La scena indie italiana ci è o ci fa?
Qualsiasi cultore o semplice appassionato di musica almeno una volta nella vita si sarà posto tale domanda. Tra cantautori e produttori dai nomi assurdi, disagio, ironia e post ironia, hype che si gonfia e scoppia di botto come un palloncino e proposte nuove ed effimere ogni singolo giorno, produzioni lo-fi o fin troppo barocche e di facciata, è facile perdere il filo e giungere a dubitare della genuinità dell’offerta musicale degli ultimi tempi. Di vari segni di collasso e ammiccamenti più o meno palesi alle meccaniche della musica mainstream (gergalmente: da radio) v’è già traccia da un paio d’anni: al giorno d’oggi, un artista può uscire con un disco carino, interessante, pop, ma assolutamente non rivoluzionario o addirittura non necessario, e arrivare ai palasport sfruttando intensamente la potente macchina del web.
Social network: da serbatoio a influencer
Facebook e Instagram, quindi. In minore misura, anche YouTube. Com’era prevedibile i social network, da perfetto luogo di condivisione, sono diventati perfetto luogo di promozione, e da perfetto luogo di promozione sono, abbastanza velocemente, scaduti a luogo di promozione ad ogni costo. Laddove solo qualche anno fa si condivideva abbastanza tranquillamente un nuovo singolo, un’intervista o un articolo, oggi è gara aperta a chi la spara più grossa. Tutto è ben accetto: un imbarazzante video di una band di “romantici” che corrono in spiaggia circondati da culi torniti e tette perfette (Thegiornalisti-Riccione), un (voluto?) aiutino da un noto marchio di alcolici citato nel testo (Canova-Threesome), persino la costruzione di interi personaggi fittizi (Cambogia, che analizzeremo nel dettaglio in seguito), in virtù di un’indole di “trollaggio” e ironia che lascia poco spazio al prodotto musicale e alle chiacchiere su di esso.
Le uscite, le esternazioni, persino i post pubblici dei musicisti in questione vengono poi amplificati o ancora declinati in forma memica dal sottobosco di gruppi indie/ironici/disagiati di Facebook, comunità goliardiche e in una certa dose anche divertenti in cui appunto si crea attenzione su ogni nuova uscita mediatica o musicale della community, e dalle webzine più o meno amatoriali che riverberano il messaggio generando l’attesa del singolo, dell’album o del live, il suddetto hype.
Tali nutriti gruppi Facebook, ormai popolati anche da addetti ai lavori, hanno subito un rapido processo di spostamento della loro funzione nell’economia del commercio musicale: da pubblico che recepisce il messaggio del musicista e ne parla, ironicamente o meno, sono diventati il target della promozione dell’artista, che, con fare manierista e perfettamente radiofonico (declinato all’era social), si ritrova a scrivere prodotti azzeccati al pubblico di riferimento e si adatta a esso. E non per forza nella maniera migliore, ma semplicemente nell’ottica del “purché se ne parli”, arrivando persino ad alternare prodotti di sempre dubbia qualità artistica, ma aderenti alle richieste del pubblico, a cafonate volutissime volte a scatenare i commenti e la riverberazione dei contenuti da parte di influencer sempre sul pezzo, ma che difficilmente si interessano alla canzone in sé e per sé. Nulla di nuovo, ovviamente, basti pensare a Rovazzi e all’ultimo Gabry Ponte, personaggi che hanno infestato i palchi estivi con tormentoni strappati via a forza da pagine trash di Facebook con un furbo labor limae, ma almeno in questi casi l’intento commerciale è palese e si può con buona approssimazione lasciare tali prodotti (molto) al di fuori dell’ambito della critica musicale.
Inutile a dirsi, anche le webzine indie, Deer Waves e Rockit su tutte, da luogo di critica musicale sono diventate generatrici di hype e gossip più disparati: contemporaneamente al definitivo e triste declino (in termini di visualizzazioni) della recensione classica e dell’approccio critico agli album, almeno in tali ambienti, non è infrequente ritrovare sullo stesso sito, accanto a recensioni serie, articoli ironici o fatti apposta per scatenare l’orda di commenti della rete. Si può persino notare come la stessa offerta di alcuni siti di critica si adatti in funzione del contenuto di cui bisogna parlare, ed è ormai facilmente verificabile come una notevole parte di articoli riguardanti la scena indie italiana affrontino artisti e canzoni più seguendo e assecondando le reazioni del pubblico, persino alimentando livori, che approcciandosi al prodotto in sé.
Singoli su singoli su singoli
L’incessante necessità di essere sempre sulla cresta dell’onda, ha portato inoltre all’ultima grande tendenza degli artisti indie attuali: laddove vi era una volta il B-Side, adesso vi è il singolo post album. Canova, Thegiornalisti, Gazzelle, Carl Brave e Franco126, tutti nomi presenti sulla scena attuale da pochi mesi (con l’eccezione importante dei Thegiornalisti, a rigor di precisazione, nati indipendenti, ora nella Carosello Records, che però hanno acquisito maggiore popolarità in tempi recenti), tutti nomi usciti con un album ancora più recentemente, e tutti subito circondati da risposte di pubblico e passaggi sulle playlist online con numeri non proprio da emergenti: tutti hanno rilasciato per l’estate nuovi singoli post album, non inclusi negli stessi. L’intento è chiaro e palese, promuovere i tour estivi, far si che si parli ancora di sé dopo l’uscita dell’album, ma una domanda sorge spontanea: quanto potranno durare negli anni progetti a cui serve esposizione mediatica costante, settimana dopo settimana? Che sforzi serviranno per evitare di cadere preda dell’oblio?
