Le fattorie sociali sono un fenomeno crescente in Italia. Ma pensarle in toni solamente positivi può essere pericoloso
Era il 1978 quando la legge Basaglia fece in modo che i manicomi presenti in Italia chiudessero. L’obiettivo più grande che la legge raggiunse fu, con le parole dello psichiatra omonimo che la ideò, di aver dimostrato ci potesse essere «un altro modo di affrontare la questione; anche senza costrizione». Rifacendosi agli insegnamenti dello statunitense Thomas Szasz e a quelli dell’anti-psichiatria, Basaglia credeva che recludere i pazienti in strutture e circondarli solamente da malati e da persone che li trattavano come tali non potesse portare molto beneficio ai pazienti stessi. L’idea trovò ampio appoggio nell’Italia post sessantottina che aveva sperimentato negli anni precedenti la liberalizzazione degli insegnamenti classici e il progressivo smantellamento dei dogmi morali.
Grazie alla legge Basaglia i manicomi in Italia oggi non ci sono più, e le persone con problemi mentali vengono invece accolte in settori appositi di ospedali, in case di cura private, o… in fattorie. Quest’ultima affermazione non vi deve lasciare perplessi: stiamo parlando di un fenomeno che sta diffondendosi in Italia sempre più rapidamente, quello cioè dell’agricoltura sociale.
Agricoltura sociale: di cosa stiamo parlando?
L’agricoltura sociale è un concetto molto ampio, ma principalmente con il termine vengono definite quelle imprese agricole sotto forma di cooperative volte alla riabilitazione, terapia, impiego protetto, servizi educativi o altre attività di inclusione sociale. Tra queste, appunto, quelle di prendere persone considerate socialmente marginali (come possono essere i disabili a livello mentale o fisico, ma anche ex-detenuti, ex-tossicodipendenti, disoccupati di lungo corso, richiedenti asilo politico, persone soggette a discriminazioni e pregiudizi in generale) e inserirle nel contesto lavorativo di un’impresa agricola. A tali soggetti viene assegnato un impiego, che prevede, per alcuni più per altri meno, le stesse mansioni di altri lavoratori assunti in maniera convenzionale. Differenze, ovviamente, variano dalle capacità fisiche o mentali del lavoratore in questione: i proprietari della fattoria fanno presente all’organo di riferimento, il quale molto spesso è la Caritas o la ASL regionale, il tipo di lavoro che offrono e conseguentemente le abilità che il lavoratore dovrebbe possedere. Le fattorie non possono scegliere direttamente il lavoratore, ma possono mandarlo indietro nel caso non sia adatto alle attività da svolgere.
Ovviamente, nei casi più delicati (come i disabili mentali), i pazienti non vengono lasciati del tutto soli, anche perché non è detto che i proprietari delle fattorie abbiano le conoscenze mediche necessarie per poter trattare con i pazienti. Tutors sono sempre disponibili a raggiungere il paziente in caso di emergenza, ne seguono lo sviluppo durante la durata del contratto lavorativo, e lo accompagnano da e verso la fattoria mattino e sera.
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Chi e come
Caritas e ASL sono quindi i due principali organi nel contesto dell’agricoltura sociale. Funzionano un po’ come dei “centri di smistamento”, incaricati di mandare i pazienti nelle strutture e contesti più idonei verificandone le condizioni. Ad esempio, una delle limitazioni poste alle strutture riceventi pazienti dalle ASL è che non si usino sostanze chimiche e pesticidi. È una regola non scritta, poiché ad esempio la fattoria non deve provare di possedere il certificato biologico, quindi di fatto ci si affida alla sola parola. Ma d’altronde, la stessa legge che ha regolamentato la definizione di agricoltura sociale del 2015 ha imposto che tali fattorie debbano promuovere “iniziative di educazione ambientale e alimentare, alla salvaguardia della biodiversità nonché alla diffusione della conoscenza del territorio attraverso l’organizzazione di fattorie sociali e didattiche”. In una simile definizione troviamo molto più frequentemente la piccola fattoria che ha bisogno di allargare la propria visibilità (e possibilmente le proprie entrate) e la cui famiglia ne consuma i prodotti, per cui raramente impiega pesticidi o fertilizzanti chimici. E non importa di che tipologia di fattoria si stia parlando, poiché la normativa non pone limiti riguardo quali prodotti vengano coltivati o quali animali allevati. Ciò che viene enfatizzato invece sono gli effetti benefici delle “risorse materiali e immateriali dell’agricoltura” per il percorso terapeutico del lavoratore sociale. Quali animali o piante vi siano e il loro ruolo appare solo secondario, poiché, come alcuni sanno, lavorare nell’agricoltura coinvolge anche molto altro, come partecipare ai mercati, preparare la terra, processare materie prime.
I primi esempi
In Italia si contano ufficialmente un centinaio di fattorie sociali, ma i casi non registrati superano di gran lunga quelli officiali: cifre ottimistiche parlano di circa 3.000 casi, figure più realistiche suggeriscono invece circa 1.500 fattorie sociali. L’esempio delle fattorie sociali ci viene dall’estero, con paesi come Austria, Finlandia e Svezia a fare da pionieri. In Austria particolarmente pratiche di inclusione sociale sono attive già da tempo e dal 2006 sono state riconosciute dal governo.
L’Italia ha adottato pratiche di fattorie sociali solo recentemente, sebbene è opportuno ricordare che esempi prossimi e interessanti sono già presenti dai primi anni Settanta. Regioni all’avanguardia sono Toscana, Sicilia e Lazio, dove molto forte è l’azione della “Rete delle fattorie sociali” che aiuta partecipanti e interessati a muoversi in tale settore.
