“The plan May have gone wrong”
Le ultime elezioni alla House of Commons in Gran Bretagna hanno portato ulteriore timore e disordine in una nazione alla disperata ricerca di un governo stabile. Theresa May, certa di una vittoria che avrebbe dovuto assegnare ai conservatori più seggi di quanti ne avessero presi nel 2015, ha indetto ad aprile la sua condanna a morte. La May è stata criticata sin dalla sua alba seguente il mea culpa di Cameron, ma – dalla campagna elettorale imbarazzante a oggi – l’opinione pubblica si è progressivamente inacidita nei suoi confronti. L’immagine della conservatrice è risultata incerta, insicura, talvolta ridicola: non ha mai chiarito al pubblico quali diritti avrebbe reclamato come sacrosanti davanti ai vertici EU, spesso divagando in risposta alle domande più schiette dei giornalisti e rifiutando un dibattito faccia a faccia con il suo avversario laburista. Perfino ai quesiti più semplici, più superficiali, ha saputo dare la risposta più strana: quando una giornalista le ha chiesto quale fosse la cosa più “cattiva”, “birichina” che avesse mai fatto, imbarazzata ha ammesso come da giovane fosse solita correre tra i campi di grano, e che i contadini non ne fossero proprio felici.
In seguito agli eventi della Grenfell Tower, la premier May ha peggiorato ulteriormente la sua situazione, rifiutando in un primo momento di incontrare i superstiti e i familiari delle vittime, recandosi presso il luogo della tragedia troppi giorni in ritardo, e dandosi il colpo di grazia confessando che «i soccorsi non sono stati sufficienti», un’affermazione interpretata dall’opinione pubblica come una ammissione di colpevolezza. Giornali, News Report e comici: nessuno ha avuto pietà per Theresa May nelle ultime settimane, definendo la sua apparente freddezza come quella di un’anima svuotata e insensibile, di una persona assolutamente priva di empatia. I conservatori hanno la maggioranza alla camera bassa, ma non assoluta come nella scorsa legislatura, e con una leader del genere possono aspettarsi di perdere completamente le redini della nazione a breve.
Labour Party
Il fronte laburista, intanto, festeggia. Festeggia il recupero rispetto alle prime stime di aprile, la conquista di nuovi seggi, e il fallimento conservatore. Ci sarebbe ben poco da festeggiare, forse, data la situazione difficile in parlamento, ma Corbyn sembra soddisfatto quando afferma che «è percepibile la volontà del Regno Unito di cambiare rotta» e che «il primo ministro ha perso voti e questo è sufficiente per partire». L’ottimismo del leader laburista avrebbe senso se dovesse importargli solo che il partito conservatore abbia perso seggi, dato che il neonato spirito rivoluzionario britannico non è comunque bastato ad interrompere il dominio eterno dei conservatori. Il successo modesto dei laburisti è dovuto alla corretta scelta dell’audience su cui puntare: gli under 35. Un leader carismatico, ma ritenuto estremista come Corbyn, è malvisto dai moderati, ma, come recita un popolare adagio, «chi a vent’anni non è di sinistra, non ha cuore». Quella stessa generazione che negli Stati Uniti la scorsa estate è rimasta estasiata dall’immagine di Sanders come paladino rivoluzionario ha trovato nel leader laburista, fermo, deciso, ironico e profondamente di sinistra, un leader decisamente più saporito rispetto alla May.
Desaparecidos
Mentre laburisti e conservatori hanno perso o guadagnato seggi, rimanendo essenzialmente gli unici protagonisti della scena politica britannica, i partiti minori hanno iniziato a scomparire. Lo scenario televisivo ha sostanzialmente ignorato i partiti alternativi, che hanno potuto contare esclusivamente su chi vota un determinato fronte per tradizione, o per chi, insoddisfatto, ha optato per un cambiamento. Sommando i seggi dei primi quattro partiti britannici, escludendo conservatori e laburisti, ovvero calcolando i posti in parlamento ottenuti insieme dal partito nazionalista scozzese, dai liberal-democratici, dalla destra del partito nord-irlandese DUP e dai verdi, otteniamo 55 seggi su 650. L’influenza che i suddetti hanno nello scenario locale è infatti completamente diversa da quello nazionale, dove rimangono voci minori rispetto ai tuoni di Corbyn e May, sebbene non siano svaniti completamente come invece è accaduto all’UKIP. Che fine hanno fatto il partito indipendentista britannico e il suo portabandiera, Nigel Farage? Sono passati dal glorioso risultato del 2015 (3 milioni di voti) e dalla vittoria della Brexit a poco più che mezzo milione di voti, perdendo gli unici due seggi in loro possesso e sparendo dalla scena. Questa disfatta è imputabile probabile al loro rifiuto di gestire l’uscita dall’Unione, ai movimenti incerti della sterlina nel mercato e ad alcune vane promesse fatte durante la campagna per il referendum. Uno dei principali proclami di Farage, cioè destinare al servizio sanitario nazionale i soldi attualmente spesi per l’Unione Europea, non solo non è stato messo in pratica, ma è rimasto semplicemente uno slogan smentito dallo stesso Farage dopo la vittoria del leave.
