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Pop: la musica “popular” di tutti i giorni

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Antonio Di Meglio

Che cosa contraddistingue la musica che ascoltiamo ogni giorno? Che cosa cambia tra un singolo di Beyoncé e la nona di Beethoven?

Da più di un secolo ormai, studiosi da tutto il mondo si interrogano su quale sia la natura di un fenomeno culturale che ha mutato radicalmente il nostro modo di ascoltare musica e la nostra cultura. Basti pensare a un brano come Happy Birthday che oggi diamo per scontato, ma che, di fatto, ha cambiato il nostro modo di vivere. Nonostante un dibattito ancora acceso su alcuni punti, la comunità accademica che si occupa dei popular music studies, coincidente per lo più con la IASPM (International Association for the Studies of Popular Music), è arrivata a porre alcuni punti fermi su quali siano le caratteristiche della popular music.

Ma quale popolo?

La prima questione da affrontare è sicuramente quella del nome: cosa vuol dire popular? A quale popolo si riferisce? È indice di una nazionalità, di un’etnia o di altro?

Nelle lingue anglosassoni, popular ha una connotazione che nella nostra lingua non può essere resa con “popolare”, dal momento che questo aggettivo è quasi sempre sinonimo di “folkloristico” (almeno quando si riferisce alla musica). La connotazione giusta è quindi “noto alla massa”, quindi al “popolo” come si configura nella società capitalistica.

Per capire quale sia il popolo della popular music, bisogna inoltre chiedersi dove e quando sia nata. La popular music emette i suoi primi vagiti negli anni seguenti alla rivoluzione industriale: in Francia si trovano infatti tracce di una futura popular music già dalla metà del Settecento nella forma dei cafè chantant parigini, dei luoghi in cui era possibile ascoltare musica, mangiare, bere e ovviamente incontrarsi con altre persone.

Il modello del cafè chantant si diffonde relativamente presto in Europa, portando alla formazione di alcune caratteristiche estetiche che ancora oggi, con le dovute generalizzazioni, fanno parte dell’estetica popular. Tra le più importanti troviamo sicuramente il modello della canzone “standard” basata sulla ripetizione di un ritornello che spesso richiama il titolo, seguita da quella che gli inglesi definiscono catchyness, ovvero la capacità di rimanere in testa alle persone, il tutto accompagnato da ritmi molto ballabili.

Queste caratteristiche rientrano tutte in una logica che mira a mantenere l’attenzione dell’ascoltatore fissa sulla canzone, dal momento che le persone non andavano al cafè chantant soltanto per ascoltare musica. Bisogna considerare che il tempo trascorso al cafè si configurava come una pausa tra due periodi lavorativi, se non proprio come un’occasione per incontrare persone in ambito lavorativo, ma con un contesto soft.

Questa disattenzione, se così si può chiamare, la ritroviamo ovunque nell’ascolto della popular music, dalla musica che è trasmessa oggigiorno nei negozi di abbigliamento, a quella che ascoltiamo in macchina mentre siamo imbottigliati nel traffico.

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uno dei cafè parigini più famosi era il Moulin de la Galette (qui ritratto da Renoir) poi soppiantato dal più famoso Moulin rouge

Dall’Europa all’America

Ritornando al passato, la popular music (nei panni del cafè e di altre forme) si diffonde quasi contemporaneamente, nella prima metà dell’Ottocento, in Francia e nella regione corrispondente all’attuale Germania, in particolare nelle zone minerarie del Reno e della capitale prussiana con il suo circondario. Negli anni precedenti era nata anche in Italia nei panni della canzone napoletana, che fa da terreno fertile per l’innesto del cafè. A questo punto è necessario fare un salto geografico dall’Europa agli USA, dove nasce l’industria musicale vera e propria.

Nella prima metà del diciannovvesimo secolo esistevano tre filoni popular nella musica statunitense: quello afroamericano, che inizia a essere influente soprattutto dalla fine del secolo, quello europeo, che importa il cafè e altri tipi di musica – spettacolo, e quello locale, che uniti creano il cosiddetto minstrel show.

Il minstrel show era appunto uno spettacolo di danze, canzoni e numeri da circo, eseguito per strada o in modo itinerante dietro pagamento di un biglietto. L’importanza di questo modello di spettacolo risiede soprattutto nel fatto che era molto più accessibile rispetto al cafè, e questo provocava una diffusione molto più popular della musica in questione.

Uno dei minstrel show più famosi era quello gestito da Stephen Foster, autore di brani importantissimi per la cultura statunitense e non solo, come Oh Susanna. Foster scriveva i testi e gestiva il modo di fare spettacolo, oltre alle relazioni con le case editrici di spartiti.

Foster aveva sviluppato un metodo molto personale per scrivere testi, unendo gli schemi tradizionali della canzone con dei ritmi molto sincopati (per l’epoca) e temi accessibili più o meno a tutti. Unendo questo a una produzione con ritmi industriali, creò un modo di produrre canzoni tanto influente da essere adottato non solo da tantissimi autori dopo di lui, ma addirittura da quella che fu la prima vera industria della musica a distanza di tre decenni da Foster, ovvero Tin Pan Alley.

Tin Pan Alley nel 1905 (credits to: Hulton Archive)

Tin Pan Alley era il nome dell’industria musicale newyorkese, attiva tra la fine del diciannovesimo secolo e gli anni trenta dello scorso, quando fu soppiantata dalla nascente industria fonografica A Tin Pan Alley lavoravano decine di autori, pagati a spartito (senza  royalties), che producevano canzoni su modelli strettamente codificati dall’editore per cui lavoravano, con l’obiettivo abbastanza ovvio di entrare in quante più case possibili.

