«Bravissimi, avete vinto tutti!»
In seguito a ogni tornata elettorale che si rispetti, nessuno esce veramente sconfitto; perlomeno, dipende a chi lo si chiede. Che sia per velleità propagandistico-pubblicitarie, o per instillare fiducia in un elettorato che appare davvero demoralizzato su ogni fronte, nessun leader di partito oserà mai concedere l’onore delle armi agli avversari, per poi rivalutare la propria ideologia interna e iniziare una fase di autocritica. I ballottaggi del 25 giugno, pur avendo trovato il chiaro vincitore in un centro destra tornato dall’oltretomba, appositamente risvegliato dal negromante Salvini, hanno regalato all’opinione pubblica del Bel Paese la consueta ambiguità nell’interpretazione dei risultati. La politica del nuovo millennio, d’altra parte, si basa sul marketing e su quella particolare ondata di viralità che non va assolutamente interrotta dai feedback negativi. Forse anche perché, in una fase istituzionale caratterizzata da frammentazione e incompetenza, sussiste una sconfortante carenza di attori politici in grado di farsi valere per l’ottenimento di risultati concreti. L’estrema felicità di Adinolfi, che al primo turno aveva riportato una media del 3% di preferenze, avrebbe lasciato credere che il vero vincitore fosse lui. E così tutti gli altri: ancora una volta, qualcuno avrà pur vinto, ma nessuno ha veramente perso. Volendo guardare, neanche troppo attentamente, oltre questo sottile ma fitto velo di social Pravda dei vari partiti, in realtà gli sconfitti ci sono eccome.
Siete morti, ma anche noi non ci sentiamo molto bene
Danilo Toninelli, il Trockij dell’ideologia pentastellata, continua a ripetere che il M5s è la «prima forza del Paese», sorretto nel mantra dai suoi colleghi e da Beppe Grillo stesso. L’assioma del deputato può essere vero solo se si considerano come voti a favore gli astenuti e le preferenze accordate alla coalizione di centro destra. Procedimento che però sarebbe intellettualmente disonesto, dal momento che gli elettori in questione sembrano aver ignorato i Cinque Stelle già al primo turno delle presenti amministrative: la scelta di altro – o dell’astensione – non è stata affatto dettata dall’assenza grillina ai principali ballottaggi. Viceversa, ne è stata la causa.
Nondimeno, Grillo esulta e sottolinea ancora (a seguaci e investitori) come il suo partito stia vivendo una «crescita inesorabile». E lo fa, assennatamente, giudicando in modo relativo i risultati dei dieci ballottaggi cui il M5s è effettivamente giunto, vincendone otto. Ma le vittorie di Ardea e Guidonia costituiscono magra consolazione rispetto al black out nazionale, a meno che l’idea non sia quella di trasformare le cittadine in stazioni di ristoro per una prossima marcia su Roma. I grillini hanno perso la battaglia più importante della tornata, quella conquistata con fatica e dopo innumerevoli riconteggi ad Asti. Né la vittoria nei sette comuni minori, né la presa del “mezzo capoluogo” di Carrara possono legittimare un’ipotesi di crescita lontanamente simile a quella attualmente propagandata dall’intelligencija pentastellata.
Nelle due settimane trascorse tra il primo turno e i ballottaggi, nemmeno la nuova policy intransigente sull’immigrazione è riuscita a donare a Grillo e soci il ritorno sperato, almeno ad Asti, sebbene possa aver influito sulle vittorie nei comuni minori. Sorte ha voluto, oltretutto, che proprio in queste due settimane fosse riportato in auge il dibattito sullo ius soli, sul quale però il M5s ha preferito non sbilanciarsi ufficialmente, onde non alienare definitivamente la “sinistra grillina” nel tentativo di recuperare la destra. L’ipotesi di una nuova linea “filo-salviniana ma non troppo” è stata così stroncata sul nascere, di fronte a uno dei dibattiti chiave che si è subito trovata di fronte.
Importante sottolineare, tuttavia, come non si tratti di un sistema univoco: se Grillo non riesce a sottrarre voti alle destre, ciò non implica automaticamente che Salvini abbia racimolato ogni deluso pentastellato. L’astensione è la vera, toninelliana prima forza del Paese, tanto che dall’alto del suo 54% otterrebbe una vera e propria maggioranza assoluta in Parlamento. Il risultato dei ballottaggi va considerato congiuntamente a quello del primo turno, che pur in presenza del M5s ai seggi non è stato affatto positivo per quest’ultimo. Non bisogna perciò interpretare l’astensione come un diretto vantaggio per alcuna delle due parti populiste; essa va piuttosto a creare un vuoto fatto di delusione e diffidenza, i cui protagonisti si possono a ragione ricercare nella citata “sinistra grillina”. Se non per altro, quantomeno perché il populismo di destra già dispone di uno sfogo irresistibile nella Lega Nord. Allo stato attuale delle cose, nessuno sembra in grado di appropriarsi di quel tesoretto di sconfortati quantificato negli astenuti di entrambi i turni: che in futuro sia forse un Federico Pizzarotti, riconfermato con successo (57,9%) a Parma, a radunare a tale scopo un non trascurabile club di fuoriusciti a Cinque Stelle? La nascita del gentismo di centro sinistra è plausibile e sarebbe supportata dai dati in questione, ma non avverrà certamente dall’oggi al domani.
