La morte è sempre dietro l’angolo. Non è una citazione, ma un dato di fatto. Nessuno vuole essere quello che, in giornata, finisce gambe all’aria nell’oscuro abbraccio del tetro mietitore, ma può succedere, e succede. Osservando www.worldometers.info (sito di statistiche e numeri in tempo reale su morti, nascite, economia e altro) muoiono in media 160.000 persone al giorno. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, sono 56.441.000 all’anno. A ucciderle, sempre secondo l’OMS e il suo ultimo rapporto, datato 2015, le cause più disparate: un 15,5% se n’è andato per patologie cardiache ischemiche, l’11,1% per ictus, il 5,7% per infezioni alle vie respiratorie, e così via fino agli ultimi posti di questa macabra top 20: 1,3% per cancro allo stomaco e 1,2% per trauma natale.
Che i numeri siano o non siano problematici per causa e volume sta agli esperti dirlo, c’è di fatto che questa, seppur vista attraverso delle statistiche, è la realtà delle cose, il ciclo naturale in cui ci siamo trovati a sguazzare per cultura o posizione geografica. Possiamo sfuggire per una modesta quantità di punti percentuali a questa corrente, forse liberarcene: mangiare sano e fare attività fisica riduce il rischio di malattie cardiache, fare attenzione e non guidare sotto effetto di sostanze psicotrope riduce il rischio di incidenti stradali, e via dicendo: tutti i cari, sentiti e risentiti, giusti consigli per non finire sotto terra.
Ma si può sfuggire a tutto? Una vita sana riduce i rischi, non li azzera. Se quindi, in definitiva, non abbiamo la certezza di morire di vecchiaia nel nostro letto (non meritandoci così il Valhalla) per impedimenti sanitari che rientrano nel ciclo naturale, cosa potremmo mai fare contro ciò che per definizione rappresenta il nostro annientamento in uno scenario assolutamente straordinario? Eventi catastrofici che confluiscono tutti, distintamente, nella fine della fine: l’apocalisse. Termine lievemente improprio e nato dalla letteratura religiosa, significa infatti “svelare”, dal greco, e adottato in seguito da ebrei e cristiani per indicare la rivelazione. Oggi comunemente usato per indicare la fine del mondo.
Ogni tanto è una parola che riaffiora sulla bocca di tutti. L’ultimo grande profeta di sventura globale citava il 2012 e il calendario Maya: l’anno della fine del mondo. È quantomeno evidente che il tutto sia stato una enorme montatura che ha fruttato ore di servizi ai telegiornali e soldi a scrittori più o meno scientifici. È probabile che nessuno di noi veda i grandi eventi catastrofici che, invece, la scienza pone nel gruppo dei teoricamente possibili, e forse nemmeno i figli dei nostri figli li vedranno. Scienza o no, forse è bene essere comunque informati.
La fine del mondo è sicura quanto la fine della nostra vita, in un modo o nell’altro. Lontana, imperscrutabile, ma sicura, che sia per mano nostra o per un evento naturale del tutto autonomo, qualcosa capiterà. Se non altro sarà l’incognita che toglierà “le tasse” dalla famosa frase, e seppur non significando annientamento globale, di certo sarà la fine del mondo per come lo conosciamo.
Thomas Robert Malthus, economista e demografo inglese nato nel diciottesimo secolo, sosteneva la teoria economica (chiamata ad oggi Malthusianesimo) secondo la quale la pressione demografica globale contribuisce all’impoverimento economico e planetario, contribuendo all’aumento di fame e mortalità e alla diminuzione irreversibile delle risorse non rinnovabili presenti sul nostro pianeta. La teoria è accompagnata anche da una serie di soluzioni, più o meno democratiche, per contenere la natalità ed evitare così l’annientamento. Nonostante la teoria sia stata originariamente partorita per giustificare delle misure di austerità economica, la fine delle risorse mondiali, energetiche o alimentari è un discorso già ampiamente trattato che pone le basi per un percorso poco sicuro per il pianeta.
