Le basi sul clima
Il presupposto è molto semplice: il cambiamento climatico esiste ed è causato dall’uomo. Nonostante quello che qualche persona più o meno bene informata può decidere di dire sull’argomento (il presidente degli Stati Uniti d’America, ad esempio), il consenso scientifico su questi dati è piuttosto unanime. È anche abbastanza unanime la parte successiva del discorso: siamo messi male. I ricercatori non lo dicono in questi termini perché sono, appunto, accademici. E in quanto accademici devono utilizzare un lessico appropriato ed essere sempre estremamente prudenti su ogni affermazione che fanno; non perché non credano nella verità delle proprie tesi, ma perché non esiste in nessun caso la certezza al 100%. Questo non vuol dire che ci siano dubbi sulla natura del cambiamento del clima – le conoscenze attuali non lasciano spazio a particolari dubbi: ci si interroga su quanto sia importante l’impatto, non se questo impatto ci sia – questo vuol dire semplicemente che ci potrebbero ipoteticamente essere altre ragioni dietro al cambiamento climatico. Anche se, ad oggi, non c’è nessuna base per affermarlo.
Per colpa di questa loro prudenza, e per evitare allarmismi, gli accademici evitano di mettere la faccenda nei termini più espliciti possibili, e quindi tocca agli scrittori usare i termini che loro non possono utilizzare, dicendo che la situazione è gravissima. Non è una faccenda oggetto di discussione. È un fatto, come è un fatto dire che 2+2=4. Non esiste teoria che possa spiegare questo aumento di temperatura con le sole cause naturali; o meglio, ne esiste anche più di una, ma nessuna che stia in piedi: la temperatura sta salendo troppo e sta salendo troppo velocemente. Tutti gli studi, tutti i ricercatori, tutte le nozioni che abbiamo sul clima ci gridano una sola cosa, a gran voce: le cose vanno male. La discussione non è sul “se” del cambiamento climatico; la discussione è sul “quanto”.
Ma davvero le cose vanno così male?
La risposta breve è “sì”. E con “la situazione è grave” non si intende “la faccenda va male, ma via, se faccio la raccolta differenziata e compro la marmellata biologica ecosolidale a chilometro zero dalle terre sottratte alla mafia la cosa si sistema“. Per niente. Anche se comprare la marmellata biologica ecosolidale a chilometri zero dalle terre sottratte alla mafia è importante.
Con “la situazione è grave” si intende che il famigerato tetto dei 2 gradi centigradi di innalzamento della temperatura media, quello che porta le catastrofi, sarà superato. Ed è un punto su cui concordano tutte le stime -quelle catastrofiche, quelle prudenti, quelle ottimiste: ripeto, tutte. Gli effetti sono abbastanza prevedibili, e li stiamo vedendo già oggi; i ghiacciai si sciolgono, i mari salgono, il caldo si fa torrido, il deserto avanza e le siccità si fanno sempre più frequenti, intense e durature. Uso il presente e non il futuro perché questo lo stiamo già vedendo adesso; cambierà semplicemente la magnitudine di questi fenomeni, ma non il fatto che accadranno. In altre parole, dovremo abituarci a quella che sarà la norma.
Bisogna anche fare attenzione al fatto che, pure se smettessimo in questo esatto istante di emettere gas serra, la temperatura continuerebbe a salire. I gas già presenti nell’atmosfera, infatti, continuerebbero lo stesso ad assorbire calore. Quanto tempo è necessario per riassorbirli è una faccenda spinosa: la NASA sostiene che permangono nell’atmosfera per centinaia di anni, ma trattandosi di parecchi gas diversi, ognuno con il proprio ciclo di vita, in realtà la faccenda è un po’ più complessa; si va dai pochi giorni del valore acqueo alle migliaia di anni dei composti del cloro.
Però abbiamo firmato l’accordo di Parigi! Vuol dire che non serve a niente?
Così com’è, l’accordo di Parigi cambia molto ma non cambia abbastanza. Una panoramica sulla situazione generale la si può trovare qui, ma in sintesi, anche rispettandolo nei termini attuali, che prevedono di porre un tetto alle emissioni entro il 2030, la faccenda non cambia di molto. Nonostante tutto, però, ci sono comunque alcuni lati positivi nella situazione attuale.
