Il corpo è la nostra interfaccia sul mondo, ed essere in possesso di un corpo, anzi in un certo senso abitarlo, è forse la prerogativa dell’esistenza stessa. Senza di esso probabilmente non esisteremmo e di fatto gran parte dell’energia consumata dal cervello viene usata per monitorare e correggere – istante per istante – tutti gli innumerevoli processi fisiologici in atto. Molti dei circuiti cerebrali dediti a quest’attività – soprattutto quelli più primitivi – sono stati mappati, rimane tuttavia da comprendere come questi si integrino con l’attività dei circuiti più recenti dal punto di vista evolutivo. Uno degli aspetti più elusivi quando si parla di monitoraggio e correzione dei processi fisiologici è proprio la rappresentazione del corpo: come e dove vengono integrate le informazioni provenienti dai visceri, vista, udito e tatto, senza dimenticare tutta la parte di propriocezione, ossia il senso della posizione del corpo nello spazio indipendente dalla vista?
La percezione del corpo, dal punto di vista qualitativo, dipende dall’integrazione di una moltitudine di segnali di natura molto diversa e dal confronto di questo processo con la rappresentazione astratta che abbiamo di esso. Straordinario è notare come, in condizioni normali, tutto questo avvenga senza la nostra consapevolezza e in modo del tutto automatizzato, da prima della nascita fino alla nostra morte. Altrettanto affascinanti e quasi grottesche sono anche tutte le condizioni cliniche legate alle aberrazioni nella percezione del corpo: dal negare totalmente l’esistenza di una sua metà, al credere che un arto sia stato perso o rubato, per finire coll’essere convinti che la propria testa stia occupando tutta la stanza. Una parte consistente della ricerca, in quest’ambito, è legata alla manipolazione dell’immagine corporea: in determinate circostanze sperimentali è infatti possibile indurre dei soggetti sani a incorporare una mano, un piede di gomma o addirittura un intero manichino nella propria rappresentazione di corpo.
Arti fantasma, corpi a metà, braccia rubate e desideri di amputazione
Una delle condizioni cliniche più note è sicuramente quella dell’arto fantasma: a seguito di un’amputazione, viene spesso riportata la sensazione anomala di persistenza dell’arto amputato. Coloro i quali ne soffrono sentono dolore, avvertono movimenti o sensazioni tattili nella parte mancante del corpo. La sindrome dell’arto fantasma esemplifica al meglio l’enorme plasticità del cervello. È infatti ben noto come la superficie del corpo sia mappata molto precisamente a livello cerebrale: ciò significa che la stimolazione di un punto preciso del corpo attiva in modo molto selettivo una determinata regione del cervello. La mappatura a livello cerebrale è controlaterale rispetto al corpo, quindi la metà di destra viene mappata nell’emisfero sinistro e viceversa. Questa scoperta ha portato alla creazione di un vero e proprio “omuncolo somatosensoriale”, le cui proporzioni non seguono quelle riscontrate nel mondo reale, ma dipendono dalla densità di recettori presenti sul corpo. Labbra, viso, mani e piedi sono quindi sovrarappresentati, ossia la superficie cerebrale a loro dedicata è maggiore rispetto a quella prevista, per esempio, per le braccia e le gambe.
Non sono solo le proporzioni dell’omuncolo a essere sfasate, ma anche l’ordine in cui le varie parti del corpo sono rappresentate nel cervello. Si pensa che nel caso di un’amputazione la superficie cerebrale dedita alla rappresentazione dell’arto in questione si restringa, venendo letteralmente invasa da quelle circostanti. Ciò è perfettamente in linea con quanto osservato nei pazienti affetti da sindrome dell’arto fantasma, i quali riportano per esempio di sentire il braccio mancante quando vengono accarezzati sul viso, due regioni del nostro corpo mappate in zone limitrofe del cervello. La sindrome è caratterizzata da un forte disagio psicologico e le terapie al riguardo latitano. Per quanto ancora molto sperimentale, una semplice scatola con due fori (uno per arto) e provvista di uno specchio al centro si è rivelata essere una terapia efficace. L’immagine speculare dell’arto ancora presente ricorda quello mancante e semplicemente osservarne il movimento riflesso sembra attenuare non poco il dolore.
