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Il Brasile dopo Inacio

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Carlo Paganessi

L’esperienza di governo di Dilma Vana Rousseff era nata nel 2010 sotto gli auspici di un socialismo continentale che attraversava tutto il continente sudamericano, con le sue punte più estreme rappresentate dal chavismo in Venezuela e da Evo Morales in Bolivia, fino a sfumature più tenui come quella della Kirchner in Argentina e della Bachelet in Cile. Salvo quelle di più lungo periodo (come il Venezuela di Chavez), buona parte di queste esperienze traggono le mosse dalla violenta crisi economica che nel 2001 sconquassò l’economia argentina, danneggiando anche quella dei paesi che intrattenevano rapporti commerciali stretti con Buenos Aires. L’episodio danneggiò l’intera economia sudamericana e lo scenario politico visse una forte polarizzazione in tutto il continente, come spesso accade in questo tipo di situazioni.

Luiz Inacio Lula da Silva, ex presidente del Brasile ed ex metalmeccanico

Il governo Rousseff successe a quello dell’ex operaio metalmeccanico Inacio Lula, anch’egli di stampo socialista. Il governo Lula aveva avviato diversi piani di riforma volti a consolidare la posizione economica della classe media brasiliana. Tra gli atti più importanti (poi continuati e consolidati sotto la presidenza Rousseff) si ricorda il Brasil sem miseria, un vasto piano di sussidi che nel giro di pochi anni ha contribuito ad aumentare l’indice di sviluppo umano del Brasile di oltre il 30%. Con la presidenza Lula, inoltre, il Brasile era entrato a far parte del gruppo di paesi denominato BRICS e che ricomprende, oltre allo stato sudamericano, anche Russia, India, Cina e Sud Africa. Questi paesi avrebbero dovuto fornire un contraltare agli Stati Uniti scongiurando il mondo unipolare (ovvero tutti i paesi uniti dietro Washington) e avviando una concezione multipolare delle relazioni internazionali.

Dilma sembrava assurgere alla presidenza nella migliore delle condizioni di partenza, ma alcune circostanze ne hanno fortemente minato l’operato. Prima tra tutte la crisi dei mutui subprime del 2008, originata negli Stati Uniti, che ha colpito il paese in maniera attenuata rispetto ad altre realtà come quelle dell’Europa meridionale, ma ha comunque prodotto una notevole contrazione dell’economia. Tra i fattori interni, inoltre, il paese ha dimostrato di non riuscire a ridurre il debito da un lato, per gli ingenti contributi erogati alle fasce più deboli della popolazione garantiti da Lula, mentre dall’altro hanno pesato gli investimenti per il Mondiale di calcio del 2014 e le Olimpiadi di Rio del 2016, con eventi che non hanno avuto il ritorno economico e di visibilità (che si traduce in un soft power politico) che ci si aspettava.

Dal lato della politica estera il Brasile non è riuscito a mantenere le promesse dell’inizio del millennio, considerando la minore scala della propria economia rispetto alle aspettative dei primi anni 2000 e l’incapacità di porsi alla testa di un “polo sudamericano” che facesse sentire la propria voce e usi affrancasse da quella concezione di “giardino di casa degli Stati Uniti” che viene affibbiata al continente latinoamericano da quasi due secoli a questa parte (più precisamente, con l’enunciazione della dottrina Monroe nel 1823). Tale compito è stato assunto da altri paesi, facilitati dal fatto di non essere l’unico paese lusofono in mezzo agli ispanofoni: il Messico, il Cile e l’Uruguay hanno preso per mano il continente negli ultimi anni, senza che il Brasile riuscisse a elaborare alcunché di rilevante.

Dilma Vana Roussef, presidente del Brasile tra il 2010 e il 2016

Tali enormi difficoltà riscontrate in politica estera sono lo specchio delle difficoltà riscontrate sul piano interno. Durante il primo mandato le cose per la Rousseff sono rimaste “in linea di galleggiamento”, con una sostanziale prosecuzione delle politiche attuate da Lula e diversi tentativi di ridimensionamento della spesa pubblica con il taglio di alcune misure di protezione (compensate dal taglio di alcune tasse concernenti le transazioni bancarie che in un primo momento le portarono grande popolarità).

Dilma venne poi travolta dagli scandali, uno su tutti quello legato alla compagnia petrolifera nazionale (Petrobras). All’inizio di marzo del 2014 la Corte suprema brasiliana ha autorizzato le indagini su 54 persone, 49 delle quali erano dirigenti o membri di alto profilo del PT (Partido dos Trabalhadores – Partito dei Lavoratori). I fatti risalivano al momento in cui la Rousseff era membro del Consiglio d’Amministrazione della Petrobras, sebbene in un primo momento, secondo i giudici, lei fosse totalmente estranea alla vicenda. Nel frattempo a ottobre si tennero nuovamente le elezioni, che il PT vinse con un certo vantaggio sul Partito Socialdemocratico, riconfermando la Rousseff come presidente nonostante gli scandali.