L’esempio dei Thegiornalisti è decisamente calzante: il gruppo romano, capitanato dal personaggione Tommaso Paradiso (uno che con la penna ci saprebbe anche fare, ma che ormai è diventato famoso più per le sue esternazioni e il suo stile di vita, quasi un meme vivente), fresco di un featuring con Fabri Fibra, Pamplona, è ormai a un livello superiore di pubblico, seppur in maniera discussa e forzata. Hanno infatti sollevato più di una discussione le due date del Completamente Senza Tour, al Palalottomatica e al Forum di Assago: due location da più di diecimila posti, riempiti quasi del tutto anche grazie a una furba politica di accrediti e gestione posti.
Dopo l’iper pompato album Completamente Sold Out (ottobre 2016), la band ha fatto uscire Senza, per spingere le due discusse date nei palazzetti, e Riccione, in occasione dei tour estivi. Un programma capillare di onnipresenza radiofonica e social atto a trarre il massimo in termini di risposta di pubblico live e su streaming (che da qualche anno contribuisce oltre alla vendita dei brani, alle assegnazioni FIMI come il Disco d’Oro). E la musica? Ebbene, laddove Completamente Sold Out poteva essere considerato un album ruffiano, furbo, da radio, ma comunque con una certa ricerca dietro, atta a prendere la proposta cantautoriale e nostalgica del gruppo romano e declinarla al presente per aumentare la fruibilità del prodotto, Senza è un trascurabile B-Side in tutto e per tutto, mentre Riccione riesce a fare anche di peggio: prendi la figura di romantici innamorati degli anni ’80 dei Thegiornalisti e demoliscila con un testo partorito in dieci minuti, zeppo di nonsense, su una base house banale e scontata, e incollalo a un video che sembra uscito dal remake di Baywatch uscito qualche mese fa (ergo, con più tette e culi dell’originale), al puro scopo di creare un classico singolone estivo. Impresa riuscita? Per saperlo dovremo aspettare la Fine dell’estate (sigh).
Agli estremi dell’indie: Cambogia e Coez
Più curiosa ed estrema la storia di Cambogia, giunto originariamente alla luce delle cronache nell’autunno 2016, con quel nome palesemente da emulo o perculatore di Calcutta e con un album, La Sottrazione Della Gioia, neanche troppo sbagliato nel suo essere completamente scontato e kitsch, con qualche spunto carino tra gli incastri di chitarra e synth, le solite linee vocali da cantautore generazionale ispirato a Battisti, e un discreto seguito ottenuto. Giusto qualche settimana fa, è stato annunciato dagli stessi protagonisti del progetto che Cambogia altro non era che un troll studiato e creato a tavolino da una agenzia di marketing siciliana, per evidenziare come fosse possibile vendere qualsiasi prodotto sfruttando i meccanismi dell’hype e dei social.
Ancora una volta, è inutile parlare musicalmente di Cambogia, per i motivi sopracitati (assenza totale di contenuto dal punto di vista armonico e testuale su tutti); tale uscita risulta però generatrice di dubbi per più di un motivo: innanzitutto il “trollaggio” fa cilecca proprio nella mancanza di uno scopo, di una qualsivoglia critica al sistema in toto, e soprattutto perché non vi è coinvolto alcun personaggio di spicco, essendo la storia intera proveniente da sconosciuti, o eventualmente emergenti, cosa che vanifica anche qualsiasi necessità di mistero; secondo e più importante, ci sono le canzoni, c’è un album, ci sono persino le royalties dallo streaming.
Cambogia in quanto artista quindi esiste, è un tizio qualunque, ma esiste, ha proposto e venduto un prodotto, e poco importa (dal punto di vista morale) che non abbia la faccia che gli era stata affibbiata nel progetto o che il barbuto impersonatore non sia l’autore o il cantante dei pezzi, altrimenti dovremmo andare a far la morale anche a gruppi storici come The Monkees (che non scrivevano i propri pezzi) o a quei simpatici e sconosciuti bulbi oculari dei Residents.
Come catalogare la piccola vicenda di Cambogia, quindi? Le possibilità sono due: o la “rivelazione” è nata dal desiderio di ridare un briciolo di clamore mediatico a un progetto che, alla fine, ha registrato numeri discreti (sulle 50mila visualizzazioni su Youtube ed una media di 20mila play su Spotify), ma tutto sommato mediocri, stabilizzandosi quindi come un fenomeno ancor più passeggero delle meteore indie degli ultimi tempi, o ancora si potrebbe notare come, scaduto in una stagione o poco più l’interesse verso Cambogia, i ghost writer dietro al progetto abbiano voluto raccogliere le briciole di quello strano ed effimero successo per fare coming out in vista di un progetto “serio”.
Infine, in piacevole controtendenza (tanto dall’usare il nome di uno dei suoi ultimi brani come titolo dell’articolo) abbiamo il caso di Coez. Il rapper/cantautore della scena romana infatti, fuori per propria scelta dalla major Carosello Records, ha rimesso in moto una macchina di produzione indipendente con una idea chiara in testa, ed è riuscito a tirar fuori un album, prodotto da Niccolò Contessa de I Cani, in cui per la prima volta convivono piacevolmente la sua formazione hip hop e la successiva infatuazione per il cantautorato indie: Faccio Un Casino (maggio 2017), un prodotto compatto e dagli arrangiamenti precisi ed efficaci, unico caso dell’anno di grande successo di pubblico senza alcuna attenzione alle meccaniche dell’indie social.
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