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Pubblicità: cosa è cambiato nell’era di internet

Published by
Matteo Antiga

La pubblicità non è mai in crisi. Il consumatore evolve col passare del tempo, con le rivoluzioni sociali e con il progresso tecnologico, ma non scompare mai. Il settore pubblicitario ha saputo adattarsi anche alla rivoluzione digitale e alla comparsa di internet, che ha fornito ai pubblicitari un sogno: un mondo di comunicazioni istantanee tra prodotti e consumatori, un’immensità di opportunità, di combinazioni, di muri vuoti che aspettavano solamente di essere coperti con gli annunci dei propri clienti. Lo stesso internet, proprio come l’uomo, si è evoluto negli anni, e con esso si è evoluta anche la pubblicità che ne fa parte, e che oggi lo sostiene e ne costituisce le fondamenta, perché mai come ora la pubblicità risulta importante per la nostra società, in quanto è essa stessa a sostenere internet, e internet non è null’altro che la più grande invenzione dell’umanità sino a oggi.

La pubblicità muove immense quantità di denaro sul web, contribuendo al funzionamento di molti campi differenti, come intrattenimento, informazione e didattica. Le più grandi testate giornalistiche, i creatori di contenuti come musicisti o videomaker, i giganti della rete come Facebook e Google: tutti questi hanno in comune la dipendenza assoluta dagli investimenti pubblicitari. Un esempio su come il mondo sia oggi profondamente legato agli annunci sul web lo si è visto piuttosto recentemente con Adpocalypse, l’apocalisse delle pubblicità su YouTube. Il più grande sito di video-sharing del mondo ha di fatto visto scomparire, negli ultimi mesi, centinaia di milioni di dollari di investimenti di grandi brand (come Pepsi e Starbucks, ad esempio) nelle pubblicità tra i video dei milioni di creatori di contenuti attivi su YouTube.

All’origine di questa immensa voragine di denaro sta la decisione, da parte di diverse marche, di evitare che le pubblicità dei propri prodotti appaiano accanto a video di contenuti politicamente scorretti (ad esempio video con termini razziali nel titolo), il che ha portato YouTube a dover stravolgere la propria policy sulla monetizzazione dei video, rendendo anche il minimo dettaglio controverso (come la presenza nel titolo o nella descrizione della parola ‘guerra’) sufficiente a bloccare immediatamente la monetizzazione di un contenuto sul sito. Molti creatori si sono ritrovati senza alcun ricavo da un giorno all’altro: si è verificato un vero e proprio esodo di utenti alla ricerca di siti più proficui, come Twitch, ad esempio.

Ma guadagnare grazie alla presenza della pubblicità, su un sito o un contenuto di proprietà, è sempre stata una pratica minimamente rischiosa, su internet. La facilità con cui un brand può vedere interrompere, o diminuire drasticamente, il flusso di denaro da cui ricavava inizialmente denaro è ridicola. Basta letteralmente un pulsante per perdere qualsiasi stipendio che si credeva stabilizzato. Inoltre qualsiasi navigante del web può compromettere il corretto funzionamento di una pubblicità, e il denaro che ne deriva, tramite i numerosi software anti-pubblicità scaricabili gratuitamente da internet, primo fra tutti Adblock. Ciò apre un dibattito di natura etica, più che economica: internet oggi è fonte, spesso unica, di guadagno per milioni e milioni di persone, ma appare allo stesso tempo di una fragilità devastante, capace di fruttare immense quantità di denaro così come nemmeno un centesimo. Dovrebbero essere legali software che bloccano pop-up e banner, che seppur invasivi sono fonte di guadagno per molti?

Di fronte al problema che le proprie pubblicità siano bloccate a prescindere, i grandi marchi si evolvono e si adattano a ciò che è richiesto dal pubblico. Si tratta, alla fine, della classica meccanica della domanda e dell’offerta, adattata al campo pubblicitario. Se l’intrattenimento è ciò che più viene ricercato su internet di questi tempi, è dall’intrattenimento che la pubblicità intende risorgere. Gucci, seppur per un periodo molto breve, ha tentato di rivoluzionare il suo rapporto con il consumatore dandosi ai meme, memando sé stesso. Un tentativo che ha riscosso moderato successo, ma ha dimostrato che sempre più grandi brand hanno compreso che il centro dell’attenzione delle generazioni digitali è ora focalizzato sull’intrattenimento e su internet, sull’ironia e sui meme.

