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Fortress Europe: lavarsi le mani nel sangue dei migranti

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Valerio Bastianelli

Parole grosse e fuori luogo

Quand’è che una situazione difficile inizia a farsi indiscutibilmente spinosa? Senza timore di essere smentiti, si potrebbe rispondere: quando un Paese neutrale dal 1955 decide di schierare al proprio confine meridionale 750 militari e quattro mezzi corazzati. Rileva poco, poi, se la decisione presa la scorsa settimana dal Ministero della Difesa austriaco abbia avuto vita breve. Il cancelliere Christian Kern ha addirittura definito l’intera kermesse «un malinteso»: a voler leggere tra le righe, un escamotage per ribadire la volontà di cooperazione europea, ma allo stesso tempo senza l’intenzione di gridare alcun mea culpa rispetto ai propositi innanzi propugnati e poi abnegati. Nessun malinteso, però: le direttive austriache erano chiarissime, come lo è la ragione non troppo occulta che ne ha causato questo abbozzo di attuazione. Uno dei primi a sottolinearlo, lucidamente, è stato Arno Kompatscher, presidente della provincia autonoma di Bolzano. Rispondendo alla comprensibile preoccupazione del settore turistico-commerciale, minacciato dai controlli di frontiera, Kompatscher ha inteso stemperare la tensione chiarendo per tutti: «messaggio di tipo elettorale; c’è da considerare che Vienna si prepara alle elezioni».

D’altra parte, non è molto più che un segreto di Pulcinella: quello dei migranti sarà, in tutta Europa, uno dei principali temi di dibattito delle prossime elezioni nazionali. Ed esso sarà indubbiamente, ancora una volta, strumentalizzato dalle parti interessate per accrescere e stabilizzare il proprio potere. Nessuno ha di certo dimenticato il rischio di “deriva populista”, vero leitmotiv del passato biennio elettorale nel Vecchio Continente; tuttavia, e a maggior ragione, non occorre scordare chi emerse vincitore dalle recenti e sofferte consultazioni in Austria. Chi avrebbe immaginato, alla vittoria dei Verdi dello scorso anno, la sola ipotesi di uno schieramento militare “anti migranti” che parrebbe piuttosto appannaggio dell’Fpö, la destra populista che in quell’occasione fu sconfitta miracolosamente?

Non è la prima volta che gli Austriaci intendono mostrare i muscoli al confine. Nell’aprile del 2016, il tentativo di chiusura del Brennero fu contraddistinto da manifestazioni e proteste. (ANSA)

Se l’attuale situazione è opera di un governo a guida Die Grünen, uno dei diversi “fari” disseminati per l’Europa contro il buio del populismo, non si faccia l’errore di ritenere la cosa trascurabile né, per questo, meno grave. Al contrario: la vera preoccupazione deve affiorare adesso, cercando di prevedere e prevenire con il buon senso una tale inversione di rotta nel dibattito politico. Probabile, certamente, che si tratti di parole grosse lasciate al vento in ottica elettorale, senza la volontà di andare poi a rivendicarle; ma, anche a voler nascondere la mano, un sasso lanciato farà sempre male. Specialmente se, a lanciarlo, non è il ragazzaccio di quartiere che tutti si aspettano, ma lo studente responsabile di turno.

Al di qua delle Alpi, ultimamente, l’ha capito a proprie spese chi difende i sistemi di accoglienza e integrazione dei migranti. La direzione nazionale del Partito Democratico, ancora intenta a leccarsi le ferite riportate alle comunali dello scorso 25 giugno, ha deciso di concedersi un grosso scivolone che ha oscurato – in negativo – le preoccupazioni emerse dai recenti ballottaggi. Che si tratti di suicidio politico o di semplice errore di comunicazione, conta davvero pochissimo: in un colpo solo, materializzatosi sotto forma di post su Facebook, il Pd è riuscito a retrocedere su tre fronti. In primis, ha gridato al Paese l’incertezza della propria linea politica, generando un ritorno di fiamma che non tarderà a ustionare un partito già scosso dagli ultimi esiti delle urne. In secondo luogo, si è alienato quella frazione non xenofoba dell’opinione pubblica, che proprio nei Democratici aveva finora inquadrato la miglior speranza nazionale contro il populismo, e le cui affermazioni nel dibattito politico perdono adesso di una non trascurabile consistenza. Infine, ha dato modo ai diretti rivali di uscire rinvigoriti dalla diatriba, anziché indeboliti e privati del supporto del populista indeciso.