Il primo è che, comunque, qualcosa abbiamo fatto e l’accordo di Parigi è un punto ottenuto; certamente gli esperti lo ritengono più un minimo non negoziabile che un traguardo da raggiungere, ma l’altro lato positivo è che i governanti su questo concordano: parlano infatti di obiettivi iniziali, da rinforzare a scadenze regolari – ogni cinque o dieci anni. Ovviamente non il meglio possibile, ma un inizio. Persino Cina e Stati Uniti -storicamente i due maggiori oppositori a politiche di questo tipo- si sono messi d’accordo per non mandare il mondo a rovescio.
Però l’America ha cambiato idea
Quando ancora Obama era presidente, Donald Trump firmò con altri uomini d’affari un appello riguardante il dialogo sul clima a Copenhagen, pregandolo di controllare il cambiamento climatico. Una posizione a cui non era troppo affezionato, dato che a inizio giugno questo stesso Donald Trump ha annunciato che proteggerà il suo paese da un accordo, dice, “ingiusto”, ritirandosi quindi dagli impegni presi. Il patto l’hanno firmato tutti, tranne Siria e Nicaragua – l’una non inquinerà ancora per un bel po’, l’altra verosimilmente non inquinerà mai.
Le ragioni dietro a questa decisione sono prettamente di comunicazione politica. In primo luogo Trump ha comunicato chiaramente al proprio elettorato che l’America viene prima del mondo, rafforzando il proprio consenso. A questo si aggiunge il peso di diversi movimenti conservatori, che hanno un certo astio – nemmeno troppo nascosto – nei confronti dei movimenti ecologisti, che vedono come socialismo mascherato. E in ultimo molti lavoratori americani lo sostengono in questa azione, più preoccupati di questioni imminenti, come può esserlo il proprio posto di lavoro e il proprio stile di vita, che di problematiche come il cambiamento climatico, percepite come lontane e indefinite. Peraltro, aggiungono, la Cina è un inquinatore peggiore degli USA. Ed è vero, la Cina è il paese più inquinante al mondo. Ma gli Stati Uniti vengono al secondo posto, e la Cina accetta il Trattato di Parigi mentre gli Stati Uniti no.
Il resto del mondo prosegue imperterrito nella sua strada; le emissioni vanno ridotte e saranno ridotte, negando ogni possibilità di fare nuovi negoziati. Una posizione dovuta anche al fatto che rinegoziare tutto il trattato vorrebbe dire aprire di nuovo alla possibilità che fallisca; per accontentare un capriccio americano è un po’ troppo.
Ma alla fine cosa dice l’accordo di Parigi?
Firmato da 197 nazioni, di cui 157 l’hanno già ratificato, sostanzialmente si pone un obiettivo – quello di tenere le emissioni sotto i due gradi – e stabilisce tre modi per raggiungerlo. Sono tutti consapevoli che gli sforzi stabiliti non siamo sufficienti per raggiungerlo, ed è quindi accettato il fatto che ogni cinquedieci anni verranno fissati nuovi target. Attualmente i modi per raggiungere l’obiettivo sono tre:
1) Il principale, tagliare l’emissione di gas serra ai livelli che possono essere assorbiti dalla natura – un progetto di lungo periodo, da affrontare nella seconda metà del secolo;
2) Rivedere gli obiettivi ogni cinque anni per portarsi al passo con i tempi;
3) Gli stati ricchi aiutano economicamente gli stati poveri, in modo che questi possano sostituire i vecchi e inquinanti macchinari vecchi con nuovi ed efficienti macchinari che utilizzino energia rinnovabile, e la utilizzino in modo più efficiente, oppure direttamente saltare i combustibili fossili.
Il protocollo di Kyoto, il precedente trattato sul tema, era fallito perché avevano aderito solo alcuni paesi sviluppati – fra cui non gli USA – e non i giganti inquinanti di Brasile, Cina e India. Inoltre, data la natura non vincolante del trattato, molti non l’hanno rispettato. Parimenti il trattato di Parigi non è vincolante: si è scelto di fare un trattato di questo tipo per evitare il rischio che si trasformasse in un flop a causa della paura di alcuni paesi che questo trattato venisse usato per mettere le manette alla loro politica. In altre parole, ci si affida alla buona volontà dei singoli paesi, che sanno come la situazione sia grave. Allo stesso modo non vengono nemmeno fissati dei modi per ridurre le emissioni di gas serra; la paura che il trattato si bloccasse sulle questioni tecniche era troppa, e si è preferito scegliere le poche certezze presenti a migliorie che avrebbero potuto piantare le trattative.