Altra formula di cui si sente molto parlare è il cosiddetto riscaldamento globale per effetto serra. L’effetto serra è conseguenza diretta dell’immissione nell’atmosfera dei gas serra, come anidride carbonica, ossidi di azoto o clorofluorocarburi, unitamente alla deforestazione (che previene l’azione fotosintetica). Ciò comporta una maggiore accumulazione di radiazione infrarossa nell’atmosfera terrestre e conseguente aumento della temperatura, altra causa di tutta una serie di possibili eventi dall’effetto catastrofico. Inoltre l’effetto serra nutre sé stesso: l’aumento delle temperature ha un innegabile effetto sui ghiacciai. Il 40% delle terre emerse è coperto da ghiacci o neve perenne o stagionale e l’aumento della temperatura, come è ovvio pensare, influisce sul loro scioglimento portando grandi squilibri negli oceani in temperatura e salinità, oltre che aumentare la temperatura globale e i livelli del mare, mettendo a rischio molte città costiere. Questo per quanto riguarda i ghiacciai artici o antartici. Per i ghiacciai alpini il discorso è leggermente diverso ed ha una conseguenza direttamente osservabile per l’uomo. Questi manti ghiacciati, infatti, sono fonte primaria di acqua nelle stagioni più secche e il loro scioglimento incontrollato o totale sparizione porterebbe enormi problemi al ciclo idrico, ciclo da cui dipendono in primis le coltivazioni. Secondo i dati del WWF, lo scioglimento dei ghiacciai alpini cinesi potrebbe influire direttamente sulle scorte idriche di quasi 2 miliardi di persone, mentre la sparizione di quelli del Himalaya influirebbe negativamente sul 65% delle coltivazioni indiane.
Dal Giurassico e dal Cretaceo ci arrivano prove di due eventi, molto rari, che hanno causato estinzioni di massa e conseguente squilibrio nell’ecosistema, seppur abbastanza localizzato. Si dice evento anossico: una sostanziale diminuzione della quantità di ossigeno in zone marittime. Gli eventi documentati sono accaduti in concomitanza a un periodo di elevate temperature, forse date dall’aumento dell’anidride carbonica nell’aria per via di una massiccia ed estesa attività vulcanica, che hanno, di per sé, favorito l’abbassamento del livello di ossigeno delle acque superficiali. Due teorie completano questo quadro aggiungendo ognuna un altro fattore: o l’aumento di nutrimenti provenienti dalle terre emerse, oppure il difficoltoso ricambio tra le acque in superficie e quelle in profondità. Certo, è bene dire che a oggi non esistono prove sulle cause di eventi anossici, ancora meno a livello non localizzato, ma le teorie esistenti partono comunque dal presupposto che l’aumento della temperatura è un fattore coadiuvante.
Era una fredda mattina di giugno del 1908 nella taiga siberiana, e arrivò la distruzione. In seguito fu chiamato l’evento Tunguska (dal nome della regione): un pezzo della cometa Encke o un “semplice” asteroide, secondo le varie teorie, del diametro superiore ai 50 metri, esplose tra i 5 e i 10 chilometri sopra la zona, provocando un’onda d’urto simile ad una bomba atomica di potenza compresa tra i 3 e i 5 megatoni (stima postuma, al ribasso), che spianò 2.150 chilometri quadrati di taiga, distruggendo milioni di alberi, facendo quasi deragliare alcuni treni distanti 500 km dal punto di impatto e illuminando a giorno il cielo di Londra.
Per quanto, nell’immaginario comune, la possibilità di un impatto meteorico abbia un sapore ormai tipicamente hollywoodiano, è successo ed è a oggi assolutamente possibile. Secondo un documento redatto da tre professori dell’Imperial College e della Purdue University, basterebbe un “sassetto” del diametro di 10 metri che esploda a 30 chilometri di altezza per generare un’onda d’urto di poco superiore al Little Boy che rase al suolo Hiroshima, con i suoi 16 chilotoni. Certo, più l’asteroide è piccolo più aumenta l’altitudine alla quale si degrada fino a esplodere, meno è il danno prodotto al livello del suolo, infatti questi eventi sono molto frequenti, quasi ogni 10 anni, secondo lo stesso documento. Ci sono però di fatto molti di questi sassetti a viaggiare nel vuoto cosmico, lassù, la maggior parte dei quali già osservati speciali dalle agenzie spaziali di tutto il mondo. Sono quasi 800 i NEO (Near Earth Objects) controllati oggi dal Sentry, uno strumento della NASA atto a trovare questi corpi celesti e a catalogarne la pericolosità. Al giorno d’oggi il più pericoloso sulla scala Palermo (scala che classifica i meteoriti secondo la probabilità di impatto) è 29075 (1950) DA, un ciottolo di 1.300 chilometri di diametro alla deriva nello spazio alla velocità approssimativa di 18 km/s che potrebbe colpire la terra nel 2880 con una probabilità dello 0,012%. Va bene, forse non è così pericoloso, ma la scala di pericolo muta ad ogni osservazione, anche a nostro favore: Apophis aveva il 2,7% di probabilità di colpire la terra, fino al 2004, ma è scesa allo 0,0004% secondo una ulteriore osservazione avvenuta 5 anni dopo, nel 2013 è invece stato del tutto tolto dalla lista NEO.