Solo uno slogan, si potrebbe dire. Ma la politica odierna, a seconda del tipo di elettore che si tenta di fidelizzare, è portata a tenere in ampia considerazione le attuali frecciatine istantanee da social network. Per di più, nello strizzare l’occhio al populismo, il Pd non è assolutamente credibile: si tratta, forse, dell’unico partito italiano che vi sia immune per natura. Per questo l’«Aiutiamoli a casa loro», tratto dal libro di Matteo Renzi di prossima pubblicazione, non inganna né l’elettore, né il detrattore dei Democratici. Con un simile presupposto, è probabile che il volume di Renzi sarà un successo editoriale pazzesco; ma da questa linea politica, insostenibile sia per il Pd che per l’Italia, occorre allontanarsi alla svelta. D’altronde, a quest’inaspettata fonte ha già iniziato ad abbeverarsi avidamente Matteo Salvini. Il social media manager del leghista ha subito ripreso il post del Partito Democratico per farlo proprio, di fatto sottolineando quanto finora asserito. Il suddetto post, prima di essere cancellato – chissà se per ripensamenti o in quanto spoiler del libro – è perfino riuscito in un’impresa alla quale nessuno teneva: ridare visibilità a Forza Nuova.

La peculiare, nuova linea sui migranti del Pd è stata raccolta e riproposta dai principali detrattori, i quali paradossalmente rischiano di riscuoterne un successo maggiore. (Facebook)

Quanto basta per dormire la notte

Al di là delle parole e del loro significato, resta evidente come la cooperazione europea rimanga, nella pratica, l’elemento fondamentale per la risoluzione dell’emergenza migranti. Chi si ricorda del naufragio avvenuto l’11 ottobre 2013 al largo di Lampedusa? Dei 480 passeggeri di un barcone che si capovolse, ne perirono 268. La richiesta di soccorso, inoltrata da un medico siriano presente a bordo, rimase inascoltata per cinque ore: il tutto mentre la guardia costiera italiana e quella maltese si rimbalzavano a vicenda la responsabilità, coordinandosi – o, piuttosto, mancando di farlo – tra fax e telefonate in un inglese stentato. La nave Libra della Marina italiana si trovava a sole dieci miglia nautiche di distanza, e sarebbe stata in grado di soccorrere in tempo i naufraghi. Dopo quasi quattro anni da quel disastro di negligenza e disorganizzazione, i framework di cooperazione europea sembrano godere di massima sfiducia: del resto, lo sforzo verso l’efficacia degli stessi non ha mai superato il minimo sindacale.

Il ministro dell’Interno Marco Minniti, che già incontra opposizione nel voler alleggerire il carico dell’accoglienza gravante sulle regioni meridionali, trova un sentiero ancora più scosceso quando è necessario rivolgersi all’Europa. L’Italia, d’altra parte, si trova in una situazione non invidiabile: obbligata dalla geografia – e dal diritto internazionale – al salvataggio delle povere anime in balia del mare, vede l’ipocrita ammirazione nei suoi confronti mutare in vera e propria ignavia, quando si tratta di ripartire i doveri con il resto dell’Unione. In effetti, come riporta Minniti enunciando i dati ufficiali, nei primi sei mesi del 2017 solo l’11% dei salvataggi nel Mediterraneo centrale reca il marchio Frontex: la maggior parte di essi è stata condotta dalle Ong (34%) e dalla Guardia Costiera italiana (28%). Gli sforzi operati dall’Europa per arrestare la rotta balcanica, attraverso gli aiuti a una Turchia che minacciava velatamente di non alzare un dito, non sono corrisposti inun’equivalente efficacia per quanto concerne il fronte libico. Dallo scorso gennaio a oggi, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni ha registrato l’arrivo dal Mediterraneo di oltre 101mila persone, delle quali l’85% è giunto in Italia, mentre il resto è stato ripartito tra gli altri Paesi costieri operanti i salvataggi, in primis Grecia (9%) e Spagna (6%).

L’incidente, per i due protagonisti, sarà pure chiuso. Ma il comportamento del Parlamento europeo è un ottimo riassunto della scarsa propensione a discutere di una crisi affrontata in primo luogo dall’Italia e dagli altri Paesi costieri. (EPA/Julien Warnand)

Solo sulla carta può questa chiamarsi “cooperazione europea”, come ha mostrato anche la surreale parentesi dello scorso 4 luglio al Parlamento europeo. Solo una trentina di eurodeputati su 751 si sono degnati di presenziare alla seduta plenaria relativa al semestre di presidenza maltese – in presenza del premier del Paese Joseph Muscat – e all’emergenza migranti. Per giudicare il comportamento dell’assemblea si è dovuto scomodare, ebbro di indignazione, uno Jean-Claude Juncker lì chiamato a relazionare per conto della Commissione: «Il Parlamento europeo è ridicolo». Una sgradita, seppur significativa, rottura di protocollo, che gli è valsa l’ammonimento di Antonio Tajani. Nella stessa sede, Juncker ha ricordato la volontà di «rimanere solidali, soprattutto con l’Italia che dimostra un atteggiamento eroico», pur essendo la Commissione dotata di «mezzi tecnici e finanziari limitati».