A trazione leghista, con motore a tre tempi
L’astensione può essere fatta propria dall’una o dall’altra parte, ma non è in ogni caso un voto valido. Tranne forse a Trapani, dove l’indagato Girolamo Fazio (Fi) aveva annunciato il proprio ritiro prima del secondo turno. Il concorrente Piero Savona (Pd), rimasto in corsa da solo, non è riuscito a raggiungere il quorum poiché l’affluenza si è fermata al 26,7%, dando luogo al commissariamento del comune siciliano. Vicenda assurda, e più dannosa per l’assetto strettamente istituzionale che non per gli equilibri politici locali.
Al di là del singolo caso, tuttavia, sono i voti espressi a contare: e questi, come avevamo preventivato all’indomani del primo turno, hanno favorito la coalizione di centro destra. La Liguria, per prima, opta per una ritinteggiatura estiva e cambia colore da rosso ad azzurro: a Genova e La Spezia vincono rispettivamente Marco Bucci (55,2%) e Pierluigi Peracchini (59,9%), confermando la scia di successi iniziata con l’elezione di Giovanni Toti alla Regione, e confermando la crisi d’identità di un territorio le cui radici di sinistra sono estirpate in sempre maggior misura a ogni nuova consultazione.
Ma a Berlusconi e Salvini non basta: in un solo colpo, riescono ad aggiudicarsi buona parte delle città dove giocavano in trasferta. Tra i maggiori comuni amministrati dal centro sinistra fino a domenica scorsa, infatti, la situazione è stata ribaltata platealmente. In Piemonte è en plein di centro destra, con Alessandria che va a Gianfranco Cuttica di Revigliasco (55,7%) e Asti, che dopo il ballottaggio con il M5s ha per nuovo sindaco Maurizio Rasero (54,9%). Entrambe le città erano state amministrate dal Pd nei passati cinque anni. Lo stesso vale per la Lombardia, dove Como, Lodi e Monza subiscono sorte simile: qui sono rispettivamente Mario Landriscina (52,7%), Sara Casanova (56,9%) e Dario Allevi (51,3%) a prevalere sui rivali del partito uscente.
La situazione si ripete anche in luoghi che, almeno direttamente, risultano meno sensibili all’apporto prorompente della Lega Nord in coalizione. È il caso di Pistoia, particolarmente rilevante poiché una città notoriamente “rossa” è stata conquistata dall’ex An Alessandro Tomasi (54,3%). Poco più a sud, il centro sinistra perde anche Rieti (Antonio Cicchetti, 50,2%), L’Aquila (Pierluigi Biondi, 53,5%) e Oristano (Andrea Lutzu, 65,17%).
Parallela sconfitta e parallelo cambio di regime, che pur non vedeva il Pd protagonista, a Verona. La moglie del sindaco uscente Tosi, Patrizia Bisinella (Fare!), era infatti stata sostenuta ufficialmente dai democratici per il ballottaggio, dal quale erano esclusi. La logica del voto utile in funzione “anti destre” non è stata sufficiente: Bisinella è stata sconfitta dal rivale Federico Sboarina (58,1%), mentre Tosi già lamenta, nonostante le parole, lo scarso apporto effettivo dell’endorsement venuto direttamente da Renzi: «Buona parte del Partito Democratico non è andata a votare».
Ma la festa della coalizione di centro destra, al di là dei numeri, è un party formale fatto di sorrisi di circostanza e finti complimenti. La tensione tra i due poli Berlusconi e Salvini si sta già facendo più alta, e ci si troverà presto a tirare le somme del probabile scontro a braccio di ferro tra i due leader. Matteo Salvini guarda orgoglioso i risultati dei ballottaggi, definendoli la prova di forza di una destra «a trazione leghista». L’innegabilità dell’affermazione è sotto gli occhi di tutti, e ciò costituisce la maggiore leva di scambio di cui il leghista dispone nei confronti dei compagni di coalizione. Silvio Berlusconi, dal canto suo, si limita a celebrare il successo parlando di «mandato» popolare per «essere uniti e cambiare il Paese», ma tende ad allontanare, per quanto possibile, l’ipotesi di un “modello Toti” su base nazionale.