Concettualmente speculare è invece l’emisomatoagnosia. Come spesso accade per le sindromi cliniche, il modo migliore per ricordarsi i loro nomi e capire come si manifestano è scomporre le parole nelle loro parti costituenti: abbiamo quindi “emi” (mezzo), “somato” (corpo) e “agnosia” (non conoscenza). Nella forma più grave l’emisomatoagnosia consiste quindi nel negare di possedere metà del proprio corpo. Due le principali variazioni al riguardo: nella prima il paziente è conscio di questa mancanza e si lamenta quindi di un’amputazione, mentre nella seconda la parte in questione o l’arto vengono semplicemente dimenticati ed è come se smettessero di esistere. L’emisomatoagnosia sembra essere la conseguenza di danno neurologico, dove l’emisfero destro e in particolar modo il lobo parietale sono colpiti più frequentemente rispetto all’emisfero sinistro, anche se la prima variante sembra essere più frequentemente associata ad attacchi epilettici e forti attacchi di emicrania. La forma non conscia dell’emisomatoagnosia viene oggi classificata come una forma particolare di negligenza spaziale unilaterale, un disturbo di più ampia portata in cui il paziente nega l’esistenza della porzione di mondo controlaterale alla lesione (per esempio mangia solo la metà di un piatto o scrive solo su metà foglio). Quest’ultimo disturbo è spesso la conseguenza di una lesione dell’emisfero parietale destro.
Meno note sono la somatoparafrenia e la xenomelia. La prima si caratterizza per un delirio selettivo verso un arto, il quale viene sentito come estraneo, attribuito a un’altra persona (spesso un conoscente o il medico curante) e di cui si desidera l’amputazione: nella variante più rara invece i pazienti sono convinti che un arto gli sia stato rubato. All’apparenza molto simile è la xenomelia: anche in questo caso si parla di un desiderio di amputazione, ma le motivazioni sono completamente diverse. Alla base del desiderio sembrerebbe esserci una concezione distorta del concetto di corpo, nella quale esso possiede meno di quattro arti. L’amputazione viene vista come un mezzo per ristabilire l’identità, e infatti, in letteratura, si parla di xenomelia anche come body integrity identity disorder (biid).
Seppure spesso discusse insieme e trattate come condizioni cliniche molto simili, somatoparafrenia e xenomelia sono profondamente diverse. Innanzitutto la somatoparafrenia è un disturbo transitorio dovuto a un danneggiamento molto selettivo di alcune zone del cervello (anche in questo caso danni all’emisfero destro sono più frequenti) ed è trattabile tramite stimolazione calorica vestibolare, ossia tramite un’alternanza di getti caldi e freddi diretti sull’apparato vestibolare, l’organo responsabile della propriocezione. Studi recenti hanno dimostrato come sia possibile migliorarne i sintomi obbligando i pazienti a osservare l’arto incriminato allo specchio. L’ipotesi è che quindi il disturbo sia dovuto a una mancata integrazione tra la prospettiva in prima e quella in terza persona. Molto meno, invece, è noto riguardo la xenomelia/biid. I pochi studi di neuroimaging esistenti sembrano convergere verso anomalie strutturali e funzionali dei circuiti di ordine superiore dediti alla rappresentazione del corpo. Il desiderio di amputazione sembrerebbe quindi essere il risultato di un errore nell’integrazione delle varie componenti implicate nella sua percezione. Rimangono ignote le cause e manca una terapia: l’amputazione sembra essere l’unico rimedio al profondo malessere psicofisico che accompagna chi soffre di questo rarissimo disturbo.
La carrellata riguardo i disturbi della percezione del corpo termina con una serie di condizioni cliniche nelle quali è la percezione della sua totalità a essere compromessa. Tra i casi più affascinanti vi è sicuramente la percezione di un doppione di sé stessi. Il Doppelgänger può essere solamente percepito, come una presenza invisibile ma costante, oppure può essere visto, ed è anche la prospettiva sotto la quale si vive l’esperienza a poter cambiare: quello che noi chiamiamo “il sé” (e quindi anche la prospettiva in prima persona) può essere localizzato nel proprio corpo, alternarsi tra il nosrto corpo e il doppione oppure risiedere stabilmente in quest’ultimo, dando luogo a una vera e propria esperienza ultracorporea.