Se “riconnessione magnetica” non vi dice nulla, forse “brillamento solare” verrà in vostro soccorso. Quando nel plasma di una stella avvengono scompensi magnetici e riconnessioni tra poli inversi, viene liberata una enorme quantità di energia cinetica e termica, nella fattispecie, brillamenti solari che innalzano colonne di plasma e fuoco dalla superficie, con la potenza di migliaia di bombe atomiche, accelerando un gran numero di particelle, che viaggiano nello spazio con la loro enorme quantità di carica energetica. Ecco quindi il già citato brillamento o flare solare. Questa è la causa della mozzafiato aurora boreale, ma anche uno dei pericoli maggiori per gli astronauti, al di fuori dello scudo magnetico e atmosfera terrestre. Scudo magnetico che non sempre è all’altezza, in base all’intensità del brillamento stesso. Nel 1989 ci fu un flare così forte che portò l’aurora boreale nei cieli del Texas e della Florida, ma soprattutto mise K.O. le comunicazioni radio e gran parte della rete elettrica del Hydro-Quebec’s Electricity Transmission System, rete che collega Quebec City e Montreal a centrali elettriche molto distanti nella regione. Il blackout durò 9 ore.
Il più potente mai osservato fu l’Evento Richard, il primo flare scoperto, nel 1859, da Richard Carrington. Visibile ad occhio nudo, mandò in tilt le comunicazioni telegrafiche, provocò incendi e lasciò tracce di isotopi radioattivi nella distesa nevosa della Groenlandia (misurabili ancora oggi).
Il pericolo di un’apocalisse non viene solo dal cielo, sottoterra succedono cose che noi umani… Eyjafjallajökull: se il complicato nome non vi dice nulla forse non avevate un aereo da prendere nell’aprile 2010, quando l’eruzione di questo vulcano islandese creò una nube di cenere così ampia e densa da paralizzare il traffico aereo europeo. Andò relativamente bene, considerando che le eruzioni vulcaniche sono comunque uno dei pericoli mortali per la vita sul nostro bel pianeta. Si hanno indizi, infatti, che violente eruzioni vulcaniche avvenute nel passato abbiano avuto un grande impatto sulla vita del mondo intero: estati particolarmente fredde o comunque cambi di temperatura che hanno ritardato i raccolti, mettendo in ginocchio le economie locali o provocando, addirittura, anni di carestie. Certo, di nuovo, ci troviamo di fronte a delle teorie, ma l’inverno vulcanico è una possibilità temuta. I gas emessi dall’attività vulcanica hanno un effetto sulla temperatura locale o globale in base alla loro violenza. Un’attività calma ma prolungata può produrre una gran quantità di anidride carbonica e partecipare così all’effetto serra mentre un’esplosione riversa nell’atmosfera grandi quantità di cenere e acido solforico in modo improvviso, che aumentano la riflessione delle radiazioni solari, diminuendo drasticamente la temperatura terrestre. Giusto per avere una scala, secondo varie fonti archeologiche il Lake Toba, in Indonesia, eruttò 76.000 anni fa, gettando nell’atmosfera 2.800 chilometri cubici di detriti e tra le 2000 e le 4000 tonnellate di acido solforico. Non una delle più grandi eruzioni documentate (sempre a livello archeologico) ma comunque una di quelle classificate come VEI 8 (Vulcanic Explosivity Index, con 8 il suo valore massimo, ovvero con più di 1000 chilometri cubici di materiale espulso).
Per quanto possibili, alcune di queste catastrofi sono ancora lontane dall’essere un vero e proprio pericolo, eppure sono eventi che occorrono ogni giorno, e un lieve aumento in intensità o una piccola spinta da parte dell’uomo posso essere il sasso che da inizio alla valanga.
Le teorie fantasiose sono sempre le più divertenti: chi non preferirebbe cadere per il laser deatomizzatore di una bellezza aliena, piuttosto che vaporizzato all’istante per un impatto meteorico?