E ora col clima che si fa?
Abbiamo diversi approcci, tutti molto banali: si utilizza meno energia, si utilizza quella che viene da fonti pulite e nel frattempo ci si adatta ai cambiamenti che inevitabilmente avverranno.
Nonostante l’apparente banalità, mettere in pratica questi propositi è complicato. La prima questione è che non sappiamo cosa sia una fonte pulita. Tutte le fonti pongono problemi, e tagliare le due più affidabili, petrolio e carbone, è una mossa facile da dire, ma difficile da portare a termine: con cosa le si sostituisce? Eolico, solare, geotermico e idroelettrico sono tutti, per motivi di energia prodotta, di affidabilità, di efficienza, inadatti a rimpiazzare i due giganti. Resta il nucleare, ma nonostante le centrali di nuova generazione siano effettivamente sicure, resta il problema delle scorie, oltre a quello della ritrosia del pubblico a piazzarsi una potenziale bomba atomica sotto casa.
Questo con la tecnologia che abbiamo oggi. Qual è l’impatto sul clima delle tecnologie di domani?
Il primo e più potente alleato in questa battaglia è l’informatica. I processori hanno raggiunto praticamente l’apice della loro carriera – processori dal costo sempre più basso possono effettuare un gran numero di operazioni – rendendo possibile automatizzare e ottimizzare diversi processi che oggi sono gestiti a mano da operatori umani, passibili di errore. Certo, consumano energia, ma l’utilizzo estremamente più efficiente delle risorse vale il prezzo. Per dare un’idea, si stima che nel 2020 l’informatica produrrà quasi un miliardo e mezzo di tonnellate di CO2, ma potrebbe bloccare l’emissione di una quantità di gas cinque volte superiore. E anche senza considerare i gas serra, innovazioni come l’irrigazione automatizzata dei campi, i trasporti gestiti in maniera centralizzata da un programma, possono gestire le risorse in maniera sempre più efficiente; se ne produce di più e se ne spreca di meno. I più visionari sperano che l’intelligenza artificiale ci tolga le castagne dal fuoco: nonostante tale scenario rimanga difficile da immaginare, gli algoritmi di deep learning saranno comunque una strada obbligata in diversi settori. Altre strade, come l’utilizzo della fusione nucleare per scartare tutte i vecchi mezzi per generare energia, sono fattibili solo su tempi molto più lunghi.
E cosa possono fare i privati?
In parole povere, quasi niente, e troppa propaganda ci ha convinto di avere in mano un potere che non abbiamo. Nonostante tutte le belle parole che sentiamo dire spesso, infatti, sfortunatamente è quasi tutto in mano ai legislatori: il privato può decidere di utilizzare meno trasporti, può diventare vegetariano e staccare la spina agli apparecchi che non usa, ma in realtà si parla comunque di azioni che, se svolte dal singolo, hanno più valore dimostrativo che altro. Anche utilizzare poca acqua, un ritornello che si sente tanto spesso, ha l’utilità che ha: non è che l’acqua si possa portare fisicamente da dove c’è a dove non c’è; va razionalizzato l’uso quando si è in una situazione di siccità – come a Roma – ma nelle altre situazioni è inutile (e tende anzi a essere dannoso se troppe persone lo fanno; gli impianti fognari sono stati concepiti tenendo a mente un flusso continuo di acqua; se questo viene a mancare, le feci restano a stazionare dove sono e danneggiano le strutture).
Purtroppo, a meno di un radicale cambio nello stile di vita che distruggerebbe l’economia e diversi posti di lavoro, il privato non ha davvero una parte in tutto questo. La vera partita la giocano coloro che inquinano davvero, ovvero le industrie; noi possiamo soltanto utilizzare meno la macchina e lasciare parlare gli esperti. Fa poco, ma almeno permette di lavorare a chi sa cosa fare.