Questo modello produttivo ne decretò sia il successo sia il disastro, dal momento che, se da una parte c’era una grande mole di canzoni da diffondere, era anche vero che bisognava avere la possibilità di suonare per approfittare degli spartiti, cosa che limitò di molto la diffusione di questi prodotti. Basti pensare che, a fronte di decine di milioni di spartiti venduti durante gli anni di Tin Pan Halley, i pianoforti, cioè gli strumenti più adatti alla diffusione domestica, rimasero ben sotto una soglia accettabile di diffusione.

Nonostante il suo fallimento, il modello industriale di Tin Pan Halley fu alla base del successivo e definitivo (nelle sue basi) modello industriale della popular music, che comincia a realizzarsi con l’invenzione di un supporto atto alla registrazione, prima col cilindro di Thomas Edison e poi col vinile di Emile Berliner.

Il cilindro di Edison

Il supporto inventato da Edison viene presentato in versione non definitiva nel 1877, ma, come lo stesso Edison ebbe a sottolineare, esso aveva alcuni limiti consistenti che non furono risolti nemmeno nella versione commercializzata: primo fra tutti la deperibilità del cilindro, unita all’impossibilità di una riproduzione in serie di uno stesso cilindro (risolta solo all’avvento del vinile), per finire con la qualità di registrazione misera che comprendeva uno spettro di frequenze poco ampio.

Inoltre bisogna constatare che Edison, in un elenco di possibili usi dell’invenzione, mette l’utilizzo a scopo musicale tra «insegnare a parlare» e «registrare le voci dei propri cari». Nonostante l’indicazione della stenografia come principale applicazione, ironicamente gli stenografi si opporranno decisamente all’invenzione, e l’unico uso che prenderà piede (parzialmente) sarà quello musicale.

un modello del cilindro inventato da Edison

Poi fu il vinile

Nel 1888 inizia l’ascesa del vinile inventato da Emile Berliner, un tedesco immigrato negli Stati Uniti, che conclude un accordo con la Columbia (la prima e ad oggi più antica etichetta discografica), garantendo la possibilità di stampare un numero illimitato di copie per ogni disco. Questo, unito alla migliore qualità e al più basso costo di produzione, decreta il successo del vinile che entro il 1912 arriva a essere fabbricato persino nel Raj britannico. In seguito a un accordo con lo stesso Edison, Berliner si assicura il monopolio del supporto che diventa ufficialmente la modalità di ascolto preferita dalle classi medio – alte urbane. Contemporaneamente inizia l’espansione dell’altra faccia dell’industria musicale, cioè quella della composizione vera e propria, che fornisce sempre nuovo materiale da vendere.

La musica industriale

Fu così che la popular music raggiunse il suo status di musica da mercato, cosa non sorprendente dal momento che nacque quasi in contemporanea col capitalismo. Ciò che piuttosto potrebbe sorprendere è che essa non fu limitata dai confini del proprio medium, ma fin dai primi passi dell’industria vera e propria ebbe un’attitudine crossmediale fortissima, arrivando a servirsi ben presto degli altri mass media, e viceversa a essere usata in abbinamento con loro. Entro il secondo dopoguerra, l’industria musicale avrà raggiunto il suo stadio maturo, le cui basi sono pressoché invariate.

Le caratteristiche fin qui elencate della popular music sono in primis – sul lato estetico – la sua attitudine alla semplicità, ripetitività e sintesi, sia sul piano musicale sia del testo. In genere è una musica ballabile, mentre sul lato sociale essa è la musica che si consuma, che muove i primi passi insieme al capitalismo, è una musica per chi può permettersi del tempo libero, quindi di un gruppo di persone che dal diciannovesimo secolo si è allargato notevolmente.

La popular music oggi

A oggi la popular music è diffusa in ogni angolo del mondo, la ascoltiamo e consumiamo tutti i giorni, ma se da una parte alcune caratteristiche di base come quelle estetiche e la sua attitudine a essere una musica da divertissement sono rimaste uguali, altre sono cambiate, almeno apparentemente.

Prima fra tutte vale la pena citare la rivoluzione digitale che dagli anni 90’, oltre a favorire la diffusione della popular music sul neonato internet, la rende accessibile davvero a tutti, sia dal punto di vista della fruizione che della produzione, tanto che gli assetti di potere del mondo discografico oggi sono sostanzialmente divisi in un tripolarismo che parte dalle major, e, passando per le etichette indipendenti più grandi, arriva al singolo artista.

In contrasto col passato, oggi una postazione così attrezzata è molto comune al di fuori degli studi di registrazione.

Un cambiamento ben più sostanziale è stato lo sfumarsi dei confini tra musica colta, folk e popular, causato (nel caso della folk) dalla fine di quasi tutte le comunità tradizionali e (nel caso della musica colta) dalla cessazione del suo pubblico di riferimento originario, che oggi è sostituito (in genere) da persone che nascono in un contesto culturale più vicino alla popular music.

Se questo cambiamento sia l’anticipazione di una fusione tra queste tre macroaree musicali, è difficile da dire. Più facile da affermare è che probabilmente nel giro di uno o due decenni bisognerà ridefinire il concetto di popular music, nell’interesse sia degli ascoltatori, che dell’industria, musicisti compresi.

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