L’ancestrale domanda: “siamo soli nell’universo?” ancora non ha una risposta certa. L’equazione di Drake, una formula matematica atta a calcolare la probabilità che ci sia vita nella Via Lattea, al contrario di quanto si possa pensare non viene in nostro soccorso. L’equazione, per sua natura e per la natura della nostra odierna conoscenza dell’universo intorno alla Terra, è troppo vaga e, secondo Drake stesso, più un incoraggiamento alla comunità scientifica, che di certo non è ferma a guardare. Metaforicamente, perché in senso letterale lo è, ed è l’unica cosa che può fare: osservare. A prendersi carico di questo difficile e controverso compito è il SETI (Search for Extraterrestrial Intelligence), l’istituto fondato nel 1974 da Drake stesso. Spesso finanziato dal governo dagli Stati Uniti, è oggi uno dei programmi più sicuri per la ricerca extraterrestre, e osserva costantemente lo spazio in cerca di anomalie, le quali potrebbero denotare la presenza di intelligenze extraterrestri. Ogni anomalia viene vagliata attraverso la scala di Rio: in base a vari elementi come classe del fenomeno, fautore della scoperta, distanza e credibilità del rapporto, viene prodotto un punteggio che va da 0 a 10, con 0 “Perché ho perso tempo leggendo questo rapporto” e 10 “Possiamo smettere di chiederci se siamo soli nell’universo”. Secondo una studiosa di punta del SETI, Jill Tarter, oggi direttrice, un contatto alieno sarebbe devastante per l’umanità, prima di tutto perché viaggiare nello spazio fino a raggiungere i confini del nostro pianeta comporta un livello tecnologico non ancora nemmeno immaginabile per gli esseri umani. Il gap tecnologico sarebbe così profondo che ai loro occhi saremmo poco più che all’età della pietra. Lo stesso Stephen Hawking si è permesso di mettere bocca nel discorso alieni/non-alieni, ricordando a tutti cosa è successo quando una società ne ha incontrata un’altra tecnologicamente meno avanzata.
Il Pentagono teme gli zombi. No, non è del tutto vero. Ciò che è vero è il piano CONPLAN 8888-11, anche detto “Counter-zombie dominance”, del 30 aprile 2011: e come dicono le prime parole del disclaimer, «This plan was not actually designed as a joke». Continua, anche, dicendo che è un espediente per allenare un gruppo di nuovi aspiranti analisti nello stilare piani di emergenza, analizzando fatti, assunzioni, compiti da specificare o impliciti ecc.
Un piano a prova di bomba già dalle sue premesse, dato che prende in considerazioni ogni tipo di genesi zombi: di natura patogena, radioattiva, alla lettera “evil magic zombies”, zombi spaziali, galline zombi e anche i non-morti vegetariani. Si preoccupa di specificare l’unico modo per esser sicuri di aver ucciso uno zombi (bruciarlo, per la cronaca) e si dilunga in descrizioni molto tecniche su catene di comando, operazioni difensive, offensive, di salvaguardia civile e del governo, della potenza di fuoco opportuna in base alla minaccia, regole per la quarantena, ecc. Perché gli zombi? Secondo i comunicati del Pentagono una tale minaccia rappresenta, se assunta come verosimile, un pericolo immenso, esteso e difficile da controllare e contenere. Un’apocalisse zombi sarebbe quindi una grossa grana per l’umanità, ma finché se ne staranno nei film di Romero siamo tutti più che al sicuro.
Stephen Hawking ed Elon Musk invece, non esattamente due scemi del villaggio, hanno spesso parlato di intelligenza artificiale, specificando che sarebbe meglio se tale intelligenza rimanesse sempre e solo sotto costante controllo umano. HAL 9000 è ancora un miraggio, ma i passi se non da gigante sono stati comunque fatti. AlphaGo, un’intelligenza artificiale creata per giocare all’antico gioco da tavolo cinese Go, ha, nel 2016, battuto il campione in carica, apprendendo non solo da milioni di mosse “osservate” durante altre partite, ma anche da sé stesso. Due anni prima Eugene Goostman, intelligenza artificiale programmata per simulare un tredicenne ucraino, ha convinto l’un terzo dei giudici della Royal Society di Londra, i quali lo hanno sottoposto al famoso test di Turing – secondo il quale una intelligenza artificiale è tale se convince un interlocutore di essere umana.
I passi da gigante sono stati fatti nel frattempo nella robotica, altra branca che, oltre che gli informatici, preoccupa gli economisti, dato che si prospetta sempre più un futuro dove saranno le macchine la forza lavoro. Quindi mentre gli economisti tremano per l’impatto che questo radicale cambiamento avrà sul mercato del lavoro, scienziati e informatici temono un mondo in cui la produzione è in mano alle macchine e, verosimilmente, a una potenziale Skynet di noi altri. È bene specificare che solo poche preoccupazioni vengono per ora espresse in merito, proprio perché la ricerca, oggi, si ferma a intelligenze artificiali deboli e meccaniche, lontane dalla profondità della mente umana. Questo potrebbe comunque essere un problema futuro, a oggi totalmente imperscrutabile.
Come visto, quindi, ci sono molti scenari possibilmente apocalittici ad attenderci. Alcuni lontani e altri meno, alcuni assolutamente impossibili altri così possibili da essere probabili, e molti sono anche quelli non citati. È bene preoccuparsi? Non troppo, ma, per tornare ai consigli iniziali, meglio tenere a mente anche quest’ultimo: «Fatti il bidet, se esci e fai un incidente non vorrai andare in ospedale tutto sporco».
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