Quello del “meme marketing” di Gucci non è un esempio isolato, ovviamente. A livello internazionale il caso di meme per la pubblicità che più sta riscontrando successo è quello che la SEGA ha avviato ormai anni fa per pubblicizzare Sonic. Il porcospino blu, mascotte da decenni della compagnia videoludica giapponese, ha avuto grandi problemi con le vendite dei propri giochi negli ultimi anni, eppure risulta estremamente popolare sui social media e nelle board più popolari di internet. Un grande esempio nostrano è invece Taffo Funeral Service, un servizio funebre di Roma che è diventato estremamente popolare anche fuori della città eterna, per via della presenza online costante e profondamente ironica, che ha attirato numerosi like di persone non necessariamente di Roma, e non necessariamente bisognose di un servizio funebre.

Uno dei caratteri esclusivi del web che più ha reso fertile ed efficace la pubblicità su internet è ovviamente il flusso di dati che le varie compagnie pubblicitarie possono sfruttare a proprio favore. Oggi i cookies, ovvero i dati sulle nostre navigazioni interne a qualsiasi sito web, sono obbligatori per legge, e legalmente rivendibili come dati e informazioni sugli utenti a qualsiasi compratore. Su internet non si hanno scrupoli a rivelare i propri hobby e i propri interessi, il proprio credo politico e religioso, i propri pensieri e sentimenti. Tutto è raccolto è rivalutato, come in un dispotico futuro immaginato da Orwell, e coloro che più ne hanno beneficio sono proprio i pubblicitari, ora capaci di capire cosa esattamente una fetta di compratori sia interessata a comprare o perfino cosa uno specifico individuo sia interessato a consumare. Questo secondo caso specifico, inerente agli interessi personali dell’individuo, è ciò che più è connesso alla natura dei cookies stessi: qualsiasi navigazione e ricerca digitata viene registrata e legata al nostro indirizzo IP, praticamente identificando le nostre ricerche e i nostri interessi con il nostro terminale. Questo permette in maniera piuttosto facile di accoppiare prodotti e pubblicità al cliente più adatto, in una sorta di appuntamento al buio digitale e istantaneo tra consumatore, marchio e il ponte fra le due entità, il pubblicitario.

Una pubblicità può non avere immediato successo, sia che sia stata elaborata erroneamente sia che sia stata posizionata in una sezione di internet non adatta. Ciò ovviamente accade anche nel mondo reale, quando per esempio viene posizionato un cartellone che pubblicizza giocattoli per bambini in una autostrada del deserto principalmente frequentata da bikers e camionisti. Oggi, tuttavia, internet permette di avere un feedback sull’efficacia dei vari banner e annunci, in sostanza chiarificando se una pubblicità ha bisogno di un trasferimento in un portale più adatto o semplicemente non funziona e non è in grado di attirare clienti. Questo avviene principalmente tramite il CTR, il click-through rate, ovvero il rapporto tra le visualizzazioni di un determinato annuncio e il numero di utenti che ha cliccato e quindi è risultato interessato al prodotto e alla pubblicità evidenziata.

Le campagne pubblicitarie si basano principalmente su quattro diversi caratteri: visivo, uditivo, slogan e carattere. Tutto lo studio pubblicitario, però, perde completamente rilevanza quando una pubblicità ottiene, nonostante la cura e il dettaglio di ogni particolare, l’effetto totalmente contrario, allontanando una grande quantità di clienti piuttosto che attirarne di nuovi. Su internet in particolare, data la velocità con cui un media qualsiasi può diventare virale, è estremamente facile che una pubblicità attiri su di sé un’attenzione profondamente negativa, piuttosto che interessata, a scapito del concetto che “anche la cattiva pubblicità sia in fondo pubblicità”.

Un recente spot di Pepsi fornisce un esempio più che chiaro a riguardo: forse eccessivamente focalizzato a dipingere una bevanda miracolosa, in grado persino di porre fine a uno scontro tra una folla in protesta e dei poliziotti in tenuta antisommossa (citando velatamente i numerosi scontri tenutisi negli Stati Uniti sin dall’inizio del 2017 tra i fronti più estremi della destra e della sinistra americana), l’ultimo video pubblicitario di Pepsi rilasciato lo scorso aprile ha attirato un’attenzione esagerata da parte dell’utenza americana di internet, che ha sommerso il video in questione di “non mi piace” e lo ha reportato in massa, costringendo la compagnia stessa a chiedere scusa pubblicamente e a rimuovere lo spot dalla faccia della terra.

In conclusione: la natura della pubblicità stessa è quella di attirare attenzione su di sé e sul prodotto, di cercare nuovi clienti e di apparire il più possibile nel miglior modo possibile, ma il rapporto tra pubblicità e consumatore cambia radicalmente quando muta lo stesso collegamento tra i due, quando sopraggiungono elementi prima impensabili, come l’immediatezza del contatto. Internet ha concesso alla pubblicità un mondo in cui dare il meglio (o il peggio) di sé, e fintanto che il web evolverà e crescerà, possiamo solamente immaginare come la pubblicità intenda adattarsi alla forma mutevole della più grande occasione che gli sia mai stata concessa nella storia dell’umanità.

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