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Phil Jackson e la gestione di una franchigia NBA

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Lorenzo Vagnoni

Il mondo sportivo è pieno di giocatori che, una volta terminata la carriera professionistica, decidono di rimanere all’interno dell’ambiente che li ha visti crescere come atleti – sia pure con una veste tecnica diversa. Questo è vero indipendentemente dal fatto che si parli di campioni o di onesti gregari. Non più giocatori, bensì allenatori – o vice allenatori – che tentano di trasmettere il proprio bagaglio tecnico e di esperienze agli atleti sotto di loro, in una sorta di trasmissione orale della conoscenza utile a far sì che i più giovani non commettano gli stessi errori che gli anziani hanno pagato a loro spese.

Ovviamente il riciclo in tale veste non è semplice né alla portata di tutti, e non è detto che un grande campione di un certo sport divenga un grande allenatore nel medesimo (esistono più Maradona che Guardiola), così come non è necessariamente vero il contrario. Alle volte, lo sbocco lavorativo dopo il ritiro può addirittura condurre l’ex giocatore a svolgere delle funzioni di tipo dirigenziale, portandolo a barcamenarsi fra gli imprevisti e le insidie del mondo del mercato sportivo che nella NBA – con il sistema del Salary Cap e della Free Agency – risulta molto più complesso rispetto ai contratti e alle normative europee.

C’è, infine, anche chi approccia tutte e tre le possibilità, come nel caso di Phil Jackson, che nel corso della sua lunga vita e carriera professionale ha ricoperto – nell’ordine – il ruolo di atleta professionista, capo allenatore e General Manager nella NBA. Se, però, le sue prime due versioni sono state coronate dal successo, con un palmarès totale che consta di 2 anelli NBA con i Knicks come giocatore e 11 totali come allenatore (coach più vincente nella storia della lega), non si può dire altrettanto della sua parentesi come GM dei New York Knicks – ufficialmente conclusasi il 28 Giugno di quest’anno – che ha portato ben pochi risultati positivi alla franchigia della Grande Mela.

Chi ben comincia

 

I Knicks che Phil Jackson trovò al suo arrivo come GM nella primavera della stagione 2013/2014 sono una squadra in rotta, una squadra che – dopo un anno precedente tutto sommato positivo, con l’eliminazione nelle semifinali di Conference ad opera degli Indiana Pacers – ha completamente smarrito coesione e motivazione, e che ha fallito i propositi di rinforzo nel mercato estivo, rilasciando J.R. Smith (che andrà poi a vincere un titolo a Cleveland) e acquisendo l’ormai anziano Metta World Peace – conosciuto anche come Ron Artest – insieme ad Andrea Bargnani, una trade discutibile che – col senno di poi – limiterà il mercato di New York anche negli anni successivi.

Le motivazioni che portarono alla nomina di Jackson furono principalmente legate al suo profondo senso di appartenenza verso la città e la franchigia di New York, e al rispetto che verso di lui provavano i giocatori e la stessa NBA, legato al suo status di sostanziale leggenda vivente; con una personalità così carismatica la dirigenza dei Knicks sperava di ritrovare una guida illuminata, capace di mediare i rapporti con i giocatori e sciogliere il grande nodo che aleggiava sul futuro della franchigia, ovvero il rinnovo di Carmelo Anthony, la superstar della squadra.

Nodo che venne finalmente sciolto nel mese di giugno del  2014, quando Anthony stipulò con i New York Knicks un nuovo contratto quinquennale da 124 milioni di dollari totali, prolungando la sua permanenza nella Grande Mela. Il problema del nuovo contratto di Anthony fu però la presenza della cosiddetta no-trade clause – ovvero la possibilità per il giocatore di porre il veto su qualsiasi trasferimento cui lui sia soggetto – la quale fece sì che sarebbe stato Carmelo Anthony a decidere se e quando lasciare New York e non la dirigenza. A questo si unisce la sciagurata trade, sempre farina del sacco del GM, che fece accasare Tyson Chandler – centro difensivo della squadra – ai Dallas Maverickse che portò a New York – disperatamente bisognosa di un playmaker – un giocatore ormai logoro e attempato come Josè Calderon: un giocatore non adatto a riempire quel vuoto tattico. Si ebbe così, fin da subito, una prima impressione su quello che sarebbe stato l’operato del GM: moltissime scelte totalmente disastrose intervallate da poche scelte positive, ma realizzate male.