Alle prossime politiche, infatti, l’eventuale presenza in coalizione di una Lega così agguerrita costringerebbe necessariamente l’ex Cavaliere a ridimensionare l’estensione del suo potere sul centro destra. Per di più, la costituzione di una siffatta lista sposterebbe, in contesto di legge elettorale, l’approccio berlusconiano verso un maggioritario che al momento, alle orecchie degli azzurri, sembra stonare e non essere ferma garanzia di successo contro il centro sinistra. Salvini sa bene che il momento è propizio, e non esita a punzecchiare immediatamente Berlusconi, accusandolo di «strizzare l’occhio a Renzi». L’imprenditore milanese risponde in modo plastico che si tratta di «una sua opinione», mutando atteggiamento dall’allegra elasticità con la quale aveva accolto un risultato di tutto il centro destra. Inoltre c’è Giorgia Meloni, per nulla intenzionata a rimanere indietro. Dopo l’insuccesso del suo album solista, la leader di Fratelli d’Italia ha abbandonato l’adagio del “molti nemici, molto onore” e si è riavvicinata ai compagni di merende, non sempre concordi con lei in quanto a politiche di leadership. In questo caso sceglie di fare eco a Salvini, rimproverando a Berlusconi gli «inciuci con Renzi» e annunciando solennemente che «la moderazione in politica non esiste più».
L’Italia che cambia verso, ma nel senso opposto
Il Pd, nel frattempo, ottiene il suo successo più importante a Padova, dove Sergio Giordani (51,8%) tiene subito a precisare una cosa: «io sono un imprenditore, non un politico». In effetti, il neo sindaco aveva già affermato con orgoglio, al momento della candidatura: «Non ho tessere di partito, non ho mai fatto attività politica né ho preso accordi con nessuno». La sua idea di amministrazione si basa sullo stesso concetto: una sorta di grande coalizione locale volta al compromesso, sulla falsariga di Milano. Quindi attenzione, per il Pd, a bearsi di una vittoria sì difficile, ma che probabilmente rimarrà “democratica” solo sulla carta. Nel resto dei principali ballottaggi, le vittorie Pd si contano sulle dita di una mano: Lucca, dove Alessandro Tambellini (50,5%) è rieletto al Comune; Taranto, che proviene da Sel e conferma in parte il suo orientamento con Rinaldo Melucci (50,9%); e infine Lecce, unica città strappata al centro destra con il supporto di Carlo Maria Salvemini (54,6%). In termini numerici, oltretutto, si tratta di vittorie nettamente più risicate rispetto a quelle ottenute dalla coalizione rivale.
Il primo a fare critica, ma non autocritica, è certamente Matteo Renzi. Il leader democratico, due giorni dopo i ballottaggi, compare in diretta web per puntare il dito verso le «continue, esasperanti polemiche nel centro sinistra». Ammette insomma la sconfitta, pur senza farla necessariamente sua: discute delle polemiche sulla “torta di Ricci”, il grafico con il quale si mostravano i migliori risultati dei Dem rispetto al M5s, ma si difende ricordando che «i nostri lo hanno detto subito, in tv, che abbiamo perso». Renzi incolpa inoltre il caso Consip, tornato da pochi giorni al centro dell’interesse mediatico. Pur senza il padre Tiziano in mezzo al turbine delle controversie, è evidente che lo scandalo costituisca «uno dei maggiori problemi di perdita di consenso» dell’ex sindaco di Firenze, influenzando il voto.
Il resto del Pd, inevitabilmente, ricomincia a mostrarsi critico verso il proprio segretario; esso rischia così di restare affetto dal proprio cronico disturbo d’ansia, che finisce inevitabilmente per ingigantire ogni fonte di turbamento. D’altra parte, il Pd ha rischiato di autodistruggersi ogni volta che è apparso necessario adottare un approccio autocritico. La prima voce a levarsi per placare gli animi è quella di Fassino, ben conscio della perenne fragilità del partito: invitando alla calma e all’unità, lascia trasparire dalla propria autorevolezza ben più di qualche preoccupazione. Questa si manifesta, in primo luogo, nelle parole di Zingaretti e Orlando, che chiedono un cambio della linea e favoriscono – parallelamente a quanto desiderato da Salvini – un ritorno alla coalizione; Orfini chiede di convocare il tavolo del centro sinistra, allegando da Twitter una fotografia di Romano Prodi. Quest’ultimo, afferma – o, meglio, auspica – Fassino, non è un personaggio passibile di diventare «sponsor di operazioni divisive», ma le recenti critiche del Professore e di Walter Veltroni, pur se sulla carta costruttive, nascondono del veleno nella propria lama. Tanto che anche Franceschini, stavolta, si ferma davvero a riflettere su cosa non abbia funzionato. Che il disturbo d’ansia prevalga o meno, la dirigenza democratica può solo sperare di rimanere, almeno questa volta, libera dal riemergere di un’altra sindrome familiare: la personalità multipla.
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