In sostanza, sarebbe necessario sormontare quelli che è ancora Juncker a definire «egoismi nazionali», i quali tuttavia sembrano pervadere ben più della sola Austria. In particolare, i recenti interventi da parte francese sono stati notevolmente critici. Emmanuel Macron aveva già invitato a fine giugno, dall’alto del suo trono nuovo di zecca, a distinguere i migranti economici dai richiedenti asilo. L’affermazione è di per sé corretta, ma fuori luogo rispetto all’attuale emergenza sbarchi (i migranti non sono ovviamente tratti in salvo in base allo status politico) ed è perciò interpretabile come un preventivo scaricabarile in vista della ripartizione. Lo stesso premier Edouard Philippe, di fronte al Parlamento francese, ha definito la presente linea sull’accoglienza con: «Accogliere sì; aiutare sì; subire no, mai». Il che, ça va sans dire, non vale quando a subire sono gli altri Paesi europei. Ma il muso duro non è prerogativa unicamente transalpina: l’Ue ha avviato una procedura di infrazione verso Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria, le quali – politicamente ostili alla ripartizione – non hanno ottemperato alle procedure concordate nel 2015, e non si sono degnate di accogliere entro i loro confini le quote di migranti rispettivamente spettanti.

La partita si gioca in Libia

Anche la cooperazione internazionale resta insufficiente. In questi giorni lo sa bene il premier Paolo Gentiloni, tornato dal G20 di Amburgo con le pive nel sacco, complice il rifiuto dei suoi omologhi – in particolare russi e cinesi – di aprire alle sanzioni verso il traffico di esseri umani. Quelli che il Presidente del Consiglio definisce «passi avanti, del tutto insufficienti» hanno più il sapore di una dichiarazione di intenti volta a riconoscere l’esistenza globale del problema, piuttosto che affrontarlo. Eppure, in fin dei conti, il modo migliore – forse l’unico – per sventare l’emergenza migranti passa proprio da una cooperazione internazionale efficiente.

Zuwarah, ovest di Tripoli. Il 2 giugno 2016, il Mediterraneo ha restituito alle spiagge libiche 85 cadaveri di naufraghi. (EPA)

È sempre Minniti a ricordare come «il 97% delle persone salvate nel Mediterraneo centrale vengano dalla Libia, e che [tra essi] non ci sia un libico». E questo dato, sebbene possa non risultare particolarmente rilevante, è in realtà fondamentale: indica il campo sul quale va giocata la partita, se si ha intenzione di vincerla. La Libia, oggi, è difficilmente definibile un Paese a tutti gli effetti; sebbene il governo locale si stia sforzando di cooperare con Italia ed Europa in merito all’emergenza migratoria, al momento non dispone né di risorse né di disciplina sufficienti per essere realmente incisiva. Risale a metà giugno, per la cronaca, la denuncia di Human Rights Watch che accusa le motovedette libiche di sparare sui naufraghi in acque internazionali, e di «assumere comportamenti sconsiderati durante le operazioni di soccorso». E questo non è il solo problema: è in Libia che l’Europa deve agire, in modo diretto, se vuole sperare di smantellare la tratta di esseri umani che in quel Paese è basata, da lì opera e da lì manda individui disperati – provenienti da mezzo continente africano – a tentare la sorte contro il mare.

L’adagio deve divenire chiaro a tutti: salvare i migranti in mare significa essere già in ritardo. Significa tentare di rimuovere le metastasi, senza estirpare il tumore vero e proprio. L’attività criminale degli scafisti va fermata in Libia; richiedenti asilo, rifugiati politici e migranti economici vanno identificati sul posto, ed eventualmente salvati dai loro drammi in maniera ufficiale e sicura. Se davvero c’è un modo di “aiutarli a casa loro”, non può passare per altri canali che questo, e in ogni caso non prescinde dal meccanismo di accoglienza. Si tratta, ovviamente, di attività che ledono la sovranità – già incerta – del Paese, e che proprio per questo motivo necessitano di una cooperazione internazionale corposa e adeguata. L’Onu, da troppo tempo bella addormentata il cui bacio di risveglio non arriva, sarebbe il soggetto adatto per la sua universalità e imparzialità, ma nessuno sembra volervi ricorrere in termini diretti per una simile operazione. Le Nazioni Unite, pur sforzandosi di indicare agli Stati una soluzione “all’origine” della migrazione, non sembrano essere – da molto tempo – la via a essi gradita per risolvere la questione.

Rimane quindi la collaborazione multilaterale, che richiede immenso sforzo tecnico ed economico, fatto salvo quello diplomatico, e sembra quindi destinata a giacere nell’iperuranio delle idee malviste. Finché non si è nei panni di un Paese come l’Italia, s’intende. Ma siamo certi che i danni economici provocati da questa emergenza non si riveleranno essere di gran lunga superiori ai costi necessari per arrestarla in tempi brevi? E, soprattutto, è davvero questa la domanda che – da esseri umani – dovremmo porci?


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