Altrettanto affascinanti sono la sindrome da Alice nel paese delle meraviglie e la sindrome di Cotard. La prima si caratterizza per uno sfasamento totale nella percezione di sé stessi in relazione allo spazio circostante: per esempio, i pazienti credono di riempire fisicamente tutta la stanza in cui si trovano. Nella variante pù grave della sindrome di Cotard i pazienti sono convinti di essere morti. La variabilità nei circuiti neuronali coinvolti in questi disturbi è enorme: nel caso dei doppioni si osserva spesso una forte componente vestibolare, mentre la sindrome da Alice nel paese delle meraviglie sembra essere dovuta ad attacchi di emicrania, i quali potrebbero portare a una riconfigurazione transitoria dei circuti neuronali implicati nella vista.
Completamente diverso, invece, è il discorso riguardante la sindrome di Cotard: alla base del disturbo potrebbe esserci un deficit mnemonico a causa del quale si perderebbe l’associazione tra uno stimolo (in questo caso sé stessi e/o il proprio corpo) e il ricordo associato ad esso. Questa situazione porterebbe poi a sintomi di derealizzazione e depersonalizzazione, e quindi al delirio, dato che senza la sensazione di familiarità per sé stessi verrebbe a mancare anche la risposta emotiva associata a questo ricordo. La natura dello stimolo non conta: può essere la propria immagine riflessa nello specchio o il segnale proveniente da tutti quei circuiti dediti al controllo dello stato interno del corpo.
Manipolare i confini del corpo e la percezione del mondo
Non vi è dubbio alcuno riguardante l’utilità dei casi clinici nel comprendere i meccanismi alla base della percezione del corpo. Altrettanto interessante è però la ricerca sui soggetti sani. Uno degli esperimenti più famosi riguardo alla percezione del corpo è quello dell’illusione della mano di gomma. L’esperimento consiste nel far sedere il soggetto a un tavolo, chiedendogli di poggiare una mano sul tavolo. La mano in questione viene schermata, in modo da risultare non visibile. Una mano di gomma, in tutto e per tutto simile a una vera, viene posta di fronte al soggetto, ed entrambe la mani vengono stimolate in modo sincrono. Dopo circa un minuto di stimolazione, alcuni partecipanti dicono di percepire l’arto di gomma come se fosse il proprio.
A livello fisiologico viene spesso osservata una diminuizione della temperatura e della conduttanza elettrica nella mano vera. Inoltre, nel momento in cui ai partecipanti viene chiesto di indicare la posizione della mano schermata, le stime sono completamente distorte: la mano vera viene erroneamente percepita più vicina a quella finta. L’esperimento è stato replicato innumerovoli volte, con numerossisime varianti (piedi al posto delle mani, stimolazione asincrona o con altri oggetti al posto degli arti) ed esteso a tutto il corpo. L’illusione della mano di gomma dimostra come sia possibile incorporare un oggetto esterno nella propria rappresentazione di corpo.
Un’altra linea di rircerca altrettanto interessante è la realtà virtuale. Studi recenti hanno dimostrato come impersonare un avatar di un bambino o quello di un obeso modifichi la percezione degli oggetti al di fuori della simulazione: per esempio, dopo aver impersonificato un bambino si tende a sovrastimare la grandezza degli oggetti nel mondo reale. Nonostante siamo ancora lontani dallo spiegare i meccanismi neurofisiologici e neuropsicologici alla base di questi risultati, le prime applicazioni cliniche non mancano. Uno studio condotto in Olanda con pazienti anoressiche ha evidenziato come sia possibile modificare la percezione del proprio corpo a seguito della variante full body dell’illusione della mano di gomma. Uno dei sintomi cardine del disturbo è una percezione distorta del proprio corpo: le pazienti anoressiche (l’anoressia è un disturbo a prevalenza fortemente femminile) si vedono grasse indipendentemente dalla loro taglia attuale, e uno dei punti cruciali della terapia riguarda il ristabilimento della giusta immagine corporea. Dopo aver preso parte all’esperimento, le pazienti hanno migliorato la percezione del loro corpo, stimando con maggior precisione la circonferenza di bacino, vita e addome.
Il corpo è allo stesso tempo oggetto e soggetto di analisi. Questa sua peculiarità eleva non di poco sia l’interesse nei suoi confronti, sia la difficoltà nel momento in cui bisogna capire i meccanismi all’origine della sua percezione. Incorporare in modo oggettivo la parte soggettiva dell’esperienza legata al possedere un corpo è quindi di gran lunga l’aspetto essenziale e allo stesso tempo quello più difficile a cui questa area di ricerca deve rispondere. Carpire i segreti della percezione del corpo potrebbe portare a nuove e importanti applicazioni in molti ambiti, sollevando allo stesso tempo altrettanto importanti quesiti etici.