Il triangolo no

Subito dopo la fine della stagione 2013/2014, la prima mossa di Jackson come GM fu quella di esonerare Mike Woodson e il suo intero coaching staff: erano rei del fallimentare record annuale (37-45) e dei malumori di squadra e superstar. Una mossa non priva di senso, che avrebbe potuto dare un segnale forte all’ambiente di New York, quasi a dire: «Con me alla guida le cose sono destinate a cambiare».

Tuttavia – anche in questo caso – il problema per Jackson e i Knickssi rivelò essere l’effettiva attuazione della logica scelta presa, poiché, invece di puntare su un coach esperto e capace di traghettare uno spogliatoio tumultuoso attraverso una stagione interlocutoria, essi decisero di assumere nel ruolo Derek Fisher. Quest’ultimo era un ex-giocatore, allenato dal GM e vincitore di 5 anelli NBA con i Lakers, appena ritiratosi e alla sua prima esperienza in assoluto come allenatore. Oltre alle motivazioni di carattere psicologico – basate sulla fiducia e sulla conoscenza reciproca fra General Manager e capo allenatore – la scelta di Fisher ebbe anche radici tecniche, basate sul tentativo di Jackson di adottare a New York la cosiddetta Triple Post Offense, ovvero il sistema di gioco che lo aveva portato a divenire il più vincente allenatore della storia della NBA e di cui Fisher era uno dei più fini conoscitori.

Nonostante tutte queste belle premesse – e la sciagurata trade sopra citata – l’esperienza dell’ex Lakers come allenatore risultò a dir poco disastrosa, sia per demeriti propri che della squadra assemblata, portando al mancato raggiungimento dei Playoff e al record negativo di franchigia di 13 sconfitte consecutive, con un bottino finale di 17-65. A ciò si aggiunse anche un regolamento di conti fra Fisher e il giocatore Matt Barnes – all’epoca in forza ai Clippers –riguardo una presunta liason fra il capo allenatore e l’ex-moglie di quest’ultimo, che contribuì a rendere ancora più rovente l’ambiente attorno alla squadra e ancor più teso il rapporto fra il GM e il suo protetto.

Fisher venne esonerato l’anno successivo, a metà della stagione 2015/2016, e sostituito con Kurt Rambis, assistente ai Knicks, nel tentativo ulteriore di perpetrare l’utilizzo del Triangolo come sistema di gioco, ignorando sia l’evoluzione compiuta dal gioco della pallacanestro – che rendeva inadatta e obsoleta la Triple Post Offense – sia l’inadeguatezza del nuovo allenatore, che alla sua prima esperienza ai Minnesota Timberwolves aveva totalizzato un record totale di 56-145.

Inutile dire che questo (quasi senile) attaccamento a un sistema di gioco sorpassato e questo volerlo attuare a ogni costo contro tutto e tutti marchiarono inevitabilmente la parabola discendente di Phil Jackson a New York, e gli alienarono buona parte dei consensi che inizialmente aveva ricevuto, sia dall’ambiente che dalla squadra.

L’unicorno

 L’avvento dell’unicorno

Finalmente nel 2016 – crollando almeno apparentemente l’ipotesi di utilizzare l’attacco a Triangolo – si accasò sulla panchina dei Knicks Jeff Hornacek, ex-allenatore dei Phoenix Suns, il quale ebbe fin da subito due compiti importantissimi: riportare serenità e calma in un ambiente ai ferri corti e iniziare a plasmare nella forma di un giocatore NBA Kristaps Porziņģis, quarta scelta al draft del 2015 e unico motivo per cui Phil Jackson sedesse ancora al suo posto come GM.