Perché si fa?
Nel caso di chi soffre di disabilità mentali o sociali, donando a queste persone un lavoro “vero”, l’agricoltura sociale fa in modo di aumentare le loro capacità e abilità, migliorando la loro vita sociale e riducendo il periodo, ove necessario, di ulteriore specializzazione, come riporta la overview della rete europea dello sviluppo rurale sull’agricoltura sociale. Bisogna inoltre tenere a mente che in molti contesti periurbani c’è spesso mancanza di servizi di cura sociale e medica, oppure sono distanti e difficilmente raggiungibili, ed esperienze parallele diventano utili e talvolta necessarie. I casi in cui i pazienti hanno trovato un vero beneficio non sono poi rari. Un esempio tra tanti è una fattoria toscana che è riuscita a creare impiego “reale” a una ragazza con disturbi mentali, i quali, nonostante i dieci anni di terapia in ospedale, non le permettevano comunicare verbalmente: dopo tre anni di lavoro in fattoria la ragazza ha ripreso non solo a parlare ma anche ad essere capace di lavorare al mercato della fattoria nel finesettimana.
Ovviamente, chi ne beneficia non è solo il lavoratore ma anche i proprietari delle fattorie stesse. Non servono particolari studi per convincerci che fare del bene al prossimo ci rende felici: e le fattorie che ospitano lavoratori sociali motivano la loro scelta con l’amore per la causa e la soddisfazione di sapere di fare del bene dando una seconda possibilità a persone disagiate. Abbiamo incontrato una fattoria sociale sempre nella regione Toscana, nella zona della Garfagnana, composta da una coppia ultraottantenni e i due figli di mezza età. Parlando con la sorella maggiore, ci ha confessato: «né io né mio fratello abbiamo figli. Vogliamo lasciare qualcosa in eredità a questo mondo, attraverso l’amore che un luogo come questo può dare a chi ne ha bisogno».
Ma chi paga il lavoro?
Tutto quello di cui abbiamo appena parlato è molto positivo. Ma sarà forse la nostra innata e crescente predisposizione a lamentarci, che concludere il tema dell’agricoltura sociale con un ‘e vissero tutti felici e contenti’ non ci sembra appropriato. Un agricoltore in Olanda, con cui abbiamo parlato, ci ha posto la spinosa questione di una fattoria vicina che utilizzava quasi solamente persone con disabilità mentali come forza lavoro. In Olanda lo Stato non solo paga il salario del lavoratore di una fattoria sociale, ma dispensa ulteriore denaro alla fattoria stessa perché le riconosce il ruolo di “tutore” verso la persona con disabilità. In questo modo, molte fattorie sociali sono più competitive perché possono abbassare i prezzi dei loro prodotti dato che ricevono ulteriore profitto rispetto alle fattorie convenzionali. Ed era proprio questo ciò di cui si lamentava il nostro contadino olandese: «Io voglio competere sul mercato offrendo contratti completi a lavoratori che devono portare avanti una famiglia. Molte fattorie sociali invece hanno un grande ricircolo di lavoratori sociali solamente per garantire un costante flusso di entrate extra».
Sebbene il sistema delle fattorie sociali olandese sia differente da quello italiano, anche in Italia i lavoratori di fattorie sociali vengono pagati dallo Stato: è giusto, poiché in fondo sono soldi nostri che (in teoria) forniamo attraverso le tasse, ed è corretto che tornino indietro. Ma allo stesso tempo, i provvedimenti di questo Stato sociale vanno a intaccare la delicata questione della creazione dei posti lavoro. Spieghiamoci meglio: nessuno mette in dubbio i tanti benefici, certamente molti più di quelli che abbiamo accennato in quest’articolo, delle fattorie sociali, ma lasciare che la manodopera di un settore portante dell’economia italiana sia lasciata al volontariato può scoraggiare i già molti dubbiosi a intraprendere una carriera in tale settore.
Ridefinire il volontariato
Perché per quanto il volontariato possa aiutare gli imprenditori a ridurre i costi di produzione, va a impoverire gli appartenenti a quella forza lavoro, i quali eventualmente devono comprare quei prodotti stessi.. Lungi dall’alzare argomentazioni assurde del tipo «ci rubano il lavoro», sarebbe meglio creare nuovi posti di lavoro, invece che solo modificarli. C’è anche da dire che lasciare che sia il privato a fare totalmente da tutore a chi ne ha più bisogno scarica le responsabilità che appartengono invece ad uno Stato sempre più assente e che poco riesce a comprendere le necessità del barcollante settore primario in Italia. Il settore agricolo, come altri, lo si riesce a tenere in vita solo rimuovendone alcuni costi, ad esempio saltando l’intermediazione e diventando fattorie sociali: tutto ciò a scapito però, come detto, di chi si è costruito una vita su tali impieghi. Rafforzare solo chi sta in “cima” a una qualsiasi azienda di qualsiasi settore finisce con l’indebolimento del mercato interno, la riduzione del potere d’acquisto e della volontà dei consumatori di attenersi ad un’economia nazionale che premia le strategie più furbe a scapito di quelle socialmente utili. Fare il volontariato è indubbiamente socialmente utile, ma in ugual modo lo è anche creare un’economia equilibrata e sostenibile. Come disse qualche anno fa Joy Noble, una delle menti più importanti nel mondo del volontariato e premiata dal governo australiano nel 2002 come Membro dell’Ordine dell’Australia, «i motivi dei volontari possono essere vari, ma privare i lavoratori salariati di un reddito non è tra questi».
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