“You may say I’m European”
Intanto, oltre la manica, il fronte europeo guarda interessato e relativamente poco preoccupato alle intenzioni britanniche. Relativamente poco, in effetti, perché dopo il forte impatto della Brexit sull’umore dei mercati e dei paesi membri, l’EU si è ripreso lentamente e non ritiene di avere più nulla da perdere nei trattati con il nuovo esecutivo britannico. In effetti l’Unione Europea tiene il coltello dalla parte del manico, dettando le regole di come si debbano svolgere le trattative, in che tempi, cosa rischia la Gran Bretagna se entro due anni non hanno chiarito ogni minimo dettaglio dell’uscita con i vertici europei. Dei leader europei la maggior parte rimane amareggiata ma profondamente convinta nell’idea di rendere ai britannici ciò per cui hanno votato, che ci sia un lieto fine o meno. Juncker, ad esempio, non contiene le sue critiche e ha già definito, a colloqui appena iniziati, le proposte britanniche come insufficienti». Dall’altra parte abbiamo il presidente del consiglio europeo, Tusk, che ha recentemente affermato durante una conferenza stampa, citando John Lennon, che: «Alcuni miei amici britannici mi hanno chiesto se la Brexit possa essere reversibile, e se io possa immaginare uno sviluppo che porti la Gran Bretagna a rimanere nell’Europa. Io ho detto loro che, in effetti, l’EU fu costruita su sogni apparentemente impossibili da realizzare. Quindi, chissà? Potreste dire che io sia un sognatore, ma non sono l’unico».
Il cappello europeista della regina
Il 21 giugno la regina Elisabetta ha tenuto il “Queen’s Speech”, il discorso inaugurale, scritto dal neo-governo ma letto dalla sovrana, della nuova legislatura. Tra i punti indicati dai ministri come focali nei piani del prossimo esecutivo spicca in primis, naturalmente, la questione Brexit e l’inizio del confronto con i vertici europei, che appena iniziato sembra già indicare l’aspetto di una uscita più soft, dopo la proposta della premier britannica di garantire diritti quali assistenza sanitaria e facilitazioni all’ottenimento della cittadinanza a tutti i cittadini EU che vivono in Gran Bretagna da almeno cinque anni.
Theresa May tuttavia ha voluto sottolineare altri importanti questioni su cui il nuovo esecutivo intende lavorare insieme alle camere, come la sicurezza in ambito informatico, il terrorismo, la pressione fiscale e la garanzia dei diritti civili. Questo discorso, elaborato e partorito di carattere forte, sicuro, che potesse colmare i dubbi sulla figura pubblica della premier, non ha però attirato l’attenzione dei media come forse la May sperava; il vero protagonista del discorso della regina è stato il cappello della stessa, blu e ornato di fiorellini gialli disposti circolarmente. Un indizio o forse un memo alla popolazione britannica, una lavata di mani o banale complottismo. Fatto sta che, se le grandi testate giornalistiche si interessano più al cappello della regina, il quale di certo non è l’ultimo copricapo appariscente che le vedremo indossare, piuttosto che al vasto e ambizioso programma del nuovo esecutivo, forse a nessuno importa veramente che intenzioni abbia Theresa May. Tutto ciò che le uscirebbe di bocca, ormai, è criticato a prescindere dalla opinione pubblica.
Questa coalizione non s’ha da fare
Con 317 seggi, la May non può quindi accompagnare la nazione verso l’hard Brexit che avrebbe desiderato, quantomeno non da sola. Non è segreto che la premier, che non intende rinunciare alla guida della nazione, sia propensa verso un accordo stabile con il DUP, nonostante i laburisti (ed alcuni conservatori) chiedano le sue dimissioni. Il Partito dell’unione democratica Nord-irlandese inizialmente era più propenso per un sostengo non accordato su carta, per garantirsi un’importanza non trascurabile nell’esecutivo con i suoi soli 10 seggi, ma la May ha insistito per stabilire un’alleanza che non le si rivolti contro in questo periodo così delicato. Gli incontri tra conservatori e una commissione del DUP sono stati frequenti nell’ultima settimana, ma sembra che per ora i colloqui siano stati solo “proficue chiacchierate”.
L’ipotesi di un’alleanza con il piccolo partito di destra ha scatenato non poche (ed ennesime) critiche nei confronti della premier, soprattutto considerate le posizioni estremamente ferme e conservatrici del DUP, come il rifiuto assoluto dell’aborto e di qualsiasi tipo di unione tra persone dello stesso sesso. In risposta, il segretario alla difesa Sir Michael Fallon ha ribadito che il partito conservatore non condivide le politiche sociali del DUP, e che una coalizione di governo riguarderebbe esclusivamente i grandi problemi di natura economica. Tuttavia, questo non basta per rassicurare i molti dubbi della nazione nei riguardi di un partito così fermo nelle sue posizioni sociali, che finirebbe per ritrovarsi in una posizione molto vantaggiosa in uno scenario così teso come quello che sta vivendo il Regno Unito.