Nel secondo mandato, tuttavia, il proseguimento delle indagini mostrò come, ad approfondimenti giudiziari in corso, la Rousseff fu totalmente incapace di fare quadrato all’interno del proprio partito e all’interno della propria coalizione, costruendosi anzi dei nemici in casa come l’ex presidente della camera Eduardo da Cunha, dimessosi nel 2015 a seguito del coinvolgimento nello scandalo petrolifero. Il colpo di grazia arrivò con le accuse (nate in seguito alle indagini sulla Petrobras) su come la Rousseff avesse truccato i conti per far apparire alcune delle misure di assistenza sociale come pienamente coperte a livello economico. Gli effetti di tale comportamento si videro già all’inizio del secondo mandato, quando la presidente fu costretta ad annunciare nuove politiche di austerità.

La procedura per l’impeachment venne avviata nel settembre 2015 e l’intero iter (votazione di ammissione in commissione, sospensione e votazione finale) durò un anno, durante il quale la Rousseff venne sospesa dalle proprie funzioni e il 12 maggio il governo del paese venne affidato a Michel Temer. L’ex alleato ed ex presidente della Camera da Cunha fu definito la forza trainante dietro l’impeachment della Rousseff, il cui iter si concluse definitivamente il 31 agosto 2016 con la definitiva rimozione della presidente e la conferma dell’attribuzione del mandato a Michel Temer. L’ormai ex presidente ha parlato di colpo di stato e di forzatura dell’ordine costituzionale, ma tale definizione si scontra impietosamente con la realtà dei fatti che oltre a vedere la procedura d’impeachment seguita nella sua interezza, vede anche uno stato di cose in cui il governo dell’ex sindacalista era ormai insostenibile date le rivolte in piazza e l’erosione costante del consenso popolare.

Con la presidenza Temer l’approvazione dei brasiliani verso il proprio governo non è migliorata e nel momento in cui ci si sta avvicinando al primo anniversario del governo Temer (non ad interim) è possibile constatare come questo stia riscontrando sempre maggiori difficoltà nella ricezione del consenso, senza contare che anch’egli sta aspettando che la commissione apposita si pronunci su un’eventuale impeachment a suo carico legato a fatti di corruzione da parte di una holding alimentare.

Michel Temer, attuale presidente del Brasile

Cercare di esprimere un giudizio sulla presidenza Temer è estremamente difficile, considerando che è stato sotto minaccia di impeachment a sua volta e che governa pur avendo uno dei consensi più bassi nella giovane storia democratica del paese. Il politico, proveniente da una famiglia di maroniti provenienti dal Libano, ha commesso tutta una serie di errori, sia di comunicazione che a livello più meramente politico, che sono andati a danneggiare ulteriormente la sua posizione nei confronti dell’elettorato. La sua presidenza non era iniziata nel migliore dei modi dato che era considerato da una parte del Brasile (quella che ancora appoggiava la Rousseff) come un golpista.

Altri errori macroscopici commessi da Temer sono state le azioni collegate ai due tentativi di impeachment (il secondo dei quali è tutt’ora in corso e il cui iter è iniziato a giugno) e fortemente caldeggiati da una vasta fetta dell’elettorato considerando che consentirebbero di tornare a elezioni. Al livello dell’opinione pubblica e della comunicazione politica, invece, la moglie del presidente ha destato parecchie polemiche per il proprio atteggiamento da moglie-trofeo tutta famiglia e bambini, che si contrappone direttamente alla Rousseff e alla sua figura di ex membro della resistenza ai tempi della dittatura. In particolare, Temer sembra essersi alienato una vasta parte dell’elettorato femminile e di quello più attento ai diritti delle donne, considerando che ha schierato come squadra di governo solo maschi bianchi. Altre circostanze negative provengono dalle misure di governo che è stato costretto ad adottare, in primis quelle dell’austerity, necessarie per ridurre il debito pubblico: anche in questo caso la ragioneria dello stato gli ha più volte dato contro, esponendo la fallacia dei conti da lui proposti a sostegno di tali manovre.

Il Brasile ha una strada abbastanza lunga per riprendersi da una decada perdida che ha distrutto l’economia sul piano interno e internazionale, mentre la debolezza politica interna ne ha seriamente compromesso la capacità di proiezione della propria politica estera fuori dal paese, con un’occasione persa specie ora che gli Stati Uniti sembrano volersi dedicare a un maggior isolazionismo rispetto alle precedenti decadi. Per riprendersi il Brasile necessita ora come non mai di una nuova leadership ed effettivamente le dimissioni di Temer sarebbero quantomeno opportune. Il paese dovrebbe ripartire dal proprio soft power e dalle proprie buone relazioni con tutto il continente sudamericano, oltre che da una gestione sapiente delle proprie risorse. Senza questo tipo di misure e concetti da implementare il Brasile è condannato a rimanere un paese spaccato in due ancora per molto tempo.


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