Porziņģis – fin dal primo giorno – rappresenta il presente e il futuro della franchigia. Si tratta del genere di giocatore che passa una volta nella vita: un lungo di 2.21 metri capace di tirare fluidamente da 3, con una mobilità impressionante per la sua stazza e – soprattutto – nato nel 1995. La sua giovane età e il suo precoce approdo in NBA resero praticamente impossibile porre un limite al suo potenziale, e la sua atipicità come giocatore e i suoi margini di miglioramento rappresentarono delle solide fondamenta su cui costruire un nuovo ciclo, vista anche la fase calante e l’età di Carmelo Anthony.

Quello che si richiede alla dirigenza – in questi casi – è prima di tutto di rasserenare l’ambiente, e poi di creare un core giovane che si leghi e si evolva insieme alla giovane stella, miscelato a veterani che facciano da chioccia e mitighino il temperamento delle giovani leve. Phil Jackson, invece, avallò due delle scelte più scellerate della sua dirigenza: prelevò Derrick Rose dai Chicago Bulls (insieme a Justin Holiday e una seconda scelta) per Calderon, Jerian Grant e Robin Lopez, e firmò con un quadriennale da 72 milioni di dollari Joakim Noah, la cui integrità fisica era ormai un lontano ricordo.

Il Rose post-infortunio era ormai lontano parente dello MVP che aveva incantato nel 2010: un avvocato querulo e stizzoso di sé stesso – mai contento del suo minutaggio – che arrivò addirittura a sparire prima di una partita senza avvisare nessuno. Questo mentre Noah – oltre a essere sospeso per 20 partite per una violazione della politica anti-droga della NBA – ha fino ad oggi giocato un totale di 46 partite dal suo ingaggio.

Tutto questo, unito al continuo mobbing fatto ai danni di Carmelo Anthony per convincerlo a lasciare New York, nel corso di quest’anno ha rappresentato l’ultimo colpo alla già traballante posizione di Phil Jackson come GM dei Knicks, rendendo quest’ultimo inviso persino a Porziņģis, anche lui oggetto degli strali del dirigente per aver saltato il meeting di fine stagione con i quadri dirigenziali.

Intimoriti dalla possibilità di perdere l’unico raggio di luce in un futuro plumbeo e colmo di incertezze, gli azionisti e il presidente della franchigia di New York hanno deciso di esonerare il GM, che lascia la squadra con un bilancio abbastanza impietoso dei suoi tre anni di gestione: un record totale di 80-166 e tre stagioni perdenti con tre mancati accessi ai Playoff.

Sic transit gloria mundi

Quale quadro di Phil Jackson può essere quindi tracciato dopo questi tre anni? Anni in cui l’unica gemma splendente del suo operato – Kristaps Porziņģis – è stata letteralmente annegata da una marea di errori puerili e scelte dettate unicamente da testardaggine e fideismi? L’unica cosa certa è che – quali che siano le tinte con cui si vuole dipingere il suo ritratto – quello di Jackson è il crollo rovinoso di un uomo che era visto come un profondo conoscitore del gioco e dei meccanismi che lo regolano,nonché uno dei suoi più profondi innovatori; un vincente che con la sicurezza in sé stesso e nelle sue scelte – spesso molto al limite e anticonformiste – aveva dominato la NBA negli anni ‘90.

Lentamente il beneficio del dubbio sulle sue scelte e sulle sue dichiarazioni – apparentemente insensate, ma perfettamente in linea con il suo personaggio – si è via via diradato, e ha mostrato la vera faccia di Jackson: un uomo anziano, legato al passato e alla sua gloria, che non è riuscito ad evolversi e ad accettare che il gioco – così come lui lo conosceva – era profondamente mutato, macchiando così indelebilmente anche il ricordo della sua gloria passata.


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