geopolitico, e così via. Uno dei grandi limiti per le varie agenzie d’intelligence è il coordinamento tra paesi diversi: nel caso dell’Unione Europea, non ci sono solo le riserve in materia di quali informazioni condividere e quali no, ma anche il fatto di doversi scontrare con 28 legislazioni antiterrorismo diverse, per cui tracciare una linea d’azione comune non è mai semplice. La creazione di una serie di direttive, che tengano conto delle diversità regionali e delle diverse caratteristiche delle comunità immigrate nei vari paesi europei, dovrebbe essere alla base di una politica vincente di contrasto al terrorismo, che si dovrebbe accompagnare ad una riforma delle normative sul trattamento e la raccolta dei dati personali. Pene certe e comuni sono solo il primo dei tasselli per il contrasto efficace dell’integralismo islamico.
Una strategia efficace di contrasto alla radicalizzazione islamica passa dall’integrazione delle comunità di fede islamica in Europa, attraverso un approccio su più livelli: continentale, nazionale e locale. Partendo da quest’ultimo, i centri culturali islamici (che nel nostro paese vengono preferiti alle moschee propriamente dette in quanto meno difficili da creare) e le associazioni culturali vanno inseriti in un network, mentre un aiuto importante per la prevenzione della radicalizzazione proviene dall’attivismo civile: caso esemplare è quello delle associazioni che si adoperano per fornire assistenza spirituale ai carcerati credenti della casa circondariale “Le Vallette” di Torino. Le carceri sono tra i contesti che offrono le maggiori opportunità per la radicalizzazione, in quanto sono il contesto sociale emarginato e con desiderio di rivalsa per eccellenza.
Il secondo contesto è quello nazionale: ogni paese dovrebbe rivedere e definire i rapporti con le proprie associazioni islamiche. L’Italia l’ha fatto nel Febbraio di quest’anno con la maggior parte dei propri credenti musulmani, firmando un protocollo d’Intesa (il cui testo si può trovare qui) con la principale organizzazione islamica del paese: l’Unione delle Comunità e delle Organizzazioni Islamiche d’Italia (UCOII) raccoglie oltre 120 associazioni sia regionali che settoriali, e quasi 400 tra moschee e luoghi di culto non ufficiali. L’accordo prevede l’impegno da parte dell’UCOII a partecipare a tavoli interreligiosi, e ad incontri di informazione con la popolazione. Altri punti particolarmente importanti riguardano la formazione degli imam e la trasparenza delle donazioni che pervengono alle comunità islamiche. Dal canto proprio, il governo si è impegnato a promuovere una conferenza presso l’ANCI (Associazione Nazionale dei Comuni Italiani) sul tema delle moschee in Italia.
Tale esperienza andrebbe promossa anche nei restanti membri dell’Unione Europea, con direttive europee mirate a creare collegamenti e accordi sempre più forti tra Stato e Comunità islamica residente. In secondo luogo, l’Unione Europea dovrebbe favorire la nascita (insieme ai diretti interessati) di un Islam europeo, magari prendendo spunto da quelle realtà in cui la fede islamica è stata componente minoritaria (come in India). Il tutto, naturalmente, subordinato ad una maggior integrazione delle comunità immigrate su suolo Europeo.
Altro tassello di notevole interesse, ma anche molto delicato è quello informativo: la bilancia in questo caso oscilla tra la libertà d’espressione e d’informazione, e le necessità sia sociali che operative delle varie agenzie di law enforcement (un termine ampio che ricomprende una serie di soggetti statali che vanno dalle agenzie di controspionaggio, come il nostro AISI, alle agenzie di polizia). Il mondo dell’informazione è croce e delizia di ogni sistema democratico: da un lato ne assicura il perfetto funzionamento (un’opinione pubblica bene informata è in grado di presentarsi alle urne con una migliore preparazione, e distinguere le menzogne dalle verità), ma nel momento in cui esso non lavora al meglio si presta ad essere sfruttato dal terrorismo per alterare la percezione della popolazione. L’esempio migliore di quest’ultima circostanza si ha con molteplici pagine e siti internet, che spesso si pongono come obiettivo non la diffusione dell’informazione, ma la generazione di traffico sul sito stesso in modo da aumentare le entrate economiche. Per fare ciò si sfruttano titoli ad effetto, spesso canalizzando l’attenzione su alcune buzzword che suscitino sentimenti negativi e invitino alla condivisione.
La questione è salita alla ribalta quando diversi paesi hanno preso atto dell’esistenza di un problema serio con questo tipo d’informazione: la stessa opinione pubblica si è spesso concentrata sul concetto di fake news, specie in seguito al referendum britannico sull’uscita dall’Unione Europea e le palesi menzogne proposte dal fronte favorevole all’uscita. In ottica di radicalizzazione gli esempi si sprecano: su questo tipo di siti sono innumerevoli le notizie false riguardanti i comportamenti di immigrati in cui si allude (nemmeno troppo velatamente, in verità) all’appartenenza di questi a qualche organizzazione terroristica. Se da un lato queste contribuiscono ad aumentare gli introiti della testata che le propone, dall’altro contribuiscono ad aumentare l’isteria di massa, con effetti controproducenti nella lotta al terrorismo, essendo esse tra gli elementi che contribuiscono a spostare il voto verso le forze politiche che mirano alla marginalizzazione della comunità islamica nel paese.
A livello geopolitico, le principali preoccupazioni provengono non dagli stati del Medio Oriente, ma dai giochi di potere al loro interno e dalle fazioni che vi si generano. Se da un lato è vero che le monarchie del Medio Oriente contribuiscono a rendere più stabile la propria area, hanno bisogno del sostegno di determinati gruppi d’interesse che forniscano loro appoggio. In cambio, le autorità chiudono un occhio sulle attività di proselitismo fatto al di fuori dei confini del paese. Le recenti tensioni tra Arabia Saudita e Qatar vertono proprio su questo problema: il secondo è stato ripetutamente accusato da diversi vicini di casa di sostenere diverse branche di Ikwan (Fratelli Musulmani) all’estero, il quale presenta connessioni con la radicalizzazione islamica attraverso l’istituzione di centri di culto illegali e non. L’isolamento di tali componenti interne passa anche dal sostegno esterno ai governi (e non dalla loro destabilizzazione, come accaduto con le primavere arabe). In seguito all’isolamento, tali componenti andrebbero a perdere capacità di proiezione all’estero, e con loro perderebbero di efficacia le organizzazioni che supportano.
Quello che porta alla via d’uscita dal tunnel non è un percorso semplice, anche se, d’altro canto, non esistono soluzioni semplici a problemi complessi. Il terrorismo islamico affonda le sue radici nel colonialismo, nella crisi che politica e di valori che l’Islam sta attraversando da 150 anni a questa parte, e in molti altri fattori. La capacità di contrasto da questa parte del Mediterraneo sta tutta nella coesione sociale e nell’abilità di rispondere in modo unitario al grido di destabilizzazione che proviene da una parte più antica del mondo. Dopo gli attentati di Oslo del luglio 2011, l’ex primo ministro norvegese Jens Stoltenberg si presentò di fronte alla stampa con parole universali contro il terrore: «al male reagiremo con più democrazia e maggior umanità», poiché ogni altra modifica del proprio stile di vita avvenuta sulla base delle istanze fondamentaliste rappresenta una sconfitta per l’occidente.